George Orwell, pur riconoscendosi nel laburismo, fu sempre critico verso la sinistra inglese ed europea, che accusava di essere subalterna a Mosca. La sua partecipazione alla Guerra civile spagnola gli consentì di verificare la spietatezza con cui i comunisti, spagnoli e russi, eliminavano anarchici, socialisti, e trotzkisti, considerati eretici per l’ortodossia sovietica. Omaggio alla Catalogna, del 1938, è un atto d’accusa nei confronti del potere esercitato dalla Terza Internazionale sui comunisti europei. Nel 1945, pubblica La fattoria degli animali, rappresentazione grottesca di un mondo in cui, dopo una rivoluzione che vuole realizzare l’uguaglianza, gli uomini non si distingueranno più dai maiali.
In 1984, scritto nel 1948 e pubblicato un anno dopo, prosegue nella sua denuncia del totalitarismo, che, inseguendo l’utopia di un mondo perfetto, realizza una società distopica, come accade ad Oceania, dove il controllo assoluto dello Stato annulla ogni forma di autonomia e di libertà. Non ci troviamo nella Città del sole di Campanella o della Nuova Atlandide baconiana, ma nell’incubo totalitario, che già nel 1920 Evgenij Zamjatin aveva descritto in Noi. Arthur Koesteler commentava nel 1959 che l’Utopia di Platone è più terrificante di quella di 1984, perché Platone auspica che si realizzi quel che Orwell teme possa avvenire.
Zamjàtin osserva la trasformazione di un movimento rivoluzionario in una ideologia totalitaria, lo stalinismo, di cui Orwell sarà testimone. In 1984 il dispotismo trova espressione in una Nuova Lingua. Si impongono così modelli di comunicazione che narcotizzano ogni capacità critica, trasformando la menzogna in verità e cancellando la memoria storica, al fine di assolutizzare il presente: “tutto svaniva nella nebbia. Il passato veniva cancellato, la cancellazione dimenticata, e la menzogna diventava verità”. I custodi dell’ortodossia politica dello Stato devono allora sacralizzare la menzogna, comportandosi come sommi sacerdoti di un dogma secolarizzato, che per nessun motivo può tollerare il dissenso. Winston Smith lavora per il Ministero della Verità ed ha il compito di “riscrivere” le fonti storiche per adeguarle alla linea del Partito. Nel corso del tempo matura però un atteggiamento critico e riesce ad avere una sua vita affettiva, che cerca di sottrarre al controllo capillare del Partito, ma il suo comportamento desta sospetti e
viene così arrestato. Spera di conservare, in qualche modo, la sua autonomia e di mantenere la relazione, ma si troverà a rinnegare anche la sua compagna, perdendo ogni forma di dignità,
per aderire ciecamente alle direttive del Partito.
Orwell non pensa che la distopia di 1984 rifletta esclusivamente il mondo comunista, perché ritiene che tutte le società di massa si stiano avviando verso forme di omologazione in cui le libertà individuali faranno sempre più fatica ad affermarsi. 1984 descrive allora, nelle sue intenzioni, quella società che potrebbe prendere corpo se il socialismo libertario, a cui si sentiva vicino, non prevalesse sul comunismo, che nega la libertà e sul capitalismo, che identifica la libertà con il mercato. Nel clima della Guerra fredda, il libro fu visto, in campo comunista, come un atto d’accusa nei confronti dell’Unione Sovietica. L’appartenenza di Orwell al mondo laburista e liberalsocialista lo fece considerare un nemico ancora più insidioso, in un momento in cui essere socialdemocratici equivaleva a collocarsi in modo ambiguo a sinistra, cioè come “socialtraditori”; in buona compagnia, in fondo, se si pensa che, in un’ottica togliattiana, erano tali Filippo Turati e Carlo Rosselli. Nel novembre-dicembre del 1950, su Rinascita, la rivista ideologica del P.C.I., Palmiro Togliatti si scaglia contro Orwell, reo di pensare che in Unione Sovietica “la grande maggioranza degli uomini vive nell’abbrutimento e nella miseria “, sotto il controllo di una gerarchia dal potere smisurato, che riduce i funzionari a “semplici strumenti passivi e inconsapevoli”.
Togliatti trova tutto ciò “primitivo, infantile, logicamente non giustificato”. Il relativo successo del libro, che “i preti e Benedetto Croce” promuovono, evidentemente in funzione antisovietica, sarebbe legato, a suo avviso, al fatto che “una rivista di sedicenti liberali” lo ha pubblicato in appendice. La rivista di “sedicenti liberali” era Il Mondo di Mario Pannunzio, una palestra di libero pensiero che veniva attaccata da chi non riusciva a prendere le distanze da Stalin!
Nel 1949, su Il Mondo (al quale collaborarono, fra gli altri, Ernesto Rossi, Ugo La Malfa, Luigi Salvatorelli, Vittorio De Caprariis, Carlo Antoni), Croce aveva pubblicato La città del Dio ateo, in cui, pensando a 1984, sosteneva che il totalitarismo dovesse essere considerato “fuori di ogni equivoco di fini umanitari” e al di là di ogni riferimento alle relazioni internazionali. È nota la cautela con cui le potenze occidentali evitavano di urtare la suscettibilità sovietica, per non compromettere i delicati equilibri della Guerra fredda. Superfluo sottolineare che Croce si era attirato, con le sue parole, la scomunica dell’Intellighenzia comunista.
Tornando a Orwell, Togliatti critica il fatto che in 1984 si parli spesso delle “continue epurazioni e persecuzioni”, anche nei confronti di “coloro che han contribuito a far la rivoluzione”. Ma Orwell non si ferma qui e scrive addirittura che il partito spinge a compiere “le azioni più stolte, a mentire, a negare l’evidenza dei fatti, ad affermare che due più due fanno cinque e non quattro, e così via, fino a che dell’uomo intelligente non resta più nulla. Il capo del partito, infine, ha i baffi neri, e il suo nemico mortale la barbetta a punta”.
È appena il caso di ricordare che si sta parlando di Stalin e del suo “nemico” Trotsky, ucciso da un sicario di Stalin nell’agosto del 1940. Togliatti trova in 1984 “tutte le bassezze e le volgarità che l’anticomunismo vorrebbe far entrare nella convinzione degli uomini. Mancano solo, ci pare, i campi di concentramento, perché per sventura sua l’autore è scomparso prima che questa campagna venisse lanciata. Altrimenti ci sarebbe, senza dubbio, un capitolo in più”.
Questi toni nei confronti di Orwell mettono in luce il risentimento di Togliatti che, di fronte a quanti denunciavano le epurazioni e le deportazioni, che egli ben conosceva, faceva ricorso al linguaggio con cui nei tribunali sovietici ci si rivolgeva ai “nemici del popolo”. Riguardo ai gulag, inoltre, un solo capitolo non sarebbe stato sufficiente a testimoniare i disastri dello stalinismo.
Nel marzo del 1972 Elena Croce scrisse che 1984 le diede la sensazione che più dell’avvertimento contro il pericolo, agisse sul lettore “la fascinazione del pericolo, del mostro”. Si sentì stupita e insieme “turbata” del fatto che suo padre, poco interessato a quel genere di letteratura, “desse tanta importanza a quel libro”. Croce manifestò particolare interesse verso la “profezia” della Neolingua, “al punto di esprimere -prosegue- riflessioni pessimistiche – che non gli avevo mai sentito fare nemmeno durante il fascismo – sulla facilità con cui può venire estirpata la pianta della civiltà, che impiega secoli per ricrescere”. Quel ricordo, scrive, lasciò in lei “la certezza che Orwell era un autore il quale non solo non aveva fatto il suo tempo, ma si sarebbe dovuto tenere di riserva per tempi più duri”.
Il timore dell’affermarsi della Neolingua totalitaria, avvertito da Croce, richiama una figura a lui assai vicina nella battaglia a difesa della libertà contro i totalitarismi, Friedrich von Hayek, che citando Confucio, scriveva:“Quando le parole perderanno il loro significato, gli uomini perderanno la loro libertà”.
Nel giugno del 1941 Orwell annotava che, dinnanzi ai roghi dei libri in Germania e alla “spiccata tendenza” dei più promettenti scrittori russi “a suicidarsi o a sparire nelle galere”, chiunque ami la letteratura, deve comprendere “che la resistenza al totalitarismo, sia esso imposto dall’esterno o dall’interno, è questione di vita o di morte”. Quando, come sempre più spesso accade, i comportamenti gregari si traducono in servitù volontaria, il monito di Orwell rappresenta una sicura via di fuga da ogni forma di tentazione totalitaria.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.