La discussione sulla prescrizione è diventata ( o, forse, lo è sempre stata) una occasione di continua polemica politica, un campo di confronto tra opposte visioni della giustizia: quasi tra garantisti e giustizialisti, tra innocentisti e forcaioli. Ma non dovrebbe essere così. Nel mio precedente intervento, pubblicato sul Dubbio del 15 novembre, ho cercato di indicare le ragioni per le quali la prospettata sospensione ( rectius, abolizione) della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, a far data dal 1° gennaio 2020, addirittura pure in caso di assoluzione, non sia una soluzione ragionevole e, dal mio punto di vista, costituzionalmente legittima.
Lo ribadisco nuovamente, per evitare che letture superficiali possano fraintendere e strumentalizzare la mia posizione: quando interviene la prescrizione si verifica una sconfitta per lo Stato, una mancata tutela per le persone offese, un grave danno per tutti i soggetti indagati o imputati, non colpevoli ( articolo 27, comma secondo, Cost.) o innocenti ( articolo 6, comma secondo, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), sino alla ( eventuale) sentenza definitiva di condanna.
Ma i rischi per la libertà personale e le stesse libertà politiche di tutti noi sono troppo grandi e concreti per immaginare di eliminare, semplicisticamente, la prescrizione. Inoltre, e forse soprattutto, tale “rimedio” non cura la malattia, ma ne elimina esclusivamente gli effetti più evidenti. Mi spiego meglio. La riforma Bonafede incide solo sulla fase successiva all’intervenuta decisione di primo grado: ma, in realtà, la prescrizione che interviene, oggi, dopo tale fase ( e senza che abbia ancora dispiegato i suoi effetti la riforma Orlando, che ha aumentato, di fatto, la prescrizione di tre anni dopo la sentenza di condanna di primo grado), è una piccolissima parte di tutte le prescrizioni che riguardano i reati.
Infatti, secondo i dati forniti dallo stesso ministero della Giustizia, nel 2018 i procedimenti penali prescritti in Corte d’appello e Cassazione ( per cui opererebbe il blocco) sono stati 29.862: certo, comunque troppi. Ma la fase nella quale si concentra il maggior numero di prescrizioni è quella delle indagini preliminari ( circa il 41%), e il 75% delle prescrizioni matura entro il primo grado di giudizio: non verrebbe, quindi, toccato dalla riforma.
Peraltro, il blocco della prescrizione dopo il primo grado avrebbe conseguenze molto differenti sul territorio nazionale, perché la percentuale di prescrizione cambia molto da una Corte d’appello all’altra: dal 40% ( circa) a Roma, Catania, Venezia, Torino, al 10% ( circa) di Milano, Lecce, Palermo, Trieste, Caltanissetta e Trento. Con la conseguenza, paradossale, che chi è lento lo sarebbe ancora di più, poiché su quelle realtà si affastellerebbero circa 30.000 procedimenti in più ogni anno, con un vulnus evidente al principio costituzionale di eguaglianza ( articolo 3 Cost.), che la Repubblica dovrebbe, invece, garantire, rimuovendo gli ostacoli alla sua affermazione.
Cosa fare, allora? Per quanto riguarda gli aspetti riconducibili al diritto penale sostanziale, credo che la via maestra per abbreviare i tempi del processo possa essere rappresentata dalla riduzione della sfera del penalmente rilevante: è evidente che la macchina giudiziaria non regge il carico. Ma deve essere il legislatore a effettuare le opzioni di fondo, con la abrogazione o con la depenalizzazione; altrimenti, ci si deve affidare alle discrezionali scelte del pubblico ministero, in materia di selezione del materiale, e del giudice, con gli sdrucciolevoli istituti della sospensione del processo con messa alla prova e, soprattutto, della “particolare tenuità del fatto”. Poi ( come già sostengo da anni) ci si potrebbe limitare, per evitare un eccessivo favor rei nel quadro di un istituto già mitigatore, quale la continuazione di reati nel nostro Paese, a tornare alla disciplina di decorrenza del termine della prescrizione vigente prima della modifica dovuta alla ex Cirielli nel 2005, in modo che il termine della prescrizione decorra dal giorno in cui è cessata la continuazione ( e non più, come oggi, dalla consumazione del singolo reato): su questo punto, la mia proposta coincide con quella prevista dalla legge del 2019, a testimonianza, credo, del fatto che le mie non sono scelte ideologiche.
Nel campo processuale, si potrebbero ( tra le varie misure possibili) prevedere sempre notifiche telematiche, imponendo a tutti i soggetti comunque coinvolti nel procedimento penale – quindi, persone informate sui fatti, testimoni, consulenti – di attivare, dopo la prima notifica, una Pec ( magari a spese dello Stato). Inoltre, si dovrebbe limitare ulteriormente il dibattimento ai soli casi di ampia valutazione, incentivando in misura più decisa l’accesso ai riti alternativi. In tal senso, forse occorrerebbe ampliare lo sconto di pena per l’accesso ai riti ( in particolare per il patteggiamento, che è “fino” a un terzo, mentre per l’abbreviato è di un terzo”) e aumentare il limite di 5 anni attualmente previsto per il ricorso al patteggiamento.
Naturalmente, si potrebbe intervenire anche sui profili ordinamentali, gestendo cioè più razionalmente le esigue risorse esistenti, e sperabilmente sul versante della copertura di tutti gli organici ancora vuoti, sia per quel che attiene ai magistrati che per quel che concerne il personale amministrativo: ma occorrerebbe spendere, mentre, more solito, anche la riforma Bonafede ( articolo 1, comma 29) afferma che «dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Tutte queste misure mi sembra potrebbero incidere sulla durata ragionevole del processo ( articolo 111, secondo comma, Cost. e articolo 6, primo comma, Cedu), senza violare i diritti inviolabili della difesa ( articolo 24, comma secondo, Cost.).
Ma occorrerebbe ragionare e ipotizzare riforme che offrano frutti effettivi, sebbene non immediati, e durino nel tempo… cioè non si prescrivano, come talune recenti ipotesi, nello spazio di un mattino, dopo notti insonni.
*articolo pubblicato su Il Dubbio del 21.11.2019