In Tre storie, una storia. Italia, Europa, Mondo (Ed. Mauro Pagliai, pagg. 160, euro 12, con una prefazione di Danilo Breschi), Zeffiro Ciuffoletti ci offre una meditata diagnosi dei nostri mali, sullo sfondo di una crisi che investe non solo l’Italia ma anche il Vecchio Continente e gli Stati Uniti.
Il mondo multipolare, avverte lo storico fiorentino, non è «un paradiso, come invece sognano o fanno credere i sempiterni antiamericani che l’Europa e, in particolar modo, l’Italia si portano in grembo. L’esperienza storica insegna infatti che un sistema internazionale multipolare può anche degenerare in quella forma di anarchismo degli Stati-nazione che fu propria dell’Europa negli anni precedenti allo scoppio del primo conflitto mondiale».
E non sarà certo l’attuale Unione Europea in grado di fronteggiare le sfide della globalizzazione e l’epocale trasmigrazione di popoli dei nostri anni. L’Europa, infatti, soffre di un deficit di democrazia dovuto alla mancanza di un grande progetto: priva di «un collante identitario e istituzionale» si riduce oggi a «un ring di continue contrattazioni tra gli Stati nazionali» invece di essere «il luogo in cui si condividono ideali e valori comuni».
Nella sezione dedicata all’Italia e al suo sistema politico, l’autore mette bene a fuoco i nostri grandi problemi irrisolti: la continuità fascismo/antifascismo; l’antica conflittualità ideologica tra le diverse Italie; l’endemica debolezza dei governi.
«Lo Stato italiano, nato con la repubblica, è Stato antifascista nell’ideologia fondante del sistema dei partiti, ma non c’è stata rottura col regime fascista nel rapporto tra cittadino e amministrazione, che è rimasto, nella sostanza, uno scambio, non importa se mediato da più partiti o da un solo partito, tra consenso ed elargizione di diritti e privilegi».
Di qui il trionfo scontato, in ogni confronto elettorale, del partito unico del debito pubblico che genera il paradosso «troppo Stato e poco governo 150 anni 121 esecutivi».
Tutti chiedono tutto allo Stato e, in tal modo, ne aumentano l’obesità ma senza riconoscersi nell’etica pubblica che ne sta alla base. Ma è la debolezza dell’esecutivo il problema dei problemi.
Avremmo bisogno di «un governo dotato degli stessi poteri attribuiti agli esecutivi dei maggiori paesi europei. Senza un rafforzamento dei poteri del premier (sfiducia costruttiva); senza il potere di veto su leggi o emendamenti che comportino nuovi oneri per le finanze pubbliche e senza la facoltà di attivare la clausola di supremazia statale, che esiste ad esempio in Germania per opere pubbliche di rilevanza nazionale o internazionale, non sarà possibile sperare di risolvere i gravi problemi che deve affrontare l’Italia».
Sono convinto, però, che un fattore di debolezza del nostro sistema politico stia in quella mancanza di spina dorsale etica che fa sempre rimuovere e condonare.
Ciuffoletti, trattando delle Regioni, rileva drasticamente che «nella gestione di servizi con enti, società partecipate e miste, gli enti locali sono riusciti a moltiplicare costi, poltrone e procedure. Praticamente un disastro».
In un’altra pagina, annota che «l’unica riforma istituzionale attuata – e cioè quella del titolo V della Costituzione (2001) – non ha fatto che aumentare la conflittualità e la sovrapposizione di competenze fra i diversi livelli dello Stato: comuni, province e regioni, sono stati tutti messi sullo stesso piano per concorrere fra loro sulle più varie materie, con il risultato di un aumento impressionante della spesa pubblica».
D’accordo, ma occorre pure chiedersi: chi ha pagato per quei disastri? E non è forse vero che i loro autori – col conforto di giuristi e giornalisti d’area – continuano a essere considerati «risorse della Repubblica»?
Abbiamo una classe dirigente che si salva sempre con l’autocritica o fondando nuovi partiti. Quando la buonanima di Marco Pannella parlava di «regime» forse non aveva tutti i torti.