Il periodo della campagna elettorale (non molto più felice è il post, indice di una politica su cui il mio scetticismo liberale è sempre più forte), com’è noto, diventa il momento in cui emerge con prepotenza tutto il carattere demagogico insito nelle democrazie. È l’occasione, in altre parole, in cui ogni singolo politico fa di tutto per portare dalla propria parte un pezzo di elettorato: promesse di bonus e reddito fornito dallo stato a pioggia, diminuzione di tasse ad libitum, allegro aumento della spesa pubblica, come se vivessimo nel Paese dei balocchi. Intanto paga qualcun altro.
Ciò che, tuttavia, mi preme sottolineare è la ricorrente promessa di taluni circa il recupero della perduta sovranità nazionale, come se i nostri problemi fossero creati da nemici esterni. Il problema, a detta di molti, risiede nel fatto che lo stato non può spendere e assistere i suoi cittadini come sarebbe giusto – vogliamo negarci un po’ di giustizia sociale? -, ma deve sottostare a feroci imperativi di greve e opprimente austerità.
“Riprendiamoci la sovranità, torniamo padroni del nostro bilancio!”, si tuona. Nel meraviglioso mondo di lorsignori, quindi, basterebbe agitare la bacchetta magica della sovranità nazionale e, puff!, risolto tutto. Certamente, l’assuefazione creata da un periodo esteso di paternalismo e pianificazione (economica e legislativa) centralizzata, non può che condurre molti a richiedere sempre più assistenza e aiuto. Ma questo ha dei costi enormi. In termini di libertà perduta, in primis.
Non ci si rende conto, cioè, che la politica ci ha reso sempre più “schiavi”, dipendenti e subalterni allo stato-biberon. Siamo diventati mezzi per fini stabiliti dall’alto, abbiamo perduto la capacità di affermare ciò che siamo, non siamo più capaci di pensare creativamente e reagire alle avversità. Pertanto, mi sembra che il tema più urgente sia il recupero della propria sovranità individuale. Si potrebbe obiettare che viviamo in una società già fin troppo individualistica, ma si tratta di un individualismo molto distante da quello liberale.
A tal proposito, Giancristiano Desiderio ha efficacemente catalogato come “individualismo statalista” il vizio italico (ma in realtà presente un po’ ovunque) che consiste di fatto nella servitù volontaria dell’individuo, quella che Kenneth Minogue ha definito “mente servile”. In altri termini, si cerca di tenere insieme sicurezza e libertà, quando queste due sono ineluttabilmente legate da una relazione di trade-off. E la tentazione del nostro tempo è quella di preferire un po’ di effimera sicurezza all’esercizio della libertà, talché si è sempre più disponibili, per dirla con Minogue, “ad accettare direttive esterne in cambio della rimozione dell’onere di esercitare una serie di virtù come la parsimonia, l’autocontrollo, la prudenza e la stessa civiltà”.
La libertà non è gratuita, non è facile da preservare, ma è la più preziosa caratteristica che ci rende uomini. Per riprendere F.A von Hayek, “dobbiamo essere preparati a fare sacrifici duri, anche materiali, per difendere la nostra libertà”. E, se fossimo così stolti da preferire lo stato-balia ad un’esistenza libera, allora “non meritere[mmo] né libertà né sicurezza” (Benjamin Franklin), ma tutt’al più i nostrani “grillozzi”.
Vita, libertà, proprietà, la base di una società veramente individualistica e libera che andiamo smarrendo (o abbiamo già smarrito?). Sarebbe forse il caso di ripartire da qui. Altro che sovranità nazionale.
PhD candidate, Luiss Guido Carli, Roma. Tra gli interessi di ricerca: populismo, rapporto liberalismo/democrazia, pensiero liberale classico