Con la lettura dell’articolo intitolato “Un ergastolano sardo ci racconta lo stupore di vedere il mondo – Le mie due ore di libertà dopo quarantanni in cella”, pubblicato da “Il Dubbio” del 09/03/2019, non possono che sorgere alcuni fondamentali interrogativi sulla pena dell’ergastolo, tuttora presente in Italia.
Il primo di questi è relativo alla compatibilità dell’ergastolo con il principio costituzionale del fine rieducativo della pena detentiva (art. 27 Cost). Che senso ha, in poche parole, l’esistenza di una pena che non finisce mai, laddove la Carta fondamentale del nostro ordinamento sancisce esplicitamente il principio della rieducazione del condannato?
L’annosa questione è già stata posta, in passato, all’attenzione della Corte costituzionale.
Con la nota sentenza n. 264 del 1974, il Giudice delle Leggi ha, però, confermato la compatibilità costituzionale della pena perpetua con il nostro ordinamento, sostenendo che la rieducazione del reo possa avvenire anche senza il reinserimento dello stesso nella vita sociale e di relazione.
Inoltre, la stessa pronuncia precisa che “l’istituto della liberazione condizionale disciplinato dall’art. 176 c.p. – nel testo modificato dall’art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634 – consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano”.
In pratica, la Consulta -40 anni fa- ha negato che la pena dell’ergastolo fosse in contrasto con la Costituzione, perché anche l’ergastolano, decorso un preciso termine e in determinati casi, può usufruire dell’istituto della libertà condizionale.
Tale interpretazione della Corte costituzionale, però, merita oggi di essere rivista.
Innanzi tutto, bisogna dire che l’accesso ai benefici della semilibertà o della libertà condizionale può essere concesso solamente dopo molti anni e, comunque, è sempre revocabile. Così, per sintetizzare, lo status di ergastolano permane in capo al reo vita natural durante.
Oltre a ciò, l’ergastolano non può usufruire della riduzione della pena a seguito di indulto (se non con l’esplicita volontà legislativa di remissione o commutazione dell’ergastolo) e i reati puniti con tale sanzione non si prescrivono.
Senza dimenticare, infine, il c.d. “ergastolo ostativo”, che vieta teoricamente la concessione dei benefici, senza una condotta collaborante con la giustizia del detenuto.
Bisogna aggiungere, poi, che la pena dell’ergastolo è l’unica pena fissa e di automatica applicazione prevista dal nostro ordinamento. Alla luce di ciò, l’ergastolo appare incompatibile non solo con l’art. 27, commi 1 e 3 della Costituzione, ma anche con l’art. 3.
Il carattere rigido dell’ergastolo è, infatti, espressione di una pretesa punitiva che esclude qualsiasi possibilità di risocializzazione del condannato e comporta un’evidente disparità di trattamento anche tra gli stessi ergastolani.
Infatti, per uno stesso crimine, una persona condannata all’ergastolo all’età di 60 anni, dovrà scontare molti anni di carcere in meno di una che, invece, abbia subito la stessa condanna all’età di 25 anni.
Va aggiunto, ancora, che l’ergastolo appare in netto contrasto anche con le numerose prese di posizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha definito “inumane” le pene perpetue.
Più precisamente, la stessa Corte ha stabilito, con la sentenza della Gran Camera “Vinter c. Regno Unito” del 2013 (prima fra altre), la compatibilità dell’ergastolo con la Convenzione, nel caso in cui lo Stato abbia un meccanismo che consenta la revisione dell’esecuzione della pena. Ciò deve avvenire, secondo i Giudici di Strasburgo, tenendo anche conto degli eventuali cambiamenti nella persona del condannato e dei progressi del suo percorso riabilitativo, prevedendo altresì una procedura di liberazione anticipata del soggetto, che dopo un periodo di detenzione, si dimostri idoneo al reinserimento nella società.
L’Italia, pertanto, si pone in netto contrasto con i principi espressi dalla Corte di Strasburgo, non prevedendo alcuna procedura di tal tipo, ma unicamente la facoltà del condannato di poter richiedere alcuni benefici, che però non cancellano lo status della pena, che rimane perpetua.
In conclusione, il trattamento sanzionatorio dell’ergastolo nel nostro ordinamento sembra soddisfare esigenze più vendicative e retributive, che rieducative, contravvenendo anche all’altro fondamentale principio sancito dalla Costituzione: il principio di umanità del trattamento sanzionatorio.
Solo una sanzione che rispetti il principio di umanità e di rieducazione, invero, eleverebbe lo Stato realmente al di sopra di un semplice rapporto duale azione-punizione, permettendo così all’individuo, attraverso un percorso educativo intra moenia di poter comprendere il disvalore delle precedenti azioni commesse.
Al contrario, il fine di una pena che, di fatto, è usque ad mortem e, quindi, si estingue (rectius si perfeziona) solo con la morte del condannato, appare unicamente quello di soddisfare pericolose retoriche giustizialiste, che, invece, lo Stato di diritto deve respingere con forza.
Non si deve dimenticare, del resto, che 150 anni di studi criminologici hanno dimostrato che la misura della lunghezza della pena non può essere un parametro automatico che non tenga conto della lunghezza media della vita dell’uomo. Pertanto, le sanzioni penali, per compiere la finalità rieducativa, devono avere tempi più ridotti, in modo da consentire al condannato, attraverso il trattamento educativo, l’effettivo reinserimento in società.
Solo così verrebbero tutelati i valori liberali della vita, per i quali lo Stato non può e non deve mettersi allo stesso livello di chi delinque, ma deve, invece, offrire gli strumenti per un pieno recupero dell’individuo.
Pertanto, lungi dal voler sostenere l’inutilità di pene lunghe e severe, appare però necessario ed urgente un percorso legislativo di riforme che rendano realmente compatibili le norme penali ai principi garantisti della nostra Costituzione ed in particolare a quello del fine rieducativo della sanzione penale ed a quello dell’umanità del trattamento sanzionatorio.