Le alture del Golan sono un altopiano roccioso, a nord-est di Israele, fra i 1.000 e i 1.200 metri di altezza, con una superficie totale di circa 1.800 chilometri quadrati. Delimitate dal monte Hermon a nord, dal fiume Yarmuk a sud, da un suo ramo stagionale e colline degradanti a est, e dal fiume Giordano e dal mare di Galilea a ovest, sono di enorme calibro strategico-militare, in quanto forniscono un ampio dominio visivo su Israele, Siria, Giordania, e Libano. Appartengono de iure alla Siria e de facto a Israele.
La prossimità a Damasco, situata a circa sessanta chilometri di distanza, ha un valore simbolico, ponendo il centro nevralgico del potere siriano a facile portata dell’esercito israeliano. La loro vigilanza innalza anche il grado di sicurezza della baia di Haifa sulla costa mediterranea, aumentando la distanza dalle posizioni siriane – circa novanta chilometri, dei due porti principali di Israele, un fiorente distretto industriale e il triangolo Gerusalemme-Haifa-Genera, che conta con la quasi totalità dell’infrastruttura del paese.
In un contesto contraddistinto da una relativa aridità, si aggiungono interessi nelle riserve di acqua e i campi fertili dell’altipiano, ragion per cui è stato oggetto di controversie dall’antichità. L’area ospita il bacino di drenaggio del fiume Giordano, il lago di Tiberiade, il fiume Yarmuk e ricche falde da cui Israele estrae un terzo del proprio fabbisogno. Nel 2015, sono poi stati scoperti giacimenti petroliferi con il potenziale di produrre miliardi di barili. Secondo la compagnia Afek Oil and Gas, una sussidiaria dell’americana Genie, che sta trivellando in svariati pozzi, lo strato del giacimento sarebbe dieci volte più spesso della media mondiale, e potrebbe rendere Israele energeticamente autosufficiente (al momento consuma 270 mila barili al giorno).
Stime recenti indicano che la popolazione è composta da 50 mila persone, 27.000 arabi del gruppo etno-religioso druso, di derivazione musulmana sciita, e coloni israeliani. La provincia è stato siriana fino al 1967, quando venne soggiogata da Israele nella guerra dei sei giorni. I drusi, diminuiti di un terzo nel corso dell’occupazione, hanno sempre rifiutato la nazionalità israeliana e conservato una forte connessione con la Siria. L’annessione del parlamento, avvenuta nel 1981, durante il mandato del primo ministro Menachem Benin, non è stata sostenuta internazionalmente, e la risoluzione 497 del consiglio di sicurezza la definisce nulla, e priva di fondamento ed effetto giuridico, e chiede a Israele di arretrare.
Dalla vetta del monte Hermon è possibile una penetrazione profonda nell’uso di sorveglianza elettronica, dalla quale deriva un’alta capacità di prevenzione di attacchi. Le caratteristiche dell’avamposto forniscono una superiore acquisizione di target attraverso coordinate visuali, fondamentali nell’impiego di munizioni guidate di precisione. Nemmeno le alternative offerte da sistemi aerei o satellitari possono competere con una topografia di questo tipo. I primi sono condizionati dalla vulnerabilità delle monumentali antenne, i tempi di volo e le condizioni atmosferiche. I secondi sono limitati dal produrre perlopiù informazioni su obiettivi statici che non sono utili per l’intelligence tattica. Le colline situate a est, invece, con le loro strozzature, costituiscono una tutela migliore contro un assalto convenzionale da terra, consentendo a un piccolo reparto di bloccare un contingente maggiore, in attesa di rinforzi. Nella spedizione siriana dell’ottobre del 1973, la configurazione del terreno ha permesso che 177 carri armati israeliani ne fermassero 1.500 del nemico. Per tutto contrario, un eventuale ritiro, ovvero l’indietreggiamento alla linea già conquistata da Israele nel 1949, implicherebbe trovarsi a 200 metri al di sotto del livello del mare, con un impervio scarto di 750 metri per approssimarsi a un vantaggio di tiro.
Critici della geopolitica hanno sostenuto, in anni recenti, che le tecnologie belliche contemporanee hanno sottratto rilevanza politica alla dimensione geografica, che i vantaggi offerti dagli aspetti territoriali, a loro volta, hanno perso di significato nell’era missilistica nucleare, e che la salvaguardia dei confini sarebbe dunque divenuta anacronistica. Nondimeno i vantaggi della scienza sono sempre temporanei e il bilancio fra gli strumenti di offesa e di difesa non è il fattore primario di un risultato. Lo è, piuttosto, la complessa interazione fra questi e la strategia, dove la natura del teatro gioca un ruolo determinante.
L’avallo di Trump della sovranità di Israele sulle alture del Golan di marzo, siglato in un documento firmato alla Casa Bianca, durante la visita di Benjamin Netanyahu, al tempo prossimo alle elezioni politiche e con lo spettro di un procedimento legale, ha rovesciato decadi di politica estera statunitense che non aveva voluto condonare l’invasione israeliana e aveva sempre sostenuto che la disputa dovesse essere risolta per via diplomatica. Qualche settimana fa, per onorare questo provvedimento, Netanyahu gli ha intitolato un insediamento illegale, fondato nel 1991, che ora si chiama Rabat Trump. D’altra parte, la tendenza a normalizzare gli atteggiamenti più estremi di Israele era iniziata nel 2017, con il riconoscimento degli Stati Uniti della contesa città di Gerusalemme come capitale di Israele. Nonostante la condanna dell’assemblea generale dell’Onu, l’ambasciata americana è stata spostata da Tel Aviv, e gli aiuti ai rifugiati palestinesi sospesi. L’anno passato, gli Stati Uniti avevano inoltre votato contro la rituale risoluzione di condanna delle Nazioni Unite per la continua usurpazione delle alture del Golan.
Malgrado tutto, il Golan è rimasto abbastanza tranquillo a paragone di altre frontiere dello stato di Israele. Persino il confronto fra unità israeliane e siriane nell’arena libanese nel 1982 non arrivò a estendersi all’altopiano. Le armate sono oggi separate da 400 chilometri quadrati di zona smobilizzata. Per alcuni analisti, la decisione è una compensazione dell’allontanamento delle truppe americane dalla Siria che lascia Israele più esposto a provocazioni. Di sicuro, manda un segnale chiaro rispetto al fatto che gli Stati Uniti sono ancora un attore nella regione e quali sono i suoi alleati per frenare le ambizioni dell’Iran. Ex-diplomatici statunitensi considerano che l’azione di Trump possa infiammare una questione rimasta a lungo dormiente. Il ministro degli affari esteri russo l’ha condannata definendola una diretta violazione delle deliberazioni delle Nazioni Unite che scavalca il consiglio di sicurezza. E il governo siriano ha rilasciato una dichiarazione nella quale si annuncia intenzionato a liberare le alture del Golan con ogni mezzo.
Tuttavia, l’evacuazione dei duecento chilometri del Sinai, che ha avuto un effetto stabilizzatore sulle relazioni israelo-egiziane, non è replicabile nei venticinque chilometri a disposizione nell’ovest del Golan. Nel Sinai, la distanza creata fra i due stati è idonea per anticipare un’incursione a sorpresa da entrambi i lati. Viceversa sulle alture del Golan non sarebbe sufficiente per una reazione tempestiva. Sul lato est non è realistico intervenire dovuto alla vicinanza di Damasco e all’improbabilità che la Siria la lasci scoperta. Il controllo delle alture del Golan sembra essere un gioco a somma zero.
Sin dagli anni novanta, i due paesi hanno intrattenuto colloqui segreti, facilitati dagli Stati Uniti, per convenire la fine dell’occupazione. Nel 2000, in prossimità di un’intesa, la trattativa sfumò; negoziati di pace ripresero più avanti, con la mediazione della Turchia, il cui impegno entrò in cortocircuito con la campagna israeliana nella Striscia di Gaza del 2008, e vennero poi interrotti nel 2011, con l’inizio della violenza in Siria, per quanto Netanyahu abbia sempre negato l’esistenza di patteggiamenti. Israele lo ha quindi mantenuto come cuscinetto, adducendo il conflitto come una dimostrazione palese di questa necessità. Il timore è che l’Iran, alleato di Bashar al-Assad nello scontro civile in Siria, si insedi con hezbollah in maniera permanente sul lato siriano, punto privilegiato per osteggiare il paese.
Il proposito di Israele nel cedere le alture del Golan era tessuto intorno alla supposizione che un accordo di pace avrebbe spezzato l’asse Siria-Iran-hezbollah. Questa si rivelò fallace e Hafez al-Assad, padre di Bashar, e i suoi diplomatici, parteciparono in forma riluttante, cercando di ostruire il processo, anziché contribuirvi. Del resto, dal trattato israelo-egiziano, la Siria si era rivolta all’Iran per contrastare l’ingerenza di Israele e questa alleanza si è rivelata una delle più salde. L’esito complessivo è comunque andato a favore di Israele. Il futuro siriano non è chiaro e, ancorché un governo più amichevole dovesse essere instaurato, le sue chance di sopravvivenza nelle sabbie del Medio Oriente rimarrebbero incerte. Dal punto di vista israeliano, in una regione contraddistinta da volatilità, assicurarsi confini fisici solidi è preferibile che confidare in consensi con leadership politiche che potrebbero dileguarsi in tempi brevi. Tra l’altro, la Siria è legata oggi più che mai all’Iran che, con l’intervento della guardia rivoluzionaria e le milizie di hezbollah, ha salvato Bashar al-Assam dalla disfatta. Anche se Israele non si è schierato nella guerra siriana, ha condotto operazioni contro le formazioni filo-iraniane in Siria con il fine di contrastare il consolidamento di un arsenale missilistico – 100 mila testate, in mano a hezbollah sul proprio limite a sud. Il tentativo di creare un nuovo fronte sulle alture del Golan è stato sventato, ma se la vicinanza ai centri urbani israeliani inibisce un’escalation, questa è pure un ostacolo per la distruzione totale delle installazioni.
Quantunque gli Stati Uniti non dovessero essere seguiti da altri, la mossa di Trump sancisce lo status quo. Gli annunci di resistenza al giogo israeliano sono rimasti lettera morta. Fin quando non cambierà il differenziale di perizia offensiva fra Israele e Siria, questa seguirà con una postura pragmatica. Di fronte alla pressione internazionale, nel 2005, ha ripiegato in buon ordine dal Libano; confrontata con la superiorità militare della Turchia, ha rinunciato a reclamare la provincia di Alexandretta, cinque volte più grande del Golan; e con attendibilità concorderà la decurtazione di suolo sempre della Turchia durante il conflitto interno. La Siria ha uno scarso capitale diplomatico per ingaggiare la comunità internazionale in uno sforzo per obbligare Israele a retrocedere; e nella regione, la sua influenza è scemata a causa della guerra civile. In sostanza, il regime alawita di Damasco utilizza la carta delle alture del Golan per le credenziali di patriottismo arabo che questa ancora gli concede.
Nella congiuntura attuale, alcune cerchie delle élite arabe covano nervosismo riguardo alla relazione della Siria con l’Iran, e l’ascesa di quest’ultimo in Medio Oriente, e cominciano a intravedere in Israele un associato circostanziale contro una temibile potenza nucleare, che aspira a creare un corridoio sciita, dal golfo Persico, attraverso l’Iraq e la Siria, fino al mare Mediterraneo, nel Libano e la Giordania. La presenza di Israele nel Golan, dove risiede la demarcazione nord della Giordania con la Siria, riduce la fattibilità di un sovvertimento della corona hashemita. Se ridotta a stato satellite come il Libano o la Siria, connetterebbe l’Iran con l’Autorità Palestinese, e lo avvicinerebbe all’Arabia Saudita. Invero, la Giordania è l’unico intercapedine fra Israele e una serie di paesi filo-iraniani fino al Pakistan.
Per gli Stati Uniti, l’integrazione delle alture del Golan a Israele ricopre un’importanza nodale per la sicurezza e la stabilità in Medio Oriente. La veste di Israele come forza deterrente si irrobustisce, ma quello che preoccupa i più è che potrebbe spianare la strada all’estensione della supremazia di Israele in Cisgiordania e la Striscia di Gaza. In un recente rapporto sui diritti umani del dipartimento di stato americano, l’amministrazione ha cambiato la terminologia da “territori occupati” a “territori controllati da Israele”. Tutti i membri del Consiglio di Sicurezza, con o senza facoltà di veto, hanno definito la scelta di Trump, contraria ai principi dell’Onu. Netanyahu si è appellato al presunto carattere difensivo dell’azione militare di Israele del 1967, sebbene non esista alcuna norma che preveda che uno stato possa rivendicare la sovranità su un territorio conquistato, se non tramite un accordo tra gli stati coinvolti o l’approvazione della comunità internazionale.
Diversi giornalisti hanno sollecitato a Pompeo di chiarire in che modo l’annessione israeliana delle alture del Golan sia diversa da quella della Crimea, sanzionata da Stati Uniti e Unione Europea. Secondo il segretario di stato americano, i due casi non sono assimilabili: nel primo l’offensiva sarebbe stata uno strumento cautelativo, mentre nel secondo non vi era minaccia imminente. Bisogna dire che Mosca si è giustificata con gli stessi argomenti, sostenendo che la numerosa comunità russa locale fosse discriminata dal governo di Kiev e, analogamente con le alture del Golan, l’unico governo che deteneva la sovranità era quello russo.
D’altro canto, adottare la stessa politica nei territori occupati non sembra essere nei piani di Netanyahu, perché un’annessione significherebbe accettare la nascita di uno stato israeliano bi-nazionale con concessione di diritti ai palestinesi e la costante disciplina di vaste fette di cittadinanza ostile. Le politiche adottate solo un anno fa da Israele vanno bensì nella direzione di uno stato della nazione ebraica, dove non c’è posto per la diversità o la condivisione. In questi giorni, Netanyahu ha dichiarato di voler “riportare la calma” nella Striscia di Gaza con una nuova manovra su larga scala. In concreto, il conflitto israelo-palestinese non muta.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.