Donald Trump ha posto a dura prova l’ordine costituito dagli Stati Uniti nei settant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale. Sebbene il dibattito si sia impantanato in una dicotomia fuorviante animata da antagonisti che spingono verso la sua dissoluzione e nostalgici che puntano alla sua ricomposizione, nessuna delle opzioni è viabile. La volatilità dei pesi politici nei contesti domestici, e la natura mutevole della competizione fra stati, rende impraticabile sia leadership unilaterali sia un ritorno a vecchi schemi. D’altro canto, la situazione ereditata da Joe Biden è tale da alimentare un dubbio palese intorno all’attuale possibilità americana di restaurare con credibilità un ruolo di garante della sicurezza globale.
Il bilanciamento di potere raggiunto nella fase preliminare della guerra fredda che, pure con enormi difficoltà, ha assicurato la pace fra le società industrializzate, oggi è a repentaglio. In seguito al collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti avevano preservato questa conduzione, anche se era stata tarata su uno scenario in cui non avevano rivali, con un alleggerimento di intensità nella difesa e la deterrenza. Trump ha minato le fondamenta del rispetto reciproco, intimando l’abbandono dei teatri dei paesi inadempienti con la richiesta di un aumento delle quote belliche, mettendo persino in discussione il sodalizio granitico con Giappone e Corea del Sud. La contropartita è stata un’accelerazione di quelle propulsioni geopolitiche che si stanno adoperando per indebolire i patti esistenti e uno scarso appoggio internazionale nella campagna contro la Cina.
Invero, la coalizione atlantica ha provato di poter essere governata con costi contenuti ed efficacia. Il problema risiede nella polarizzazione all’interno del congresso e l’opinione pubblica, e rimarrà oggetto di controversia nel corso della prossima amministrazione. Ogni presidente americano ha spronato a investire nella cooperazione militare, ma l’apparente dislivello – gli Stati Uniti spendono oltre il 3 per cento del Pil, mentre la media degli integranti della Nato si colloca fra l’1.5 e il 2 – non può essere comparato con gli obiettivi perseguiti da Washington e il vantaggio acquisito in sfere di influenza. Del resto, in alcun caso, si è vista coinvolta in dispute che non coincidessero con i propri interessi, o sono accadute circostanze in cui non potesse decidere in autonomia, o rescindere da impegni.
Nel tempo intercorso fra la rivoluzione, che dal 1775 al 1783 oppose le tredici colonie nordamericane al Regno di Gran Bretagna, e l’intervento anti-nazista dal 1941 al 1945, gli Stati Uniti non avevano avuto alleati formali. Tra il 1949 e il 1955, sono state offerte garanzie a 23 nazioni in Asia ed Europa; alla conclusione del ventesimo secolo, il numero era salito a 37. La diffusione della tecnologia balistica e nucleare, con l’estensione della portata offensiva aerea, avevano rotto il loro relativo isolamento geografico. La fitta rete di basi all’estero ha svolto la funzione di ridurre l’esposizione ad azzardi, e divergere le crisi, prevenendole o risolvendole, lontano dal suolo patrio. In primo luogo, ha permesso il controllo dell’unica super potenza sopravvissuta all’indomani del conflitto mondiale, l’Unione Sovietica, e il congelamento di un confronto su larga scala in maniera indefinita.
Il sistema ha piuttosto diminuito il costo delle manovre americane. Dall’inizio degli anni cinquanta, gli alleati hanno aderito a qualsivoglia operazione degli Stati Uniti, non essendo obbligati dagli accordi, e hanno supportato la dottrina di Washington, come l’adesione a sanzioni, e la partecipazione in missioni di pace che hanno determinato il destino di paesi in transizione. Tali apporti hanno consentito un’ampia proiezione senza grandi sovraccarichi. Per dipiù, importanti economie, quali Germania, Taiwan e Corea del Sud, hanno rescisso dalla proliferazione nucleare, e altre ancora dal creare strutture militari sofisticate, affidandosi alla tutela americana, e accrescendone la supremazia tecnologica e politica.
Questa logica ha funzionato fino a quando il nemico sul quale era stata disegnata si è disintegrato. Esperti di orientamento realista la dichiararono obsoleta, chiamando a uno smantellamento, ma i politici statunitensi decisero piuttosto di riorientarla. Bill Clinton promosse l’ingresso nella Nato di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, e instaurò un programma affiancato alla Nato, per generare apertura negli stati dell’ex blocco sovietico, senza che questi dovessero aderire, così promuovendo stabilità, dopo lo disfacimento della Yugoslavia fra il 1991 e il 1992, e alzando una cortina che pretendeva infiacchire la Russia o indurla a transitare nella Nato.
Nella decade dei novanta, l’approccio dell’allargamento a est sembrò funzionare, ma con l’ampliamento a Estonia, Latvia e Lituania nel 2004, l’alleanza si fece difficile da patrocinare. Se la Russia aveva bisogno di una zona cuscinetto che la mantenesse in sicurezza, gli Stati Uniti vedevano sul suo confine ovest la prima linea. Immerso nella recessione economica, il Cremlino dapprincipio non aveva ribattuto ai movimenti di espansione. La congiuntura virò quando, nel 2008, invase la Georgia e, nel 2014, l’Ucraina, per non lasciare che entrassero nella Nato, e come parte di una tattica mirata ad accertare l’inabilità degli Stati Uniti di soccorrere la regione balcanica.
In aggiunta, una Cina in progressiva ascesa è riuscita a corrodere le relazioni americane nel Pacifico. Non solo gli investimenti bellici hanno reso gravoso per Washington entrare in guerra, ma hanno attestato che la sua tenuta nel proteggere gli stati amici si sta dissipando. Pechino ha prodotto tecnologia avanzata, e costruito basi nel mar cinese meridionale, che rendono infattibile agire in prossimità delle sue coste, a Taiwan o nelle Filippine.
A un trentennio dalla caduta del muro di Berlino, Russia, Cina e Stati Uniti hanno sviluppato strategie non militari che spostano gli equilibri. Nel 1999, incursioni russe, durate quasi un anno e cominciate a bassa frequenza, ai computer del dipartimento di difesa, università e imprenditori, ottengono codici navali classificati e configurazioni di guida di missili. Nel 2003, un’azione coordinata cinese, tuttora sconosciuta nella sua precisa origine, si inserisce nei pc dell’America per ricavare dati su apparati informatici. Viene violato l’accesso di Lockheed Martin, Sandia National Laboratories , Redstone Arsenal e la Nasa. Nel 2006, un’ondata di assalti digitali statunitensi, in collaborazione con Israele, tenta il sabotaggio della centrale nucleare iraniana di Natanz, mediante un virus ingeniato per disabilitare le centrifughe. Nel 2007, un ciberattacco russo all’Estonia paralizza i settori bancario e governativo. Nel 2016, ingerenze imputate alla Russia interferiscono nelle elezioni presidenziali a stelle e strisce.
Vandalismo web per la sottrazione o l’eliminazione di dati, intralcio ad apparecchiature militari e satellitari per l’intercettazione e la sostituzione di ordini, raccolta di dati riservati, campagne di disinformazione, propaganda psicologica, sociale e politica, nonché attacchi a infrastrutture critiche identificate in servizi commerciali, energetici, idrici, logistici, e della comunicazione, richiedono partnerships rinnovate. Le modalità sono diverse, ma l’intenzione che le muove è la medesima: arrivare allo scopo senza violare le leggi sull’uso della forza e attivare l’articolo 5 della Nato. Servono a sminuire il credito dei trattati americani e suffragare che questi hanno perso vigore di coercizione.
Il sistema, dunque, deve essere rifondato a partire dalle intimidazioni non esclusivamente militari a cui far fronte e ricalibrato sullo status economico e sociale dei suoi membri, e le loro potenzialità, per rilanciare una responsabilità collettiva. Oltre i toni, Trump ha espresso un pezzo di verità. Quando venne istituita la Nato, gli alleati erano paesi che uscivano dalla distruzione della guerra con finanze al bordo del crollo; ora sono fiorenti democrazie in grado di contribuire in grado simmetrico. La resistenza della società civile all’aumento delle spese in armamenti potrebbe essere, inoltre, superata se, in Europa, le risorse venissero redirezionate a voci non tradizionali, relazionate alla guerra cibernetica e il controspionaggio ciberspaziale. La superiorità tecnologica degli Stati Uniti, comunque, gli preserverebbe l’incombenza principale degli aiuti sul territorio.
Due sfide rimangono aperte. Dimostrare alle nazioni balcaniche che Washington è in grado di provvedere una vigilanza attendibile sulla frontiera orientale della coalizione e contenere le ambizioni della Russia. Provare alle nazioni asiatiche che non vi è alternativa agli Stati Uniti, nonostante l’evoluzione della Cina. Entrambe non possono essere vinte, a meno che gli alleati forti in Europa e Asia intraprendano ruoli di primo piano nella ricerca di soluzioni specifiche ai problemi, siano diplomatici, tecnologici od operativi, per contrarrestare la pressione di Russia e Cina sugli alleati deboli. Australia e Giappone, per esempio, sono imprescindibili affinché vengano attese le rivendicazioni degli alleati nel mare cinese.
Inanzitutto, gli Stati Uniti devono modificare il proprio punto di vista sulle alleanze e la loro gestione e, pur restando un asse centrale, assumere una funzione di accompagnamento a sforzi collegiali. Gli attori regionali devono esercitare un protagonismo inderogabile per identificare risposte adeguate alle provocazioni presenti nelle loro rispettive aree su questioni di deterrenza, ciberdifesa, e investimenti aggressivi di capitali stranieri in infrastrutture essenziali. Si deve anche comprendere che le minacce non vengono ponderate con la stessa misura da Washington e dagli alleati, o da alleati differenti, in quanto si danno ripercussioni sproporzionate nelle singole realtà, e gli Stati Uniti dovranno porsi nella condizione di accettare qualche incognita a beneficio degli alleati. Quello che deriva dal non favorire un cambiamento non è un rischio sostenibile.
L’agenda di riforma è vasta, ma il mondo non è lo stesso della post-guerra, e gli Stati Uniti hanno bisogno di più alleanze che nel passato e di nuove intese. Ridimensionare il network farebbe perdere capacità di reazione, dove altri hanno guadagnato terreno. Se il presidente entrante non agisce, Cina e Russia avanzeranno con rapidità nel progetto di demolizione della fiducia nel Pentagono. Allineare mezzi e fini, in un’ottica associativa, è il fulcro della strategia estera del futuro. Le alleanze, non coltivate, potrebbero diventare irrilevanti, nel momento in cui sono necessarie.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.