Michael Oakeshott? Fondamentale per capire Casaleggio

I classici sono tali perché, grazie alle adamantine idee che elaborano, svolgono la funzione di preziose e sempiterne lenti analitiche della realtà. Uno di questi, piuttosto trascurato, perlomeno in Italia, è Michael Oakeshott. Per quanto mi riguarda, lo ritengo di fondamentale importanza per capire il profondo della concezione politica populista e, nella fattispecie, della “mente” (per taluni illuminata, per altri contorta) di Gianroberto Casaleggio.

Molti si stanno facendo circuire dalla svolta stilistica moderata e democristiana adottata dal “capo politico” a 5 Stelle Luigi di Maio, ma, in realtà, le radici ideologiche dei pentastellati sono da brividi. Infatti, il “cervello” del “non-partito” era una sorta di oracolo, imbevuto di gnosticismo e millenarismo. Su youtube ( https://www.youtube.com/watch?v=sV8MwBXmewU ) è possibile prendere consapevolezza di alcune sue profezie o, forse, auspici riguardo al futuro del nostro mondo (benché, sotto al video, la Casaleggio Associati si sia sentita in dovere di precisare che tali vaticini non sono né le volontà di Gianroberto né del Movimento).

In poche parole, il traguardo del mondo futuribile vedrebbe l’elezione di un governo mondiale, denominato “Gaia”, e il venir meno della politica, delle ideologie, delle religioni, poiché il sapere collettivo incarnerebbe la nuova politica.

Ora, per chi ha a cuore la libertà individuale di scelta, che una società tendenzialmente aperta tutela e promuove (con più di qualche evidente difficoltà, è chiaro), ciò desta serie preoccupazioni. In una visione di tale genere, infatti, quel politeismo di valori, di idee, di concezioni differenti e, perché no?, conflittuali del mondo a fondamento di una società libera pluralista (non è un caso che Raymond Aron designasse la democrazia liberale “regime costituzional-pluralistico”) verrebbero spazzate via dalla conoscenza collettiva, dal sapere in rete, magari guidate da un vate al contempo “servo” e “timoniere” del popolo.

Ebbene, Oakeshott ci dice che una visione “fideistica” della politica, come ad esempio ritengo sia quella populista, è caratterizzata dalla presunzione di sapere quale sia la strada che porta alla salvezza e alla perfezione sociale. Il governo, in tal senso, è considerato come “un’attività illimitata” e “la decisione e l’iniziativa politiche possono essere intese come una risposta a un’intuizione ispirata di ciò che è il bene comune”.

Questo è precisamente ciò che accade quando Grillo dice ai suoi adepti di fidarsi delle sue decisioni che sovvertono la votazione della base (esempio ne è la scelta dell’anno passato di Luca Pirondini a candidato per il posto di sindaco di Genova in sostituzione di Marika Cassimatis, eletta dalla base) oppure quando il “visionario” Casaleggio Senior (il figlio pare meno propenso a profetizzare) prevede il futuro del pianeta, considerato da molti grillini come un dono del cielo per la sua geniale lungimiranza.

Ma ancora più nitidamente, il filosofo inglese afferma che, nell’ottica della “politica della fede”, “la funzione di governo realizzerà giustamente un’elevazione morale che la pone al di sopra di ogni altro ufficio, vedendo l’uomo politico e i suoi sodali intesi al tempo stesso come i servitori, i leader e i salvatori della società”.

Il populismo, così, si candida ad essere il propugnatore di una palingenesi politica, in cui il popolo, quello moralmente integerrimo (e chi stabilisce i confini della moralità? A qualcuno è dato sapere in modo definitivo in cosa essa consista?), torni a essere il sovrano indiscusso, colui il quale sa dove è saggio andare, a quali lidi approdare, secondo una concezione della politica considerata “un’attività divina”. Come scrive Loris Zanatta, il populismo si configura, e lo abbiamo visto, come “una sorta di religione secolare, o di religione politica, col suo verbo e il suo profeta, i suoi culti e le sue liturgie: il tutto, però, non in nome di Dio, ma del popolo”.

E non è un caso, allora, che Juan Domingo Péron solesse dire, come ricorda lo studioso forlivese, che la “la vera democrazia è quella in cui il governo fa ciò che vuole il popolo”. Quello puro, onesto, lavoratore, certamente, opposto ai parassiti, alle caste, ai disonesti. Tutto a partire dalla fallace presunzione di poter razionalmente (ma anche, e forse soprattutto, emotivamente e aprioristicamente) dividere in modo inequivocabile ciò che è il Bene da ciò che è il Male, ciò che è morale da ciò che non lo è. E, in più, dalla mendace considerazione che l’essere umano è un monolite che tende verso un’unica direzione, quando, molto più realisticamente, esso è un impasto di bontà e cattiveria, di altruismo ed egoismo, di luce e oscurità.

Ciò comporta, come si è capito, che la suddivisione manichea della società (e ancora, meglio, la comunità da ciò che è alieno ad essa) sottenda una politica potenzialmente totalitaria, ammantata di collettivismo antiindividualistico. Come sostiene Zanatta, considerare il popolo e la comunità in maniera populista, “erode infatti il pluralismo, sia negando legittimità ai propri avversari, e dunque colpendo al cuore la dialettica politica democratica, sia mettendo a repentaglio la divisione dei poteri, sacra ai regimi democratici costituzionali, invocando la volontà popolare, la quale si impone su ogni filtro costituzionale. Solitamente, specie dove nessun ostacolo freni tale pulsione, il manicheismo populista sfocia in un’ideologia escludente”.

Infine, dunque, possiamo affermare che la concezione politica populista è impregnata di un afflato religioso e divino, una tendenza a ricercare la perfezione e la salvezza dell’uomo, secondo la pretesa che essa spossa essere tanto compresa quanto raggiunta. Da qui l’ammonimento di Oakeshott che “una singola, omogenea linea di sviluppo va trovata nella storia solo se della storia si fa un manichino su cui esercitare le proprie capacità di ventriloquo”.

E, così, J.S.Mill mette in guardia da un’attività onnipresente, capillare e antipluralistica del governo asserendo che “la perfezione meccanica cui tutto ha sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che, per far funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire”.

Dulcis in fundo, credo valga la pena citare alcune splendide considerazioni di un’altra grande personalità: “Dove la società si organizza riducendo arbitrariamente o, addirittura, sopprimendo la sfera in cui la libertà legittimamente si esercita, il risultato è che la vita sociale progressivamente si disorganizza e decade. Inoltre, l’uomo creato per la libertà porta in sé la ferita del peccato originale, che continuamente lo attira verso il male e lo rende bisognoso di redenzione. […] Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un’organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla. La politica diventa allora una «religione secolare», che si illude di costruire il paradiso in questo mondo.” Queste sono alcune luminose parole di Papa Giovanni Paolo II contenute nella Centesimus Annus del 1991. Ecco, forse necessiteremmo di una guida spirituale di questo spessore, che ci indichi i pericoli insiti nel perseguimento di una politica salvifica, messianica e fideistica.

Ma questo è un discorso che, per quanto complementare a quello sin qui trattato, andrebbe affrontato in separata sede.

 

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