Marcello Veneziani è pensatore acuto come ce ne sono pochi in circolazione. Da ciò che scrive o dice si possono sempre trarre utilissimi spunti di riflessione, lontani da quella melassa politicamente corretta che intorpidisce le menti e ha la presunzione di farci pervenire al Giusto e al Bene universale e definitivo.
In un’intervista rilasciata il 28 gennaio a Luigi Iannone (“Il Giornale”), l’autore viene sentito sul suo ultimo lavoro, da poco uscito in libreria, Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee (Marsilio). Pur non essendo liberale, a differenza di chi scrive, Veneziani sostiene alcune tesi che non si possono che condividere. Infatti, elogiando, ad esempio, il ruolo della famiglia non si può non riconoscere che essa costituisce uno di quei legami che ci aiuta a diventare degli “io” e ci traghetta verso la nostra maturazione. Si tratta, quindi, di un imprescindibile strumento di crescita individuale, nonché, piuttosto verosimilmente, di un ineludibile bisogno umano. Senza dimenticare quanto essa possa essere una di quelle preziosissime comunità prepolitiche che vanno opposte all’invadenza di uno stato sempre più intrusivo nelle nostre vite.
Inoltre, sostiene il saggista pugliese, «è necessario comprendere che non siamo illimitati, che i nostri diritti non possono coincidere coi nostri desideri e farsi smisurati». Il richiamo alla fallibilità e, diciamo pure, all’ignoranza di essere imperfetti quali noi siamo, non può che risultare piacevole per chi ha una certa sensibilità liberale. Così come il successivo rimando al desiderio irrefrenabile di sempre più diritti octroyés dallo stato richiama immediatamente quell’ «uomo-massa» di orteghiana memoria – e così ben richiamato da Giovanni Orsina nel recente La democrazia del narcisismo, Marsilio – che mette tanto a repentaglio la società, quanto porta al sovraccarico delle democrazie che si fanno sempre più traballanti.
Infine, almeno per quanto attiene alle posizioni che da un punto di vista liberale possono essere condivise, va citato per intero ciò che egli asserisce a proposito della “tradizione” – una delle dieci idee, come da sottotitolo del volume, che a detta sua vanno prepotentemente riscoperte –, essa «non è solo la gioia delle cose durevoli ma anche il senso della continuità, la convinzione che il mondo non sia nato con noi e non finisca con noi. L’esperienza ci ha insegnato che la tradizione è l’unica promessa di futuro nel nome del passato; senza tradizione sparisce prima il passato, poi il futuro, si perde ogni connessione, si resta prigionieri del momento». L’eco burkeiano è piuttosto evidente, giacché, come si ricorderà, nelle Riflessioni sulla Rivoluzione francese suonano potenti le seguenti parole: «I popoli che non si volgono indietro ai loro antenati non sapranno neanche guardare al futuro». Con Nisbet diremmo che «non possiamo sapere dove siamo, ancor meno dove stiamo andando, senza sapere dove siamo stati». Da un punto di vista liberale, si tratta solamente, per così dire, di non declinare il senso della tradizione in modo assoluto e dogmatico, diciamo escludente, quanto, bensì, di servirsene come impareggiabile ausilio per meglio comprendere il presente e poiché essa costituisce in buona misura la base su cui edificare la nostra vita. Con le splendide parole di Ortega y Gasset potremmo dire che «l’uomo non è in nulla costruttivo, se non è continuità. Per superare il passato bisogna non perdere il contatto con esso; ma al contrario sentirlo bene sotto i nostri piedi, perché ci stiamo sopra». In altri termini, se siamo ciò che siamo, lo dobbiamo anche a chi è venuto prima di noi e a cosa è stato creato, spontaneamente o deliberatamente, da chi ci ha preceduto. Siamo, dunque, essere ineludibilmente situati e radicati, nonostante un certo pensiero iper-razionalista vorrebbe farci credere che non sia così.
Tuttavia, riconosciuti i doverosi meriti a Veneziani, non si possono tacere alcune perplessità. Sembra, infatti, che il Nostro tenda a scambiare degenerazioni della modernità, con la modernità stessa. Sostenendo, ad esempio, che «nella parabola della modernità Dio viene poi sostituito con la storia, con la scienza, con l’umanità. Alla fine di questa parabola, resta l’individuo solo e assoluto che vive la sua solitudine globale chiuso nel recinto del privato». Sebbene la modernità “liberatrice” dai miti e dalle illusioni magico-sacrali-superistiziose possa, come sostiene Veneziani, portare l’individuo a rifugiarsi nel proprio confortevole “particulare”, si tratta, a mio avviso, per l’appunto di un’eventualità, e non di una necessità. Come ci spiega Popper, infatti, un tratto peculiare di una società aperta è anche quella di far uscire l’uomo da gabbie mentali ammantate di sacertà e di dogmi indiscutibili, che rendono il mondo e la realtà fissati nella loro statica immobilità, per mezzo di decisioni personali e individuali che criticano, con l’umiltà necessaria a essere ignoranti e fallibili, l’esistente. Detto altrimenti, la scoperta dell’individuo, e dunque dell’esistenza di una moltitudine di sostanze uniche e irriducibili, fa sì che esso si renda di conto avere tra le sue possibilità quella di pensare in modo autonomo, ma non disancorato dal reale, e di agire in mezzo agli altri.
Si tratta, pertanto, di conciliare una dimensione comunitaria dell’individuo, giacché esso non esiste se non in società, come persino uno dei padri nobili del liberalismo, Adam Smith, osservava, a una sua ineludibile vocazione individualistica. Ancora con le adamantine parole di Ortega, essere uomo significa «essere in una tradizione», in quanto, l’autenticità che contraddistingue ogni individuo di per sé irripetibile nelle sue peculiarità, non può che poggiarsi su una base apparentemente inesistente, ma che al contrario ci fornisce il materiale strutturale su cui andare a innestare la nostra individualità: «la società, la collettività, è il grande essere senz’anima, poiché è l’umanità naturalizzata, meccanizzata e quasi mineralizzata. […] Grazie alla società l’uomo è progresso e storia. La società tesorizza il passato. […] La società mette l’uomo in posizione di partenza e gli consente di creare il nuovo, il razionale e il più perfetto».
Dunque, il recupero del mito come riscatto allo smarrimento di un individuo spaesato e disancorato non credo sia la soluzione migliore. Inoltre, ritenere che essi «ci fanno vedere la realtà sotto altra luce; ci fanno abitare in una vita ulteriore», potrà magari esser vero: ma la realtà che ci fanno vedere non è un’illusione bella e buona? E il fatto che i miti ci possano far tendere verso una vita più piena e meno volgare, non rischia di portarci verso un’utopia che si fa distopia? Dopo tutto, tanto il mito della “giustizia sociale” di stampo comunista, quanto il mito della “razza pura” di matrice nazionalsocialista (da preferirsi alla semplice denominazione di “nazismo”, giacché mette in luce una matrice piuttosto prossima dei due totalitarismi, quella socialista, che molto spesso viene taciuta per un doppiopesismo ottuso e miope) hanno dato vita a veri e propri eccidi che hanno riportato l’essere umano a uno stato di vera ferinità. E allora, io credo, non abbiamo bisogno di nuove (o vecchie) illusioni, bensì di recuperare il senso del limite e l’umiltà come individui naturalmente imperfetti.
«La possibilità di perdersi e il malessere che ne deriva sono il tragico destino dell’uomo e il suo nobile privilegio». Ancora una volta Ortega ci richiama alla nostra straordinaria poliedricità. Constiamo di due facce in perenne rapporto-conflitto tra loro. Se, da un lato, la libertà faticosamente conquistata in seguito, o grazie, alla modernità ci rende capaci di molto (e non di tutto), parimenti la possibilità che noi abbiamo di smarrire la strada è davvero alta. Si tratta di impiegare la nostra libertà in modo responsabile, consci che «la condizione dell’uomo è sostanziale incertezza» (Ortega) e che «l’uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino» (Hayek). Non abbiamo bisogno di miti, ma di ritrovare il senso di un individuo che, come Charles Taylor osservò in una straordinaria opera Il disagio della modernità, naturalmente ha «natura incarnata, dialogica, temporale». Possiamo anche dire, nuovamente col pensatore canadese, che «è necessario scorgere quel che c’è di grande nella cultura della modernità, e insieme quel che c’è di vacuo o di pericoloso».
Cominciamo, allora, col sostituire a un individualismo falso un individualismo vero, basato sull’idea di individui «la cui natura e carattere vengano complessivamente determinati dalla loro esistenza nella società». Tale distinzione si deve a Hayek, un pensatore che è stato poco letto e probabilmente ancor meno capito. Se la facessimo nostra e la implementassimo, probabilmente si vedrebbe ciò che la modernità è e ciò che la modernità è diventata degenerando quasi nella sua antitesi. E se la democrazia traballa, tutto sommato, è anche (o soprattutto) a causa dell’individualismo degenerato che ormai la contraddistingue e che rischia di farla malamente perire.
PhD candidate, Luiss Guido Carli, Roma. Tra gli interessi di ricerca: populismo, rapporto liberalismo/democrazia, pensiero liberale classico