Vasti settori della sinistra, del sindacalismo e del mondo cattolico, pur condannando con sfumature diverse il brutale intervento russo in Ucraina, si collocano in una posizione neutralista, nella convinzione che solo la diplomazia possa condurre a una cessazione delle ostilità. In tale quadro ogni aiuto militare all’Ucraina viene considerato un ostacolo alla causa della pace. Si rischia così, richiamandosi a un generico irenismo, di porre sullo stesso piano, pur di condannare la guerra, un esercito che invade e un esercito che dall’invasione si difende. L’invio di armi agli ucraini da parte dell’Italia non è in conflitto con la Costituzione, in quanto, come ha precisato il presidente della Consulta, Giuliano Amato, non si tratta in questo caso di una guerra offensiva. E’ quantomeno singolare che chi, come l’Anpi, pretende di rappresentare i valori della Resistenza, non senta la necessità di essere concretamente a fianco di un popolo che è vittima di una aggressione. La via diplomatica, da tutti auspicata, non sembra facilmente percorribile ed è necessario agire nell’immediato, avendo consapevolezza che il neutralismo condannerebbe gli ucraini a una resa senza condizioni. Non si possono non riconoscere, nelle diverse forme di neutralismo e di equidistanza, umori antiamericani, anti Nato, in senso lato antioccidentali, che serpeggiano tanto a sinistra quanto a destra. Si fa fatica poi a comprendere come i leghisti, fautori della legittima difesa in ogni sua forma, siano così restii ad aiutare militarmente un popolo che difende quei confini nazionali di cui il sovranismo esalta la sacralità.
L’estensione verso Est della Nato, che avrebbe ignorato gli impegni americani riguardo al contenimento dell’influenza occidentale nell’Europa dell’Est dopo il 1989, viene spesso considerata come il fattore scatenante del conflitto in atto. L’adesione alla Nato da parte dell’Ucraina non era all’ordine del giorno, in quanto Francia e Germania temevano che la sua instabilità politica, legata alle vicende della Crimea e del Donbass, rappresentasse un serio problema per l’Alleanza e per l’UE. Tutto ciò era ben noto alla diplomazia russa. La lunghezza delle procedure e le cautele avanzate da Francia e Germania avrebbero dovuto costituire sufficienti garanzie per Putin e fugare i suoi timori.
Se la comprensione delle “ragioni” di Putin può essere utile per una riflessione critica, non può tradursi, come alcuni sostengono, in una giustificazione della sua “operazione militare speciale”. E’ noto che John Maynard Keynes, che faceva parte della delegazione inglese alla Conferenza di Versailles, si dimise dall’incarico, manifestando tutto il suo dissenso nei confronti delle clausole punitive imposte alla Germania. Quella “pace” avrebbe infatti alimentato, a suo avviso, un forte risentimento, che si sarebbe poi tradotto in un populismo revanscista, come in realtà accadde. Queste considerazioni, presenti nel dibattito storiografico, non possono naturalmente giustificare le scelte del Terzo Reich.
Nel 1939, ad essere messa sotto accusa fu infatti la politica di appeasement di Neville Chamberlain e Edouard Daladier, che aveva consentito a Hitler di esercitare indisturbato la sua politica aggressiva.
Dopo la II Guerra l’URSS ha imposto nell’Europa orientale un modello politico che è stato difeso con un capillare apparato poliziesco e in alcuni casi, come a Berlino, a Budapest, a Praga, con duri interventi militari. La fine del comunismo ha lasciato emergere, all’Est, l’esigenza di tutelarsi dall’imperialismo russo nella sua declinazione postsovietica, come dimostra la scelta di Vàclav Havel, che nel 1999 chiese l’adesione della Repubblica Ceca alla Nato, ritenendo che ciò costituisse una garanzia per l’indipendenza del suo Paese. Da questo sentire non erano lontani i comunisti italiani, come dimostra la celebre intervista, pubblicata sul Corriere della sera del 15 giugno 1976, in cui Enrico Berlinguer dichiarava a Giampaolo Pansa di sentirsi più al sicuro nella Nato che nel Patto di Varsavia. Pensava infatti che, non appartenendo al Patto di Varsavia, l’Italia, pur in presenza di oggettive difficoltà, potesse procedere “lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento”. E’ comprensibile dunque che i Paesi dell’ex blocco socialista vedano oggi nell’UE e nella Nato una sicura tutela della loro sovranità.
Se è probabilmente infondato il timore che in Ucraina potessero venire installati missili diretti verso il suolo russo, è certo che a Kalinigrad, la Königsberg di Kant (una enclave russa in Polonia), si trovano missili diretti verso la Polonia, le Repubbliche baltiche e la Scandinavia. In un suo recente discorso Putin ha sostenuto che l’Ucraina ha perso la sua sovranità, divenendo “serva dei padroni occidentali” e lasciandosi guidare da oligarchi intenti solo ai loro affari, interessati a separarsi dalla Russia. Ha poi affermato che “non è mai stata un vero Paese”, in quanto è parte integrante della Russia, da cui sarebbe stata allontanata da una “ondata di nazismo e nazionalismo”. La Russia, dovrebbe così reintegrare nella sua unità organica un Paese traviato dalle tentazioni dell’Occidente e da forme di nazionalismo dalle tinte nazifasciste. Tendenze, queste, ben presenti, in realtà, proprio nelle argomentazioni putiniane, che pretendono di indicare la retta via a uno stato sovrano che ha democraticamente eletto i suoi governanti e che autonomamente vuole definire le linee della sua politica estera. I massacri della popolazione civile divengono una forma di ricatto nei confronti del governo ucraino, come dire che solo una resa potrebbe farli cessare.
Condannare Putin, senza rinunciare a soluzioni diplomatiche che rispettino la sovranità dell’Ucraina, può consentire anche di entrare in dialogo con le forme di dissenso che in Russia emergono nei settori più critici e sensibili della popolazione. L’inasprimento delle sanzioni comporterà certamente dei sacrifici economici non solo per i russi, ma anche per l’Occidente. Potrebbe contribuire però a far crescere l’opposizione popolare verso Putin.
Le testimonianze di questi giorni lasciano pochi dubbi sulle atrocità che il popolo ucraino sta subendo e risulta difficile confrontarsi con chi non riesce a condannare chiaramente la barbarie delle truppe russe e, ancor più, con chi, come Carlo Freccero, pensa che siamo di fronte a una fiction, osservando gli orrori della guerra con le lenti deformanti della società dello spettacolo. La città martire di Bucha rientra in un’area fortemente segnata dalla guerra, come testimonia Katyn. Nell’aprile del 1940, 82 anni fa, nella foresta di Katyn, vennero fucilati dai sovietici circa 20.000 ufficiali polacchi, con la precisa intenzione di eliminare una parte significativa della classe dirigente del Paese. I tedeschi scoprirono in seguito le fosse comuni e attribuirono a Stalin la responsabilità del massacro. Nel 1943 istituirono una commissione d’inchiesta internazionale, presieduta dallo svizzero Francois Naville, di cui faceva parte Vincenzo Paolo Palmieri, docente di medicina legale all’Università di Napoli. La commissione giunse alla conclusione, all’unanimità, che la strage fosse stata compiuta dai russi. Nel corso del processo di Norimberga Roman Rudenko, procuratore generale sovietico, fece prevalere la tesi secondo cui gli ufficiali polacchi fossero stati giustiziati dai nazisti, approfittando anche del fatto che gli Alleati non intendevano indagare ulteriormente per non incrinare il rapporto con l’URSS, come ammise lo stesso Churchill. La Casa Bianca e il Dipartimento di Stato preferirono in seguito non riaprire la questione, anche se una commissione nominata dal Congresso aveva individuato nei sovietici i responsabili della strage.
Dopo Norimberga, i partiti comunisti si attivarono per delegittimare, sia sul piano scientifico sia sul piano personale, gli scienziati che avevano sottoscritto all’unanimità la relazione del 1943. I comunisti svizzeri accusarono di collaborazionismo Naville, chiedendo, senza riuscirci, che fosse destituito dalla cattedra. In Italia si scatenò una campagna denigratoria nei confronti di Palmieri, animata in particolare da Mario Alicata. Palmieri fu posto sotto controllo, a tal punto che, come scrive Viktor Zaslavsky (a cui si deve una puntuale ricostruzione dell’intera vicenda), Eugenio Reale, nel gennaio del 1948, sentiva il dovere di informare l’ambasciata sovietica che il “servo della propaganda di Goebbels Palmieri” aveva tenuto una conferenza. I docenti dell’Università di Napoli proposero il suo allontanamento, che non fu accettato grazie al parere contrario del rettore Adolfo Omodeo. Palmieri decise infine di mettere al sicuro la sua relazione su Katyn che, conservata in una scatola di scarpe impermeabilizzata, venne sotterrata in un suo podere nei pressi di Cassino. Solo nel 1990 una commissione sovietica riconobbe che il massacro era stato compiuto dall’NKVD. La vicenda divenne ancora più chiara, nella sua atrocità, quando Elstin, nel 1992, rese pubblici i documenti, firmati da Stalin e da Berija, in cui era evidente come tutto fosse stato puntualmente pianificato.
Si prova un grande disagio nell’apprendere che l’Anpi avverta l’esigenza di nominare una commissione d’inchiesta per individuare gli autori del massacro di Bucha. Ci troviamo dinnanzi a fosse comuni e a corpi dilaniati che non sono stati rinvenuti dopo anni, come è avvenuto a Katyn, dove si sono rese necessarie accurate indagini medico-legali per accertare la verità. Le responsabilità dell’esercito russo sono in questo caso immediatamente verificabili, anche se vengono negate da quanti, come il ministro degli esteri Sergej Lavrov, ritengono che si tratti di una messa in scena degli americani e della Nato.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.