Avrebbero fatto bene Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e Santiago Abascal, leader di Vox, a leggere alcune pagine del cattolico liberale Tocqueville sulla capacità dei cattolici di separare le loro convinzioni religiose dall’agire politico nell’America dell’Ottocento, in un ambiente prevalentemente puritano.
L’America, scriveva Tocqueville, è stata popolata da uomini che rifiutavano ogni supremazia religiosa, portando, nel Nuovo Mondo, un cristianesimo democratico e repubblicano. Politica e religione si trovarono subito d’accordo, e l’accordo non riguardò solo i puritani, ma anche i cattolici, che, pur mostrando un grande zelo per la loro fede, formarono “la classe più repubblicana e più democratica” che vi fosse negli Stati Uniti.
Tutto ciò non fu una sorpresa per Tocqueville, perché, a suo avviso, fra le varie confessioni cristiane, il cattolicesimo è una delle più favorevoli all’uguaglianza, dal momento che, sul piano dogmatico, tutte le classi sono poste “ai piedi di un medesimo altare”. I sacerdoti cattolici, prosegue Tocqueville, hanno diviso il mondo intellettuale in due parti: “nell’una hanno lasciato i dogmi rivelati, e ad essi si sottomettono senza discuterli; nell’altra hanno posto la libertà politica, e sono convinti che Dio l’ha lasciata alla libera ricerca degli uomini”. I cattolici sono allora i fedeli più sottomessi e i cittadini più indipendenti. In Europa, scriveva Tocqueville, per vicende storiche segnate dalla contrapposizione fra Chiesa e potere politico, questa separazione fra i due mondi faceva fatica ad affermarsi.
Meloni e Abascal non sono propensi ad accettare del tutto questa separazione tra religione e politica, che nel corso del tempo si è realizzata anche da noi. A Madrid, infatti, hanno denunciato la crisi in cui verserebbero le basi cristiane dell’Europa, messe continuamente in discussione, a loro avviso, dal laicismo e dall’ateismo diffuso.
Le critiche al pluralismo e ai principi stessi dello stato liberaldemocratico hanno assunto, nel mondo conservatore, una dimensione rilevante dopo il 1989, in seguito alla fine del comunismo. L’idea che il liberalismo non avesse più avversari, e che nessuna ideologia alternativa potesse contenderne il primato, ha ridato vigore, in svariati ambienti, all’ostilità contro lo stato laico.
In molti hanno ripreso, in tale direzione, l’enciclica Veritatis splendor, del 1993. In questo documento, Giovanni Paolo II scriveva che, dopo la crisi delle ideologie, e del marxismo in particolare, si profilava il rischio che venissero collocati in secondo piano i diritti fondamentali della persona e le esigenze spirituali legate all’esperienza religiosa. L’alleanza “fra democrazia e relativismo etico” avrebbe inoltre posto in ombra ogni valore morale, impedendo agli uomini il “riconoscimento della verità”. Nel 2004, l’allora Cardinale Ratzinger dichiarava che il principio maggioritario, alla base delle liberaldemocrazie, riduce a un criterio meramente quantitativo le questioni etiche, che vanno sottratte a ogni calcolo politico.
Ben lontani dalla dottrina teologica dei due Papi, e con finalità ben diverse, i due leader della destra europea, Meloni e Abascal, si scagliano contro il “relativismo assoluto” e “l’ateismo aggressivo” dei nostri giorni, ponendosi a difesa dei sacri valori di un’identità europea che sarebbe corrosa dal laicismo agnostico. Farebbero bene, quanti si richiamano a un integralismo cattolico ostile al liberalismo, a riflettere su un agile saggio del filosofo cattolico Dario Antiseri. Antiseri, che ha curato un’ampia raccolta delle opere di Giovanni Paolo II, è vicino al pensiero di Karl Popper, il filosofo della Società aperta e del fallibilismo e si dichiara relativista e cristiano allo stesso tempo. Bisogna prendere atto, egli sostiene, che le concezioni etiche sono molteplici e non abbiamo a disposizione criteri razionali che ci consentano di dimostrare in modo incontrovertibile quale sia l’etica assolutamente giusta. Nella scelta è allora essenziale il nostro senso di responsabilità, più che il sapere scientifico. Se è falso sostenere che tutte le concezioni morali si equivalgono, bisogna anche ammettere che i valori ritenuti fondamentali non possono essere il frutto di una dimostrazione logica. Se, dunque, per relativismo intendiamo la non dimostrabilità scientifica dei sistemi morali, si chiede Antiseri, possiamo negare che, in una società aperta, ci troviamo dinnanzi a una pluralità di valori e che l’assolutismo negherebbe ogni confronto?
Per un cristiano, sostiene Antiseri, solo Dio è assoluto, dal momento che tutto ciò che riguarda la condizione umana si colloca nella contingenza. Cadrebbe dunque nell’idolatria il cristiano che assolutizzasse un’ideologia. Il suo intenso saggio, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, del 2003, non dovrebbe mancare nelle biblioteche di quanti si affannano nelle piazze ad arringare le folle, evocando i massimi sistemi. Riuscirebbe forse a insinuare qualche dubbio e a far vacillare qualche infondata certezza.
Risulta evidente che il relativismo politico, posto alla base della democrazia, non può essere confuso, come spesso accade, con il nichilismo descritto da Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, in cui, per l’uomo che si crede Dio, “Tutto è permesso”. Su questo tema Antiseri scrive che, se il nichilismo può dar luogo a conseguenze terribili, non si può negare che, sotto altri aspetti, può anche rendere gli uomini consapevoli dell’impossibilità di dare un valore assoluto a un’idea. Il nichilismo diviene allora, scrive, “una concezione razionalmente sostenibile e umanamente ricca: sorgente di tolleranza e insieme riconquista dello spazio del sacro”. Non bisogna dimenticare che, sovente, chi si scaglia contro il relativismo e il nichilismo combatte la sua battaglia in nome di principi che escludono ogni forma di tolleranza. Le concezioni che, nel nazifascismo, stavano alla base delle teorie razziste condannavano infatti, in modo radicale, la tolleranza liberale, considerata responsabile del tramonto dei valori tradizionali. I processi staliniani, per altro verso, difendevano, con metodi da Controriforma, le supreme verità del materialismo dialettico, contrapponendosi alle procedure garantiste della “giustizia borghese”.
Le posizioni di Antiseri hanno spesso suscitato malumori negli ambienti integralisti, ma sarebbero state condivise da Tocqueville e sono vicine al pensiero di Popper e alla concezione che della democrazia aveva Kelsen, secondo il quale possiamo opporci all’assolutismo politico solo accogliendo una forma costruttiva di relativismo. Il suo saggio rappresenta quindi un antidoto rispetto alla teologia per le folle che da Roma a Madrid, da Budapest a Varsavia, viene, quasi quotidianamente gridata nelle piazze e nei social media.
L’ethos della democrazia si costruisce sul pluralismo piuttosto che sul monismo della verità e i suoi valori non sono meno sacri, potremmo dire pensando a Isaiah Berlin, solo perché non si collocano nel pantheon immutabile della teologia politica.
I rosari di Salvini, come i proclami madrileni di Meloni e di Abascal sono immensamente lontani da un Cristianesimo adulto, che si astiene dalla pretesa di legittimare teologicamente la politica. Della infondatezza di questa pretesa era consapevole il teologo Dietrich Bonhoeffer, che del totalitarismo nazista fu vittima, nel campo di concentramento di Flossenbürg. Per Bonhoeffer il cristiano doveva accettare di vivere nel mondo “etsi Deus non daretur” (Come se dio non ci fosse). L’ “al di là” di Dio non era, per lui, l’al di là della speculazione teoretica, ma prendeva corpo nelle avventure dell’esistenza e nell’ “esserci per gli altri”.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.