Non è vero che ha perso la democrazia.
L’esito elettorale, se regolare, è sempre una vittoria della democrazia.
Perché la democrazia è maggioranza e opposizione, ricchezza di confronto e diversità di idee per giungere a far prevalere nell’oggi l’una sulle altre senza per questo che l’idea sconfitta dai numeri debba scomparire e non possa, domani e in condizioni diverse, diventare a sua volta prevalente.
A perdere, piuttosto, e nettamente sono stati tutti i partiti politici e tutti i parlamentari che hanno registrato il 100% di mancato gradimento.
Se è facile leggere nella motivazione del 70% degli elettori, quelli che hanno votato SI, una netta e sonora condanna e la piena delegittimazione degli attuali parlamentari ritenuti per le loro qualità personali del tutto inidonei al ruolo loro assegnato, più complessa e più interessante è la lettura della motivazione dell’altro 30% di elettori, quelli che hanno votato NO.
Personalmente mi sono battuto con impegno e passione per il No a una riforma costituzionale priva di un disegno organico e tecnicamente poco approfondita sul versante della rappresentatività dei vari territori con una significativa penalizzazione per i territori del sud, e in particolare della Sicilia, ma la motivazione “politica” di una scelta che sapevo essere certamente non popolare va al di là di ragioni puramente tecniche e giuridiche.
Della scelta degli elettori che hanno votato SI condivido ovviamente il giudizio negativo su buona parte degli attuali parlamentari, ma, da un lato, lo riservo a loro e non lo estendo all’istituzione che essi temporaneamente oggi rappresentano, e, dall’altro, a mio avviso, sarebbe stato necessario andare oltre questo primo approccio critico, certamente fondato ma forse troppo superficiale.
Il NO, come ho detto quando ho accettato di coordinare il Comitato dei Giuristi Siciliani per il NO, è stata per me una scelta dal significato rivoluzionario, non già la semplice condanna dell’incapacità dei singoli parlamentari o del loro agire immorale, ma la ferma disapprovazione della attuale linea dei partiti politici, inidonea a fronteggiare la complessità del momento storico, prigioniera della ricerca di un consenso a ogni costo che ha fatto perdere dignità e coerenza alle radici ideali di ognuna di queste forze che continuano ad alimentarsi dell’insoddisfazione della gente con la finalità di gestire il potere senza sostanziali differenze di idee e di valori.
Un “NO” contro chi oggi comanda davvero, e cioè i partiti, e quindi rivoluzionario, anziché un SI che, assecondando i desideri e le scelte di quei partiti, tutti ugualmente responsabili dell’attuale situazione negativa del nostro paese, mi è apparso subito come conservazione dell’esistente, idoneo solo a ottenere un “sacrificio umano” di 345 soggetti sull’altare della piazza, a distribuire, in puro “Maria Antonietta Style”, qualche brioches a chi non ha il pane quotidiano.
E non vi è dubbio che nelle urne i partiti a sostegno del “SI”, che in Parlamento rappresentano il 97,5% dell’elettorato, hanno perso il 30% dei consensi dei loro elettori che, in una scelta fondamentale come quella di modificare la Costituzione, non si sono sentiti rappresentati da nessuno.
Presi giustamente a schiaffi i parlamentari, quindi, da chi ha votato “SI”, anche i partiti politici hanno nettamente perso la sfida referendaria, colpiti e affondati da chi ha votato “NO”.
L’esistenza, certificata nelle urne elettorali, di una minoranza robusta e non rappresentata in Parlamento costituisce il primo dato molto positivo del risultato referendario, idoneo a far riflettere i partiti che vorranno farlo sul rischio di inseguire ad ogni costo onde qualunquiste e desideri della piazza, immemori del fatto, da un lato, che le richieste della piazza rumorosa sono spesso irragionevoli e non sempre corrispondono all’interesse collettivo, come ha insegnato definitivamente la scelta della folla tra Barabba e Gesù e, dall’altro, che nella piazza troverai sempre, prima o poi, qualcuno che è capace di urlare più forte di te e contro di te, come imparò a suo spese un transitorio idolo delle folle come Robespierre, mentre sono il ragionare pacato e l’agire competente che consolidano il consenso di chi non urla e non pretende, ma sa ascoltare e valutare.
Questo aspetto merita certamente di essere approfondito con una breve analisi sulla distribuzione territoriale delle scelte di voto e sulla loro provenienza da elettori dei vari partiti presenti nella contemporanea competizione elettorale per la Presidenza di alcune Regioni.
In questo i dati sono molto chiari.
Le ragioni del SI hanno avuto una più netta condivisione nelle regioni del sud (79,89 % in Molise, 77,53% in Calabria, 77,41 % in Campania, tra il 75 e il 76 % i Basilicata, Puglia e Sicilia) piuttosto che in quelle del nord (tutte sotto il 70% – con l’ovvia eccezione del Trentino Alto Adige che la riforma ha gratificato di una straordinaria rappresentanza territoriale – con punte del 62,44 % in Veneto, del 63,78 in Liguria e del 65,96 in Toscana) e del centro (sotto il 70% in Lazio, Umbria, Marche e Sardegna).
Le prime analisi puntuali del voto, come riportate dalla stampa, hanno poi evidenziato una sensibile differenza nella scelta del voto degli elettori delle grandi città rispetto agli elettori dei Comuni più piccoli e, soprattutto, una straordinaria differenza tra la scelta degli elettori residenti nelle periferie rispetto a quelli residenti nelle zone centrali delle città più numerose.
Più si sale verso il nord, più si va nei grandi centri e più ci si allontana dalla periferia e maggiore è la percentuale di elettori che ha votato NO sino a raggiungere una misura anche superiore al 50% ( è il caso delle aree centrali di Roma, Milano e Torino dove il NO ha superato il 55%).
Nelle aree dove l’economia e la cultura danno più respiro agli elettori sembra quindi evidente che sia stato possibile elaborare una risposta al quesito referendario che andasse oltre la protesta contro i “privilegi” dei parlamentari e non si accontentasse di un taglio lineare punitivo per i singoli ma premiante per le politiche dei loro partiti di riferimento.
Nelle aree dove prevale la sofferenza, la disperazione e dove la diffusione della cultura rimane un optional che spesso non ci si può permettere, la scelta degli elettori è stata quella, attraverso il SI, di inviare il messaggio più diretto e immediato possibile a coloro che sono ritenuti responsabili del loro difficilissimo stato esistenziale per manifestare la propria profonda insoddisfazione .
Vi è, quindi, una legittima reazione al disagio, che per comodità e semplicità chiameremo populista, immaginando un’accezione neutra del termine, indirizzata contro i singoli parlamentari quantificabile in un 70% dell’elettorato, principalmente nel sud, nelle periferie e nei piccoli centri, che costituisce, e probabilmente continuerà a costituire, il bacino di pesca dei partiti politici che hanno scelto di cavalcare la protesta prima votando la riforma e poi schierandosi per il SI nella consultazione referendaria. Certamente il M5S, la Lega e Fratelli d’Italia, ma anche il Partito Democratico e Forza Italia che, nonostante tradizioni culturali diverse, hanno virato verso il maggior bacino di voti nel timore di perdere forza elettorale e/o incarichi di governo.
Per converso vi è un’Italia profondamente insoddisfatta non solo dei parlamentari ma soprattutto delle scelte di fondo operate dai partiti politici, oramai chiaramente indirizzate alla mera ricerca del consenso e incapaci di programmare un futuro basato su valori e ideali, della quale il 30% di elettori ha voluto offrire testimonianza attraverso il NO a una riforma che, in base allo schieramento dei partiti, avrebbe dovuto ricevere un consenso unanime.
E sono in gran parte gli italiani del nord e del centro, delle grandi città, delle zone centrali; gli italiani che muovono l’economia e la cultura e che assicurano i diritti di tutti con l’esercizio delle loro professioni, come è reso evidente dall’analisi del voto per fasce di reddito e titoli di studio che evidenzia come il NO è stato votato dal 45,8% degli elettori laureati e dal 41,4% degli elettori appartenenti ai ceti medio-alti mentre il SI ha visto una netta prevalenza nei ceti medi (73,8%) e tra gli operai (79%).
Il 30% di italiani che hanno votato NO, forse anche perché possono permettersi, favoriti dalla sorte o premiati dall’impegno, di guardare a un futuro più lontano senza annaspare nelle esigenze indifferibili del presente, ha chiarito di non essere interessato alle scelte populiste dei partiti politici, di non sentirsi da loro rappresentato, di cercare un livello di analisi delle riforme più complesso e più adeguato alla necessità di trovare una stabile soluzione alle enormi problematiche poste da un mondo in velocissimo cambiamento dal quale l’Italia si sta facendo trascinare senza orientamento e senza bussola, dimenandosi tra improbabili governi di “amici/nemici” e riforme sensazionalistiche negli annunci, esteticamente molto presentabili in termini pubblicitari ma, in concreto, del tutto irrilevanti, quando non dannose.
Ed è estremamente confortante che il NO sia stato preferito dal 49,6 % degli elettori giovani, indipendentemente dalla classe sociale di provenienza, segnale importante che chi non subisce ancora in modo troppo stringente la pressione della quotidianità e ha una prospettiva di benessere che guarda al lungo periodo non è attratto dagli slogan pubblicitari e non è disposto ad abbandonare la prospettiva valoriale per seguire la moda del momento.
Senza dire che il dato percentuale andrebbe anche rivalutato in relazione alle particolari circostanze (tra tutte le misure di contenimento dell’epidemia e la coincidenza di data delle elezioni amministrative solo in alcune parti del territorio) che hanno caratterizzato una consultazione che si annunciava plebiscitaria dopo il voto unanime del Parlamento e che il fronte del NO ha affrontato senza i mezzi economici e gli accessi ai media che sono garantiti ai partiti politici, schierati tutti sul fronte opposto.
La riprova che quel 30% di NO corrisponde, anche, a un preciso avvertimento ai partiti politici lo si ritrova nell’analisi dei risultati elettorali nelle regioni chiamate al voto.
L’emorragia di voti subita dai partiti politici schierati in favore del SI è troppo evidente per non essere significativa:
Il M5S, alfiere della riforma costituzionale, ha perso due terzi dei propri elettori attestandosi rovinosamente sotto la soglia del 10% dei consensi e scomparendo, addirittura, nel Veneto.
La Lega ha subito un’evidentissima battuta d’arresto rispetto alla marcia trionfale che sembrava aver intrapreso. Nonostante i risultati elettorali possano ritenersi premianti rispetto alle elezioni precedenti, certamente essi sono fortemente penalizzanti rispetto al trend esplosivo di crescita degli ultimi due anni e il risultato ottenuto ha, con ogni probabilità, interrotto, probabilmente definitivamente, il tentativo della Lega di “sbarco al sud” che costituiva in prospettiva il suo maggiore fattore di crescita.
Forza Italia è oramai un ricordo e la sua perdita costante di consenso sembra inarrestabile tanto che la soglia del 5% è stata raggiunta con grande difficoltà in quasi tutte le regioni mentre in Veneto un triste 3,6% ne ha certificato la perdita di ogni rappresentanza.
Fratelli d’Italia ha consolidato la propria importante crescita, grazie anche a un elettorato fortemente ideologizzato, ma non ha fatto il salto di qualità che molti al suo interno speravano e, in parte, davano per certo. E ciò principalmente perché non ha saputo rispondere agli sguardi interessati di un mondo che ne condivide molte posizioni, ma non si riconosce nella rigidità ideologica di altre, in particolare in tema di diritti e di garanzie latu sensu liberali.
Solo il PD, pur perdendo voti rispetto alle precedenti elezioni, ha avuto la capacità di interrompere il trend negativo di consensi nel quale liti, scissioni e opinabili scelte di governo lo avevano imprigionato, stabilizzando una propria posizione rilevante nel panorama politico.
Ma anche in questo caso la chiave di lettura del voto non muta.
Il PD, che è forse l’unico partito realmente strutturato e organizzato oggi in Italia, ha un elettorato tradizionale e maturo che, anche nei momenti nei quali non si riconosce nelle scelte del partito, continua a valutarlo, non senza ragione, come argine a scelte ideologiche delle quali ha effettivo e vero timore e tale caratteristica del suo elettorato – già emersa con chiarezza nelle precedenti elezioni regionali in Emilia Romagna – in assenza di offerte politiche diverse e credibili (non sono evidentemente state ritenute tali né quella di Renzi né quella di + Europa o di Azione), ha evitato al PD la temuta emorragia di voti contenendo significativamente le perdite già pronosticate.
Per una larga fetta del suo elettorato moderato che ha continuato a votare il partito pur battendosi per il NO al referendum, la posizione antiparlamentare estranea alle proprie tradizioni culturali assunta dal PD resta però una ferita aperta che potrebbe riprendere a sanguinare in assenza di quello stato di necessità determinato dall’esigenza di impedire il prevalere della destra populista che i vertici del partito invocano costantemente come giustificazione delle loro scelte, certamente stravaganti rispetto alla tradizione culturale dei loro elettori.
L’esistenza di una barriera trasversale, numericamente significativa e socialmente qualificata, a quella che appariva come inarrestabile valanga populista obbligherà, quindi, i partiti che ne hanno la possibilità ad adattare le proprie scelte politiche all’esigenza di rappresentare anche quell’elettorato che da quelle scelte si è smarcato: il bacino di voti populista è oramai troppo affollato di rappresentanti e la pesca di ulteriori consensi inizia a essere difficile, se non impossibile.
E questa prospettiva, che è una bella vittoria del manipolo di “resistenti” del NO, offre concrete speranze a una nuova politica fondata sulla competenza, sulla coerenza e sulle scelte valoriali non negoziabili.
Il secondo risultato positivo che mi sembra giusto riconoscere a chi ha votato NO è che il fronte istituzionale del SI, che conta in Parlamento il 97,5 % (a questo punto solo apparente) dei consensi, troverà certamente, dalla presenza nella società civile di una significativa massa critica nei confronti della riforma, un forte stimolo ad apportare prima possibile i correttivi che gli stessi sostenitori del SI hanno sempre detto essere necessari, a partire da una legge elettorale che restituisca maggiore equilibrio alla distribuzione territoriale della rappresentanza politica e riporti la scelta dei parlamentari dalle segreterie dei partiti all’elettore.
L’esistenza di una forte e qualificata opposizione alla riforma ha, infatti, obbligato i suoi sostenitori a prendere degli impegni ben precisi con il proprio elettorato, a considerare il taglio lineare dei parlamentari come un semplice primo passo di una riforma complessivamente migliore da realizzare in breve tempo con una nuova legge elettorale, con regolamenti parlamentari più efficienti e con un riequilibrio complessivo dei poteri oggi sbilanciati dalla semplice riduzione numerica di deputati e senatori.
Il dato negativo che leggo nelle urne è invece quello che i pericoli evidenziati dai sostenitori del NO, in tema di prospettiva insidiosa per la tenuta della democrazia rappresentativa dell’ideologia che ha spinto la riforma costituzionale, pur non essendo fortunatamente attuali, non possono certo dirsi scongiurati perché il 70% dei consensi è una percentuale molto elevata, all’interno della quale evidentemente forte, ma credo e spero non maggioritaria, è la posizione di chi aspira a un modello di governo diverso, non a caso immediatamente evocato dall’anima del M5S Beppe Grillo, che pone il totem dell’efficienza, della governabilità e della tecnocrazia al di sopra di quei valori e di quei diritti che non appaiono immediatamente monetizzabili, e che, pertanto, nel mondo del consumo veloce e globale, non sono appetibili, ma che sono le fondamenta della nostra libertà senza la quale nessun benessere economico e nessun avanzamento sociale può mai essere auspicabile.
Il risultato elettorale, letto in tale prospettiva, è, infatti, funzionale alla riduzione del potere parlamentare e alla tentazione di spostare le sedi decisionali effettive in territori controllati da tecnologie gestite in modo non trasparente e in mano di comitati tecnici di varia natura privi di qualsiasi legittimazione democratica.
Se questa riforma, voluta dagli italiani, costituirà solo un primo passo verso un miglioramento effettivo della democrazia rappresentativa e non un primo passo verso la sua soppressione una parte di merito andrà certamente a chi ha alzato e difeso la bandiera del NO, che è anche un NO a essere domani disponibili, consenzienti o anche solo silenti rispetto a tentativi di imporre schemi di potere autoritario che promettono efficienza e moralità in cambio di spazi di libertà e di democrazia.
La battaglia delle Termopili è ricordata per l’eroismo dei 300 spartani sconfitti che con la loro resistenza contro gli oltre 100.000 persiani, compreso il contingente di soldati scelti conosciuti sino ad allora come “Immortali”, consentirono ai greci la successiva vittoria finale a Salamina.
Fu una battaglia persa in partenza ma combatterla senza risparmiarsi consentì di vincere la guerra.
Rimane scolpita nella Storia la risposta di Leonida a Serse che gli ingiungeva di consegnare le armi: “Vieni a prenderle!”.
E forse non è un caso che in quella seconda guerra persiana i greci stessero lottando per difendere le loro libertà dalle mire espansioniste di un sovrano assoluto, Serse, il “Grande Re”.
Avvocato del Foro di Siracusa. Componente del Comitato Scientifico della Fondazione Luigi Einaudi.
Per una biografia dettagliata cliccare qui.