Dopo oltre quindici anni, non è azzardato pensare che la coalizione Nato in Afghanistan e nel nord-ovest del Pakistan non abbia una strategia decisiva.
Il governo di unità nazionale, frutto di un patto di condivisione del potere, mediato da John Kerry nel 2014, fra i due contendenti che si accusavano di brogli elettorali – Ashraf Ghani, presidente, e Abdullah Abdullah, primo ministro, è frammentato e piagato dalla corruzione.
Soprattutto è incapace di mantenere l’ordine. Mentre i soldati sono impiegati in check-point statici, sparsi e vulnerabili ad attacchi letali, e i servizi segreti concentrati in interventi militari contro talebani e Isis, invece di provvedere intelligence essenziale, la polizia, più che per l’applicazione della legge, viene utilizzata per la protezione dei membri del congresso, e spesso compie errori grossolani ai danni dei civili.
Dal canto suo, il sistema legale non riesce a far fronte alla criminalità, rivelandosi inefficiente persino nella detenzione dei terroristi catturati. È un marchingegno, tenuto in piedi dal sostegno internazionale, le cui forze di sicurezza non controllano porzioni cospicue del paese.
Per alcune stime, i gruppi non statuali, che esercitano forme di gestione, vesserebbero il 40% del territorio.
L’invasione degli Stati Uniti nel 2001 rovesciò il regime talebano che spalleggiava azioni di al-Qaeda. Sebbene le operazioni iniziali sembrarono funzionare, gettando le fondamenta di quella che avrebbe dovuto essere una nazione democratica e sovrana, le complessità sul terreno e il ridimensionamento della campagna a seguito della guerra in Iraq, ne hanno ostacolato possibili ripercussioni positive.
Al momento, l’Afghanistan brancola per la sopravvivenza. I talebani hanno toccato un picco, irrobustito dal contributo della rete eversiva Haqqani e da quello delle fazioni di al-Qaeda respinte dal Pakistan nel 2014. Guidati da Haibatullah Akhunzada, sovvenzionano progetti di sviluppo nelle aree rurali e promettono riforme del sistema educativo, mentre promuovono la propria ideologia con l’ausilio di internet.
La perdita di due importanti leader non ha intaccato la coesione e il funzionamento della rigida gerarchia, ma i tentativi di conquista di capitali provinciali – Kunduz nel 2015, e altre nel 2016 e nel 2017, hanno fallito. Cementati nell’etnia pashtun, non solo sono in lotta con altre consorterie tribali, ma rimangono distanti dalla maggioranza dei cittadini urbani che aderiscono a un islam aperto a diritti e libertà individuali.
Un’inchiesta su scala nazionale del 2015 ha rivelato che il 92% degli afghani è a favore del governo di Kabul e il 4 per cento a favore dei talebani, conclusione coerente con i numeri di altre avvenute nella decade anteriore. La stessa inchiesta ha inoltre confutato l’idea che nella percezione diffusa siano diventati moderati.
Di fatto, è stata scelta un’altra direzione. Le bambine e le ragazze, bandite dalle scuole dai talebani, sono il 39 per cento dell’utenza; in parlamento 69 dei 249 seggi sono riservati alle donne, mentre in senato sono state elette 27 candidate su 102 uomini.
Nonostante la sorprendente resilienza dimostrata, il ricorso massivo alla brutalità – atti dinamitardi, sabotaggi, raid in luoghi pubblici, rapimenti, assassinati – a causa dei quali sono state trucidate, o menomate, decine di migliaia di persone, sfollate famiglie e intere comunità, distrutti beni comuni, limitati movimento, accesso a salute, educazione, e soccorsi umanitari, li ha alienati dall’opinione generale.
Questi sono anche implicati nel traffico di stupefacenti: la metà abbondante del finanziamento dell’organizzazione e fonte di introito per i comandanti locali. Nel passato i talebani esportavano droga in forma di sciroppo oppiaceo; ora sono stati installati laboratori per la sintesi di morfina ed eroina – l’80 per cento dell’oppio mondiale è prodotto in Afghanistan.
La gente non ne approva la dipendenza dal Pakistan, limitrofo e impopolare. I servizi pachistani appoggiano i talebani con comunicazioni, armi letali, e rifugio sicuro. I combattenti continuano a lanciare offensive in totale impunità dalle città pachistane di Peshawar, Quetta e Islamabad, su uffici governativi, e istallazioni della Nato e degli Stati Uniti.
Sprovvisti dell’appoggio, o il vigore, per rovesciare il governo o tantomeno ampliarsi, il destino dei talebani non è promettente e vana è la speranza di riprendere Kabul e stabilire uno stato islamico. Neutralizzarne il pericolo, però, è essenziale per l’Afghanistan. Il governo è debole, gli attacchi mirati non sono sufficienti, e i talebani persistono.
Questa è una guerra che non può vincere nessuno, nemmeno gli americani. L’alto consiglio per la pace è arrivato a uno stallo nel 2011, quando il suo incaricato, Burhanuddin Rabbani, è stato ammazzato. La sequenza di attentati di alto profilo che ne è scaturita ha costruito uno scenario improbabile per il dialogo. Eppure la via diplomatica è l’unica percorribile.
Se un incremento del livello di pressione militare potrebbe indurre i talebani a trattare, ci sarà un futuro soltanto con un accompagnamento di Stati Uniti e coalizione, e un riorientamento della relazione fra Stati Uniti e Pakistan, e Stati Uniti e Russia.
Il distacco di Barack Obama ha indotto la Russia a pensare di doversi occupare in maniera unilaterale di un Afghanistan progressivamente instabile. L’allora presidente rimpolpò le truppe internazionali fino a 150 mila unità, per l’addestramento e l’equipaggiamento di 350 mila effettivi nazionali in un arco di diciotto mesi, da promessa elettorale del 2009.
Non prima del 2015, vi lasciò 9.800 marines e non erano stati ottenuti i risultati prefissi. Le deliberazioni di Donald Trump, al principio nella stessa ottica, sono mutate vis-à-vis con le aggressioni del sedicente stato islamico – attivo in Afghanistan e Pakistan, e l’esigenza di continuare a frapporsi alla sua espansione, ma non hanno convinto della loro efficacia la Russia, in piena fase di rilancio nella risoluzione di crisi globali dalla Siria alla Libia.
Dall’occupazione, le opinioni di Stati Uniti e Russia sono state pressoché allineate, e il dispiegamento di lungo termine di truppe americane e della Nato è stata facilitata dall’autorizzazione al passaggio di armamenti e rifornimenti sul suolo russo.
La collaborazione ha subito un raffreddamento dopo l’annessione dell’Ucraina da parte di Mosca nel 2014. Malgrado le sanzioni americane, che hanno chiuso le forniture di elicotteri russi Mi-17 – sostituiti dai Black Hawks americani, la Russia non è comunque favorevole a un ritiro degli Stati Uniti e il consigliere di Vladimir Putin per l’Afghanistan, Zamir Kabulov, ha dichiarato che, senza la presenza statunitense, il paese è condannato al collasso. Sergey Lavrov, ministro degli affari esteri, giudicando l’amministrazione Obama fallimentare, e quella di Trump alla stregua di un vicolo cieco, identico al precedente, reclama un’intercessione energica di Washington.
Il Cremlino ha un vantaggio comparativo che risiede nell’intersecamento di contatti e capacità, creati nel corso del conflitto russo-afghano (1979-1989), nel quale una larga fetta di militari e diplomatici ha acquisito profonda conoscenza culturale e logistica dell’Afghanistan, e una massa critica di funzionari e ufficiali afghani sono stati formati a Mosca.
A novembre Mohammad Atmar, consigliere per la difesa, ha evidenziato il ruolo significativo della Russia nel sedimentare un dialogo indirizzato a convogliare i talebani al tavolo negoziale. Del resto, la loro posizione si va indebolendo con la posticipazione dell’opzione politica.
Sono stati, poi, favoriti colloqui ufficiali con la partecipazione di Cina, Iran, Pakistan e Afghanistan; ed è stato riannodato il gruppo di contatto, integrato da India, Pakistan e Afghanistan. Benché queste discussioni non abbiano ancora portato a esiti definitivi, il Cremlino ha raggiunto lo scopo di collocarsi come un attore chiave in asia centrale.
Allo stesso modo, ha irrobustito le relazioni bilaterali con altri stati nella regione, attraverso l’affiancamento a Damasco e Teheran nella guerra in Siria, e l’assistenza militare al Pakistan. Ogni mossa, funzionale al rafforzamento della credibilità nel garantire la sicurezza, e l’ingrandimento del giro di affari e investimenti, è pianificato con un occhio alla Cina e l’avanzata della sua influenza, potenziata da vaste iniziative di infrastruttura. A dispetto di alcuni toni da guerra fredda, l’antagonista geopolitico non è inevitabilmente o esclusivamente rappresentato dagli Stati Uniti.
Resta tutto da capire il livello di coinvolgimento di Mosca con i talebani per sconfiggere l’Isis. Mentre i primi, storica insorgenza afghana, non costituiscono un pericolo fuori dai confini domestici, i secondi, apparsi dal 2015, e arroccati con la cellula locale Wilayah Khorasan a duecento chilometri da Kabul, sono una minaccia transnazionale, che i russi sono determinati ad annichilire.
Alcune esternazioni di Kabulov lascerebbero pensare che si siano armati i talebani contro l’Isis. La manovra, peraltro non inedita, è rischiosa, per la competizione innescata fra i due e l’escalation delle rivalità interne, incluse quelle con l’autorità centrale.
La recrudescenza degli attacchi terroristici degli ultimi mesi, che dal 2018 registra una media giornaliera di dieci vittime civili, potrebbe esserne un contraccolpo, se si osserva con attenzione l’alternanza delle rivendicazioni.
Intanto circa 400 mila afghani hanno inoltrato istanza d’asilo in Europa dal 2015. Le richieste sono pervenute in prevalenza in Germania e Svezia che hanno risposto con un notevole aumento di espulsioni. I dati Eurostat indicano che il tasso di rifiuto è stato del 52 per cento, in confronto al 5 per cento dei profughi siriani.
L’Unione Europea ha siglato un accordo sull’immigrazione con Kabul, in concomitanza con lo stanziamento di 5 miliardi di euro per la cooperazione allo sviluppo, in cui il governo riaccoglie i propri cittadini e Bruxelles ne copre i costi di ritorno e reinserimento. Gli stati membri hanno corrisposto un alto prezzo per salvaguardare le proprie frontiere, non paragonabile tuttavia al costo pagato da coloro i quali una volta rimpatriati, riferisce un rapporto di Amnesty International, sono stati uccisi o perseguitati.
L’Afghanistan non è un paese d’origine sicuro per la dottrina del non-refoulement e l’Europa continua a restare in bilico sulla corda del rispetto dei diritti umani e della sostenibilità delle proprie politiche.
Per quanto si siano spesi, e si continuino a spendere, miliardi nel processo, l’Afghanistan ha poche istituzioni funzionanti e non si è generata che una preoccupante incertezza. Non vi sono né guide né quadri che possano provocare un cambio, o ispirare una visione, e il momento continua a necessitare fermezza.
Il governo di Mohammad Najibullah resistette tre anni dopo il ritiro sovietico, con una reazione muscolare verso i signori della guerra all’opposizione. Privo del supporto attuale, il governo di Ghani durerebbe una ancor più breve frazione.
La democrazia, con le sue variegate espressioni formali, ha bisogno di pazienza e perseveranza nel coltivare capitale umano e far crescere leader di calibro. L’Afghanistan non è campo per neofiti o dilettanti e qualsivoglia strategia deve essere radicata nella lingua, l’orizzonte culturale e la conoscenza delle realtà politiche.
Ciò nondimeno, dopo l’esperienza in Iraq, la psiche collettiva americana troverebbe difficile accettare un tale vincolo. Trump, e i suoi consiglieri McMaster e Mattis, che hanno servito in Afghanistan, hanno considerato di non replicare l’errore di Obama in Iraq, dove l’ascesa dell’Isis è stata agevolata dalla smobilitazione degli Stati Uniti in un quadro di mancata pacificazione, e di transitare, piuttosto, da un criterio temporale a uno tattico, focalizzato sull’obiettivo minimo di adeguate condizioni di sicurezza.
Sono altresì state imposte pressioni sul Pakistan con la sospensione di 1.3 miliardi di dollari in aiuti militari a Islamabad.
Viene da domandarsi se sia verosimile fare e rifare la stessa cosa e aspettarsi un epilogo diverso. Purtroppo pare non ci sia alternativa. Dentro questi limiti si possono continuare a contrastare i talebani e l’Isis in Afghanistan e i loro alleati in Pakistan, conservare una piattaforma dalla quale raccogliere intelligence per il controterrorismo, incoraggiare una crescita economica modesta ma ferma, e provare a consolidare un governo responsabile a Kabul, con l’auspicio della stabilità regionale.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.