Fra gli intellettuali pubblici che hanno attraversato il Novecento, Nicola Chiaromonte (1905-1972) è sicuramente uno dei meno classificabili. Non perché all’interno del suo pensiero siano riscontrabili grosse fratture o cambiamenti, ma perché esso non ha mai coinciso con quello dei movimenti o dei partiti a cui egli è stato vicino e nemmeno con quello delle persone che gli sono state più care e con cui ha condiviso tratti del suo cammino.
Una cifra unica, originale, personale, oltre che un’insofferenza per ogni forma di dissimulazione o nicodemismo (che egli riconduceva alla categoria della “malafede”), lo hanno sempre contraddistinto.
Era un socialista fortemente critico del comunismo, ma non alla maniera dei socialdemocratici: la sua idea di “liberazione” concerneva gli individui e non la società, perché, diceva, “ci si libera uno alla volta”, cioè per un processo personale di consapevolezza e maturazione.
Non fu mai marxista, ritenendo che la dottrina di Marx contenesse un “vizio d’origine”, inemendabile (molto prima di Craxi aveva contrapposto Prodhon a Marx in un suo saggio).
Il suo socialismo era libertario ed etico: la sua preoccupazione per i deboli nasceva da un imperativo della coscienza morale e si specificava nelle azioni concrete, non nelle teorie.
La giustizia, a cui i socialisti anelano, non era quella che si realizzava mettendo mano a grandi processi di trasformazione politica, ma quella che faceva la sua prova ogni giorno nelle normali relazioni umane. E questa giustizia del presente, puntuale, contingente, non poteva essere sacrificata in nome di una Giustizia superiore e generale da realizzare come programma politico.
L’ideale di Chiaromonte diventa allora quello dell’uomo etico, che anche quando agisce politicamente, cioè nella polis, lo fa come Antigone e non come Creonte, anteponendo la salvezza della propria anima a quella dello Stato.
Questa eticizzazione della politica, proprio perché individuale, non era però in lui concepita alla maniera del Partito d’azione, a cui mai si iscrisse, che invece voleva “moralizzare” astrattamente la vita pubblica.
Presupponeva profonda onestà morale e intellettuale, una corrispondenza fra pensiero e azione, la capacità di non nascondere le proprie idee nemmeno quando poteva essere essere utile farlo (nulla fu più lontano da Chiaromonte della dottrina della “doppia verità” che egli contestava agli intellettuali). È sempre il singolo, l’individuo, al centro del suo pensiero, e anche del suo socialismo.
Con l’amico Albert Camus, anch’egli avrebbe potuto descriversi come “solitaire solidaire”.
La sfida della sua vita, vinta anche a costo di qualche rinuncia in termini di popolarità, fu quella di conservare il proprio se stesso ma senza chiudersi in una turris eburnea, distaccandosi casomai dal mondo come il fratello Mauro (egli fra l’altro fu sempre fieramente anticlericale).
Fu intellettuale militante, ma in un senso completamente opposto a quello teorizzato da Jean Paul Sartre, che conobbe e detestò. Proprio perché visse fino in fondo il suo tempo, e rispose con la propria cifra alle sfide delle diverse situazioni storiche in cui si trovò ad operare, ricostruirne la biografia può essere utile per avvicinarsi al suo universo mentale e morale.
È quanto fa ora il bel libro di Cesare Panizza pubblicato da Donzelli: Nicola Chiaromonte. Una biografia ( pagine 321, euro 29). L’autore, che ha la capacità di intrecciare le vicende di vita di Chiaromonte alle sue idee, divide il suo testo in parti corrispondenti ognuna al luogo geografico in cui, nei diversi periodi della sua vita, Chiaromonte ha vissuto. A Rapolla, il paese lucano ove era nato, è dedicata solo una piccolissima parte, avendo la sua famiglia ( il padre era medico) deciso di trasferirsi nella capitale quando Nicola aveva solo tre anni. Ed ecco: Roma (1908-1934), Parigi (1934-1941), New York (1941-1948), di nuovo Parigi (1947- 1953) e infine ancora Roma (dal 1953 fino alla morte).
Le differenza con Rosselli
La sua prima attività antifascista si svolse nei gruppi di “Giustizia e libertà”, prima a Roma poi a Parigi ove fu costretto a riparare.
Quello con Rosselli e compagni fu un rapporto a dir poco dialettico, costellato da polemiche e fronde interne. Tanto più che a Parigi si era legato con il socialista anarchico Andrea Caffi, che considerò sempre il suo maestro: insieme a lui e a pochi altri, costituì il gruppo di opposizione interna a GL detto dei “novatori”.
Oltre che pratico-organizzative, le differenze con Rosselli erano però intellettuali, riflettendosi sull’idea stessa di concepire l’antifascismo.
Le idee di Chiaromonte erano, anche da questo punto di vista, originali: era molto critico col Risorgimento e con l’Italia che ne era uscita, pur non condividendo la tesi di molti che vedevano il fascismo come figlio delle contraddizioni di quella Italia. Né lo considerava, come Croce, una semplice “parentesi”.
Pur corrispondendo per certi versi con la critica del carattere nazionale che si ritrovava nella tesi gobettiana del fascismo come “autobiografia della nazione”, Chiaromonte ebbe l’intuito di concepire da subito il fascismo come un fenomeno, certamente sollecitato dalle convulsioni della Grande Guerra, ma non solo italiano e legato alle contraddizioni della moderna società di massa con la sua tendenza alla macchinazione, alla burocratizzazione, al conformismo e all’omologazione.
Fu per questo che egli, pur non tentennando minimamente su che parte stare, prima nei confronti del fascismo e poi soprattutto nel dopoguerra nei confronti del comunismo, non nascose mai a se stesso i germi di “totalitarismo”, se così si può dire, che erano presenti anche nelle nostre democrazie. E prima ancora nell’idea di Stato. Da qui il suo radicale antisovranismo, si direbbe oggi, e la critica dello Stato nazionale e del nazionalismo.
Al controllo della forza, che è proprio degli Stati, egli oppose sempre l’utopia della non violenza, della “disobbedienza” e della resistenza al potere: non come programma politico, ma come testimonianza individuale e modello regolativo.
La guerra di Spagna, a cui partecipò nella pattuglia aerea dello scrittore francese André Malraux, di cui era amico, lo confermò in queste tesi, sopratutto quando vide all’opera i comunisti col loro furore contro gli anarchici. È impressionante come Chiaromonte, sia prima a Parigi sia poi a New York, si sia subito integrato nei circoli intellettuali locali più importanti, venendone considerato a tutti gli effetti uno di loro.
Il fatto è che, come sottolinea Panizza a più riprese, egli non si considerò mai un esule, né fece vita da esule rinchiuso nei confini della propria comunità di appartenenza e con l’occhio rivolto al Pese d’origine con la speranza di potervi presto rientrare. Il suo carattere ha poi fatto sì che egli si legasse in amicizia e collaborasse, con l’idea di gettare un ponte fra le due sponde dell’ Atlantico, con intellettuali influenti come Albert Camus, Raymond Aron, Hannah Arendt, Mary McCarthy, Dwight MacDonald, George Orwell, contribuendo, fra l’altro, non poco alla conoscenza e alla fortuna di Simone Weil, dal cui pensiero si sentiva attratto e che fece conoscere ai suoi amici d’oltreoceano.
Più conosciuto all’estero
Non è un caso che oggi Chiaromonte (le cui carte sono in una biblioteca dell’Università di Yale) sia più consciuto e citato all’estero che in Italia. Particolarmente proficua fu per lui l’esperienza americana, perché entrò a far parte a pieno titolo di quei circoli radical e democratici newyorkesi che, per fortuna, non avevano ancora conosciuto il politically correct (sarebbe arrivato tanti anni dopo) e che, a volte legandola al trotskismo, avevano una spiccata anima libertaria e anticonformista.
Divenne collaboratore della Partisan review e aderì sin dall’inizio alla rivista politics (1944- 1949: rigorosamente con la lettera minuscola) patrocinata da MacDonald ( su di essa si segnala l’antologia a cura di Alberto Castelli pubblicata qualche anno fa da Marietti: politics e il nuovo socialismo. Per una critica radicale del marxismo).
Era evidente che l’appello alle minoranze libertarie, la critica alla mistica delle masse, il considerare il marxismo come una falsa via di liberazione per le classi subalterne, il netto schierarsi dalla parte dell’Occidente (alla cui società di massa pur non lesinava critiche), lo stesso suo anticlericalismo, cozzavano con il clima culturale che si era creato nell’Italia, soprattutto culturale, dopo la guerra.
Egli ritrovò le condizioni per tornare solo nel 1953, ponendo le basi per la fondazione, insieme a Ignazio Silone, di una nuova rivista, che vide poi la luce nel 1956 ( ebbe vita fino al 1968).
Essa era organo di una rete internazionale di riviste patrocinate dal Congress for Cultural Freedom, del cui board direttivo Chiaromonte e Silone avevano fatto parte fin dall’inizio e che nasceva come risposta ai cosiddetti “partigiani della pace” che facevano riferimento all’Unione Sovietica.
Fatta la tara delle polemiche ogni tanto risorgenti su presunti finanziamenti della Cia (che non ne inficiarono minimamente la linea tanto che il maccartismo fu nelle sue pagine fortemente stigmatizzato), “Tempi presenti” può essere considerata la migliore e meno provinciale (basta scorrere l’elenco delle firme internazionali che vi collaborarono) rivista che l’Italia abbia avuto nel dopoguerra, superiore, ad avviso di chi scrive, a “Il mondo” di Pannunzio, di cui pure Chiaromonte fu per un periodo critico teatrale. In essa, la cifra cosmopolitica si estese anche all’Est europeo: sulle sue pagine, grazie all’intermediazione di Gustav Herling, trovarono ampio spazio le voci della dissidenza e resistenza ai regimi sovietici.
La riflessione di Chiaromonte andò sempre più sviluppandosi in una riflessione filosofica sul nostro tempo, sui temi della cultura di massa (che giudicava disumanizzante) e del rapporto fra intellettuali e potere. In nome dell’ideale, a cui tenne sempre fermo, dell’autonomia assoluta della cultura.
Riflessioni tutte che conversero in Credere e non credere, del 1971, nata da una serie di lezioni tenute a Princeton e già uscito a Londra un anno prima col titolo The Paradox of History.
Notevole rimane oggi la critica di Chiaromonte al costruttivismo politico, in ogni forma esso si presentasse, fosse pure quella dei partiti riformisti o progressisti (egli fu un critico implacabile dell’idea di Progresso), in nome delle ragioni dell’individuo e della sua non programmabile singolarità.
«Era quella di Chiaromonte – scrive acutamente Panizza – una filosofia della storia in negativo, in fondo finalizzata a decostruire ogni filosofia della storia, quale ne fosse il fondamento ideologico e religioso».
Fosse solo per questo, il suo pensiero merita di essere ripreso e studiato.