La maggioranza di coloro che discorrono di scuola non sa cosa sia la scuola. Non perché se ne parli per sentito dire – oddio, accade anche questo, in Italia tutto si fa a orecchio – e non perché se ne parli senza esperienza.
Anzi, intellettuali, insegnanti, giornalisti, dirigenti, politici, sindacalisti, genitori sciorinano dati, statistiche, pedagogie, leggi, commi e si muovono sul terreno della scuola come se fossero nel salotto di casa.
Ma il dramma è proprio questo perché in quel salotto di casa che è diventata la scuola italiana manca la salutare distinzione tra scuola e Stato senza la quale i due concetti e relativi atti si confondono non lasciando emergere la particolarità del fenomeno della scuola che o si fonda sulla libertà o nasce avvelenata.
Luigi Einaudi usava proprio questa espressione e diceva che il valore legale del titolo di studio ha immesso nella scuola un veleno e fino a quando il veleno non sarà tolto la scuola sarà intossicata. Il veleno ha un nome preciso: statalismo.
Coloro che discutono sulla scuola per vari motivi – riforme, propaganda, lavoro – lo fanno a partire dalla posizione statalista come se la scuola di Stato fosse un frutto della natura. Così facendo si riduce la scuola ad una mera emanazione dello Stato o ad una sua funzione mentre la scuola è un bisogno morale degli uomini e un’esigenza della società.
Gli statalisti riducendo la scuola allo Stato creano un problema senza soluzione molto simile ad un manicomio in cui non esistendo una cura ci si limita a spostare i pazzi e le pazzie da una stanza all’altra, da una corsia all’altra, da un giardino all’altro.
Con la differenza che mentre i medici dei pazzi sanno che non c’è la cura e si acconciano ad alleviare le umane troppo umane sofferenze, gli statalisti ritengono che le loro teorie e magnifiche sorti e progressive del secol superbo e sciocco siano degli utilissimi rimedi e così a pazzia aggiungono pazzia spingendo alla follia anche chi entrato sano nella scuola-manicomio ne uscirà pazzo.
L’argomento forte che gli statalisti usano per giustificare la riduzione della scuola a scuola di Stato è l’eguaglianza. La scuola – dicono – è pubblica e lo Stato deve garantire a tutti il diritto allo studio e rimuovere le differenze economiche e sociali tra chi può e chi non può in modo che tutti possano in modo eguale. Ma è un argomento che fallisce proprio là dove crede di riuscire.
1) Primo perché la scuola non è pubblica in quanto statale ma, al contrario, può diventare statale perché è pubblica per natura.
2) Secondo perché il monopolio della scuola di Stato non è più fonte di eguaglianza ma di discriminazione: infatti, chi può studia all’estero in scuole migliori o in Italia in scuole straniere mentre chi non può si accontenta della minestra statale.
3) Terzo perché persino il diritto allo studio non è più garantito dalla scuola di Stato che per soddisfarlo deve far ricorso al sistema delle scuole parificate.
Ma il punto fondamentale per capire che lo statalismo è l’ingresso e non l’uscita dal manicomio è nella esclusione del pluralismo e nel trionfo del conformismo. I sistemi scolastici, in fondo, sono solo due: la scuola di Stato e la scuola libera.
La differenza è rilevante: mentre il primo esclude e nega il secondo, il secondo include e afferma il primo. Insomma, mentre il sistema della scuola di Stato o sistema napoleonico vigente in Italia non tollera la scuola libera, il sistema della scuola libera afferma anche l’esistenza della scuola statale.
Lo statalismo nega per partito preso la possibilità che nella società possano nascere diversi metodi educativi e più modi di fare scuola. Ma rinunciare alla pluralità e alla inventiva scolastica non è stupido e discriminante? Alla fine allo statalismo scolastico viene meno anche il suo argomento egalitario: è proprio lo statalismo che genera diseguaglianza.
Il recupero dell’autorevolezza della scuola di Stato – perché c’è stato un tempo in cui la scuola di Stato era autorevole – è nel passaggio al sistema della scuola libera che nasce con la fine del valore legale del titolo di studio.
Gli uomini politici avveduti – da qualche parte ci dovranno pur essere, da qualche parte rispunteranno – non devono temere di mettere in discussione il dogma dello statalismo scolastico e non devono aver paura della libertà della scuola giacché è proprio nella libertà della cultura che si genera e rigenera la vita democratica.
Ognuno faccia la scuola che vuole: chi vuole la scuola di Stato frequenti la scuola di Stato; chi preferisce la scuola fondata da privati, fondazioni, associazioni, comuni la scelga; chi vuole sperimentare sperimenti; chi desidera la tradizione vada in una scuola tradizionale; chi stravede per i pedagogismi alla moda li adotti; chi vuole don Milani si tenga don Milani, chi vuole i genitori a scuola se li tenga.
Ognuno si scelga la pazzia che gli aggrada senza pretendere che la sua pazzia sia la cura migliore per gli altri.
L’unica vera cura per tutti e per nessuno è la libertà perché solo nella libertà, con la sua connaturata dialettica con l’autorità, la scuola ritorna a scuola, la matematica all’aritmetica, la lingua italiana alla letteratura, la letteratura alla critica, la poesia all’estetica, la filosofia al pensiero, la storia alla storiografia, il greco all’aoristo, il latino all’ablativo, le professioni alle professionalità, la docenza all’autorevolezza, l’apprendimento alla necessità, il maestro al suo allievo, l’allievo al suo maestro.