Il 9 febbraio Mario Vargas Llosa premio Nobel per la letteratura nel 2010, è stato ammesso all’Académie Française. È il primo scrittore che, senza aver pubblicato un’opera in francese, entra a far parte degli Immortels. Tra gli Anni 50’ e 60’ del Novecento la formazione culturale e politica di Vargas Llosa fu influenzata dal marxismo che, nel clima dell’America latina e del suo Perù, convogliava le energie di movimenti diversi che si battevano per l’eguaglianza e la giustizia sociale. Nel 1958 la rivoluzione cubana alimentò grandi speranze che già durante gli Anni 60’ si rivelarono però poco fondate. In Il richiamo della tribù (Einaudi, 2019) Vargas Llosa racconta infatti che quando visitò le UMAP, definite ufficialmente “Unità militari di aiuto alla produzione”, si rese conto che si trattava in realtà di veri e propri campi di concentramento, in cui erano reclusi dissidenti, omosessuali e delinquenti comuni. Nel 1968 fu poi invitato in URSS per partecipare a una commemorazione di Puskin. In quell’occasione comprese che se fosse stato un russo sarebbe diventato un dissidente, destinato a marcire nei gulag. Non riusciva a comprendere come Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Maurice Merleau-Ponty, che aveva frequentato a Parigi, potessero giustificare i crimini di Stalin, vedendo nell’URSS un’alternativa alle liberaldemocrazie. La scelta del liberalismo giunse dopo un percorso intellettuale maturato alla fine degli Anni 60’, quando insegnò all’Università di Londra. In quel periodo ebbe modo di riflettere sul fatto che nei paesi occidentali “il richiamo della tribù”, legato nei totalitarismi ai leader carismatici, era vivo soltanto negli eventi sportivi o nei concerti rock. Il “richiamo della tribù”, nel significato che Karl Popper attribuisce a quest’espressione, indica la tendenza a ricondurre ogni aspetto della realtà a una mitica unità originaria. L’individuo scompare allora in un tutto che lo ingloba : la tribù, il clan, il partito o una religione intollerante, il cui corrispettivo mondano è l’ideologia totalitaria.
Chi accoglie questa visione del mondo si sente chiamato a considerare ogni cosa in funzione dei “sacri” principi custoditi da una setta di eletti. L’uso della violenza sarà allora finalizzato alla realizzazione un bene superiore, cui si può giungere solo rimuovendo gli ostacoli rappresentati da quanti non comprendono la nobiltà della missione. Si pongono così le basi dei totalitarismi, che pretendono di ridefinire il corso della storia per garantire il paradiso (giacobino, sovietico, o altro). In questo progetto palingenetico, il riformista, secondo cui in politica è preferibile ridurre il male piuttosto che garantire il bene assoluto, diviene un traditore. Alle figure che hanno scandito il suo percorso verso il liberalismo Vargas Llosa dedica sei intensi ritratti. Si tratta di Adam Smith, José Ortega y Gasset, Friedrich von Hayek, Karl Popper, Raymond Aron, Isaiah Berlin, Jean-François Revel.
In Aron Vargas Llosa individua la figura esemplare di un intellettuale che smaschera le costruzioni velleitarie dell’ideologia così come si sono configurate nell’Europa del secondo dopoguerra, e in Francia in particolare. Da qui il netto contrasto con Sartre e Merleau-Ponty. Nel 1955, in controtendenza rispetto all’orientamento prevalente nell’Intellighenzia, Aron pubblica L’oppio degli intellettuali. Il libro si apre con la celebre citazione di Marx, che vede nella religione l’oppio dei popoli, a cui si contrappone però un passo di Simone Weil, dove si legge che proprio il marxismo, analogamente alle forme inferiori della vita religiosa, può essere usato, “secondo l’espressione così calzante di Marx, come oppio del popolo”.
In Umanismo e terrore Merleau-Ponty assolutizzava il marxismo, che a suo avviso non poteva considerarsi un’ipotesi qualunque. Era come “osservare la realtà solo attraverso la lente di questa profezia”, commentava Aron. La “storia sacra” del comunismo e “l’idolatria della storia”, che ne costituiva lo sfondo, furono costantemente il bersaglio delle lucide analisi di Aron, che nel ’68 denunciò poi quel confuso rivoluzionarismo in cui la Nouvelle Gauche anteponeva la rivendicazione dei diritti civili alla battaglia per i diritti sociali, inaugurando una strategia politica tuttora in atto nella sinistra. L’immagine di Sartre è spesso prevalsa su Aron ed è evidente quanto su questo abbia influito un certa spettacolarizzazione della cultura e della politica, più sensibile agli slogan che alle argomentazioni razionali.
Lo scrittore peruviano recupera anche la tradizione liberale classica, dal momento che il libro prende le mosse proprio da Smith, filosofo morale prima che economista. Per Smith l’economia non era separabile dalla dimensione etica e la ricerca dell’utile individuale non poteva che essere declinata in termini di utilità sociale, alla luce del fatto che la simpatia è un elemento costitutivo della condizione umana.
Vargas Llosa sottolinea come Smith intendesse orientare la crescita economica verso un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, ritenendo che una società in cui la maggior parte dei suoi membri è in povertà non può aspirare alla felicità. Considerava inoltre l’istruzione come un elemento fondamentale, auspicando un intervento pubblico per venire incontro a quanti non fossero in grado di mantenersi agli studi. Il modello sociale descritto da Smith non è il frutto di una costruzione calata dall’alto, ma il prodotto di un processo spontaneo.
Questa concezione prefigura quell’ordine naturale del mercato che Hayek chiamerà Cosmos, in contrapposizione a Taxis, l’ordine imposto dalla legislazione, che si traduce in esiti dirigistici e in velleitarie pianificazioni. La conoscenza è diffusa e frammentata e non può cogliere la totalità, sostiene Hayek, in sintonia con l’epistemologia di Popper, secondo il quale la scienza non si fonda su solida roccia. Le sue basi, come avviene nelle palafitte, affondano infatti in un terreno precario, da tenere sempre sotto costante verifica. Hayek, come Popper, denuncia quindi l’abuso della ragione, che pretende di rifondare il mondo e di creare l’uomo nuovo.
Questo metodo critico non poteva che riflettersi in un sapere antidogmatico e in una Società aperta e pluralista, in netta opposizione alla Società chiusa, retta da una teologia politica autocratica. Riguardo ad Hayek, Vargas Llosa non manca però di rilevare un profondo vulnus, rappresentato dal suo appoggio alla politica economica della giunta militare cilena di Pinochet. Prende quindi le distanze dalla sua idea “che una dittatura che pratichi un’economia liberale sia preferibile a una democrazia che non lo fa”.
Il Novecento ha rappresentato un terreno propizio per le seduzioni totalitarie, come dimostra La rivoluzione delle masse di Ortega y Gasset, che Vargas Llosa considera uno dei filosofi liberali più importanti del secolo scorso. Nella massa, scriveva il filosofo spagnolo, un insieme di soggetti perde la propria individualità e gli istinti prevalgono sulla ragione. L’azione diretta, espressione dell’automatismo stimolo-risposta, sostituisce così l’azione indiretta, e le procedure della democrazia cedono il posto alla violenza dei metodi squadristici. Il comunismo, come il fascismo, apparivano allora a Ortega due esempi di regresso sostanziale, in cui si assisteva alla trasformazione dell’individuo in uomo-massa. Vargas Llosa si riconosce in questa diagnosi di “un pensatore liberale che vede nella scomparsa dell’individuo all’interno del gregarismo un passo indietro dal punto di vista storico e una minaccia gravissima per la civiltà democratica”.
Un altro filosofo liberale con cui Vargas Llosa entra in dialogo è Berlin. Nonostante Berlin sia noto per aver messo sempre in guardia dalla libertà positiva, ritenendo che dare contenuti alla libertà implicasse il pericolo di distoglierne la natura, non mancò di denunciare i rischi di una libertà illimitata. In un dialogo con Steven Lukes sostenne che se la libertà positiva è stata “pervertita politicamente”nei totalitarismi, la libertà negativa, con il laissez faire, “ha portato alle sofferenze dei bambini nelle miniere di carbone”. Nel 1949, nel saggio su Le idee politiche del ventesimo secolo, scrisse che il New Deal di Roosevelt, rappresentava “il compromesso più costruttivo tra libertà individuale e sicurezza economica di cui sia stato testimone il nostro tempo”. Posizioni, queste, che non sarebbero state di certo sottoscritte da Hayek, a testimonianza della natura costitutivamente aperta e plurale del liberalismo.
Il libro si conclude con il ritratto di un pensatore “scomodo”, Jean-François Revel, che Vargas Llosa accosta ad Albert Camus e a George Orwell. Revel fu sostanzialmente un libertario e un liberalsocialista. In uno dei suoi saggi più dissacranti, La conoscenza inutile, del 1988, criticava aspramente quegli intellettuali che si opponevano in modo pretestuoso e ideologico ai modelli politici occidentali. A suo avviso rappresentavano, per la democrazia, una minaccia maggiore rispetto a quella che proveniva dal socialismo reale e dai nemici dichiarati del liberalismo. Le vicende attuali dimostrano come questi temi, in forme diverse, possano riemergere in ogni momento. Ecco perché è utile rileggere il libro di Vargas Llosa e fermarsi a riflettere sui pensatori che hanno rappresentato radicali alternative all’oppio ideologico e al tradimento dei chierici, dal XX secolo ai nostri giorni.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.