Il biotestamento ha generato attese e speranze che andranno incontro alle loro delusioni. Comprendo le motivazioni che vi sono alla base della “dichiarazione anticipata di trattamento” ma so che la legge non risolverà il problema che per natura è senza soluzione.
Non mi riferisco agli ostacoli e agli intoppi burocratici, legislativi e sanitari che sorgeranno al momento di far rispettare la volontà anticipata del malato o del morente bensì al cuore stesso della situazione che non riguarda, come si tende a credere, il malato nella sua solitudine ma la relazione che c’è tra il malato, i suoi cari e i medici. Il biotestamento si fonda su un’illusione.
Infatti, la ragione del biotestamento non è da vedersi nella volontà espressa in anticipo dal futuro malato ma nella paura dei medici e dei cari che temono le conseguenze giuridiche delle loro azioni o astensioni. Non a caso il medico che rispetta la volontà del malato di non essere più nutrito e idratato è esente da responsabilità penali e civili. In altre parole, la legge non riposa su ciò che è detto esplicitamente ma su ciò che è implicito o taciuto e, insomma, non detto.
Lo voglio dire nel modo più chiaro possibile: la volontà del malato espressa in anticipo annulla le responsabilità dei medici e dei cari perché la morte è tutelata o voluta con la legge dello Stato e, dunque, nessuno ha da temere niente dalla legge dello Stato.
Ma davvero pensiamo che le responsabilità mediche e morali possano essere annullate da una legge?
Per paura di esercitare le responsabilità che possono essere perseguite dalla legge cerchiamo riparo sotto la tutela della legge. La morte naturale e sanitaria può essere “ingiusta”, la morte per legge è “giusta”: la prima è perseguibile, la seconda no. Si tratta, per restare in campo medico, di una strana terapia omeopatica che intende curare il male con il male ma non si avvede che così facendo sta solo preparando il terreno ad un’ulteriore complicazione di una problema privo di una soluzione anticipata, astratta, giuridica.
In astratto l’idea è facile: ognuno sceglie come morire e quando starà per morire o starà male gli altri ne rispetteranno la volontà.
In concreto l’idea è difficile: la scelta fatta in anticipo ignora che i tempi sono cambiati e la situazione immaginata non combacia con la singolare realtà. A questo punto cosa si fa? Rientrano dalla finestra quelle responsabilità che ci si è illusi di aver cacciato dalla porta ma con la responsabilità ritorna anche la paura della legge che è intensificata dalla presenza del giudice.
Per paura dello Stato ci si è rivolti allo Stato per essere autorizzati ad iniziare alla morte, ma in questo modo si sono svalutate le responsabilità che invece servono proprio quando il problema della vita che muore e che vive si ripresenta in tutta la sua tragica realtà.
È evidente: si sta chiedendo una soluzione o una cura ad un soggetto – lo Stato, la legge, i giudici – che per sua natura non solo non può fornirla ma addirittura la complica. Non resta da fare che imboccare la via opposta.
Non è meglio responsabilizzare medici e familiari?
L’altra via è quella della valorizzazione delle responsabilità dei medici e dei familiari che pur volendo non possono rifiutare la situazione nella quale si trovano. Ci sono vite – e qui parlo per esperienza – che diventano estreme senza nessun preavviso e chi ne fa esperienza per sangue e per amore non vi si può sottrarre in alcun modo anche se lo volesse perché quella vita amata e sofferente lo rincorrerà sempre e sempre lo afferrerà, qualunque cosa egli faccia, sia che presterà le cure sia che scapperà, sia che darà una carezza sia che guarderà come incantato, sia che accetterà la condizione sia che maledirà il Signore o chiunque egli sia.
Qui il compito migliore che lo Stato – in concreto: il legislatore – può assolvere è quello di tutelare una zona franca in cui la pratica medica e la vita affettiva dei cari possano esprimersi nell’interesse del malato o del morente senza che vi siano timori di rivalse, risarcimenti, risentimenti e, insomma, tutte quelle ossessioni tipiche di una vita giuridicamente e ristrettamente intesa.
La vita statale è una vita troppo angusta per farci stare dentro tutta la ricchezza e la forza della vita umana e il compito del legislatore è sapere prima di tutto che non può legiferare su tutto perché si ottengono effetti contrari alle intenzioni.
Sul biotestamento si sono scontrati, sia pure in modo più attenuato rispetto al passato, cattolici e laici. Mi sembra che queste definizioni comincino a lasciare il tempo che trovano. Conosco la posizione dei cattolici e la rispetto ma non posso seguirli fino al punto da imporre ad altri la loro morale.
Allo stesso modo, però, anche i laici o coloro che tali si professano non possono né pensare né imporre la loro morale aumentando sempre più la sfera di intervento dello Stato perché, come si vede, il più delle volte lo Stato non è la soluzione ma l’origine stessa del problema che mortifica la nostra vita intellettuale e morale quando riteniamo che della nostra umanissima condizione di libertà possiamo apprezzare i piaceri e i benefici senza la contropartita della lotta e della sofferenza.