Quando nel 2004 morì Gabriella Ferri alla commozione per la perdita di un’artista di talento si unì un mea culpa collettivo per il fatto che teatro, cinema, televisione l’avevano dimenticata, venendo meno ai doveri della memoria e della riconoscenza.
Qualcosa di simile era avvenuto nel 1967 quando, al Festival di Sanremo, Luigi Tenco, il cantautore genovese, si era tolta la vita, non sentendosi compreso e amato dal pubblico. Che l’interpretazione che Gabriella Ferri aveva dato, ad es., di Dove sta Zazà, con una voce rauca, dolente e insieme aggressiva, piacesse poco era irrilevante. Analogamente non apprezzare Ciao, amore ciao di Tenco significava quasi un imbarbarimento del gusto, lo stop alla musica leggera quanto affrontava temi ‘esistenziali’.
Il copione si era ripetuto col mio amatissimo Totò: i suoi ultimi film rimasero ben lontani dal successo di Totò a colori e il pubblico non comprese—il rammarico della figlia Liliana–che finalmente la grande maschera napoletana aveva trovato un regista alla sua altezza in Pier Paolo Pasolini.
In realtà, sia Uccellacci e uccellini (1966) che Le streghe (1967) non solo non furono amati dal grande pubblico ma trovarono—e trovano ancora—gli esperti molto divisi. Al recente Convegno napoletano, Diagonale Totò, un benemerito degli studi decurtisiani come Ennio Bispuri si è trovato in disaccordo col prestigioso critico (non solo musicale) Paolo Isotta: all’esaltazione fatta dal primo del Totò pasoliniano s’è contrapposto il giudizio dell’altro che ne ha auspicato la dimenticanza.
Di recente la retorica dell’incomprensione e dell’oblio è ricomparsa con Paolo Villaggio, uno scrittore geniale, un attore incomparabile. Nei suoi libri, portati sullo schermo da Luciano Salce, Villaggio ha inaugurato, per così dire, il postmoderno, l’epoca de tramonto delle ideologie.
Il suo grido liberatorio: “La Corazzata Potemkin è una cacata!” ha decretato la fine di un mondo e di un’epoca, quella dei cineforum impegnati, dei miti e dei riti di una sinistra che voleva portare nelle fabbriche e nei dopolavori aziendali il grande cinema, il grande teatro, la grande musica.
L’indulgenza ironica nei confronti dei vizi antichi degli italiani — a cominciare dalla tifoseria calcistica — è stata un bagno salutare di realismo, pur se sempre venato di qualunquismo e di ribellismo tragicamente inconcludente. Un momento fondamentale della nostra entrata nell’età del disincanto.
Anche lui negli ultimi anni, è stato dimenticato — il j’accuse della figlia al funerale laico — non ha fatto più cassetta, registi e produttori non si sono più curati di lui. Non esito ad annoverarmi tra i colpevoli e gli ingrati che lo hanno abbandonato, avendo trovato monotoni e ripetitivi i suoi ultimi film: il catastrofismo quotidiano narrato da una voce fuori campo con toni epici — “quel giorno Fantozzi fu costretto a mangiare sette costate di vitello, otto prosciutti di San Daniele, tre forme di parmigiano reggiano…” -, la vecchia eroticamente aggressiva, i voli dei protagonisti sulle tavole imbandite,l’ignoranza della grammatica — il ‘vadi’ di Filini– etc. etc.
Forse sbaglio nel giudicare severamente il Fantozzi del dopo Salce e riconosco che qualche buona idea c’era ancora nel Superfantozzi di Neri Parente del 1986 – la storia dell’eterno sfigato dai tempi del Genesi ai nostri giorni (indimenticabile la delusione del nipote di Lazzaro che si aspettava una grossa eredità dalla morte dello zio) -, ma ritengo che, dopo i primi due/tre film della serie, il magic moment fosse finito.
Ma ammettiamo pure che nei quattro artisti ricordati la qualità della prestazione professionale non fosse mai venuta meno e che il loro oblio si dovesse soltanto all’involgarimento del pubblico.
E se così fosse? Viviamo in una società aperta dove il consumatore è sovrano e dei suoi gusti i produttori di merci debbono tener conto se vogliono far soldi.
È ingiusto tutto questo? Lo è non più della democrazia liberale, che è il pendant politico, della democrazia economica del mercato. Il popolo sovrano può affidare il timone del governo a capitani incapaci e corrotti, così come il mercato può mettere in circolazione merci scadenti.
In entrambi i casi, però, a legittimare sia la democrazia che il mercato sono le alternative.
Come la demagogia di Cleone è preferibile al dispotismo dei Trenta Tiranni, così la libertà di scelta del consumatore è preferibile all’imposizione dall’alto di prodotti culturali di (presunta) elevata qualità. Il Mincupop è finito!
PS Inviato e non piaciuto al Foglio quotidiano