La forza del complesso militare-industriale della Turchia, e il disimpegno degli americani dal Medio Oriente, ne hanno facilitato il posizionamento assertivo nel teatro nei conflitti regionali. Questa autosufficienza ha sostenuto le ambizioni geopolitiche del paese in Iraq, Libia e Siria, e permesso sia l’estensione delle operazioni navali nel Mediterraneo, sia l’istallazione di basi in Qatar e Somalia. I droni turchi hanno assicurato la vittoria decisiva dell’Armenia in Nagorno-Karabakh. Solo la Russia è riuscita a giocare un ruolo di deterrente. Nonostante la Turchia sia parte dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (Nato), il Cremlino è stato il referente per ogni intervento su scala internazionale e ha definito i limiti del dispiegamento della sua zona di influenza, spesso frustrandone le aspettative, come nel Caucaso.
L’alleanza di quasi settant’anni con gli Stati Uniti si è venuta deteriorando con la perdita della fiducia reciproca. Erdogan ha, quindi, sfruttato ogni opportunità generata dal confronto fra Washington e Mosca per ricavarsi campo fra i grandi poteri globali. Questo è è un cambio di orientamento nodale. Nelle ultime due decadi, la Turchia ha perso molto del suo interesse nella Nato o l’annessione all’Unione Europea. Da campione dell’islamismo moderno, ed esempio della capacità di attrazione dell’ordine liberale, in un clima di crescente sospetto per i partner della Nato, rivendica ora un’autonomia strategica, mettendo in questione i valori dell’occidente.
Da un lato, Ankara considera un tradimento l’appoggio degli Stati Uniti all’esercito curdo in Siria e l’asilo offerto al clerico Fethullah Gulen, considerato uno degli ideatori intellettuali e politici del fallito colpo di stato del 2016. In aperta opposizione alla Nato, ha acquistato tecnologia bellica dalla Russia e sta lavorando con questa su importanti progetti infrastrutturali, tra cui gasdotti e il primo reattore nucleare. Di recente, si è avvicinata a Pechino, alla ricerca di investimenti e provigioni del vaccino contro il Covid-19, prodotto dalla compagnia cinese Sinovac. Dall’altro, gli americani hanno trasferito assets strategici fuori dal paese ed espanso la cooperazione per la difesa con la Grecia e alcuni dei rivali turchi nel Golfo Persico, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
La precedente amministrazione democratica aveva aspirato, senza riuscirvi, a creare un modello di partnership con la Turchia. Enormi sono, infatti, i rischi che risiedono nel trattarla come un nemico assoluto e spingerla verso avversari degli americani come l’Iran, la Russia o la Cina. Di conseguenza, sebbene le due immediate fonti di tensione, costituite dall’equipaggiamento militare dalla Russia e l’invasione turca del nord della Siria, abbiano accumulato risentimento, vanno affrontate in modo da preservare la possibilità di migliori relazioni nel futuro, ripulendo il terreno da alcune mistificazioni.
Per esempio, Erdogan ha giustificato il ricorso ai missili di difesa aerea russi S-400 con il falso argomento del rifiuto di Barack Obama di vendergli i Patriot, quando questi, nel 2013, gli erano stati messi a disposizione, senza costo attraverso la Nato, sul confine sud, pur in assenza di una minaccia reale dalla Siria; e una posteriore trattiva era andata a vuoto, per eccesive pretese turche su prezzo e trasferimento di tecnologia. Tra l’altro, il Pentagono aveva informato sull’incompatibilità dei due sistemi, considerato che il sofisticato radar russo, potenziato da un algoritmo di intelligenza artificiale, è in grado di rilevare informazioni sui caccia F-35, mettendo a repentaglio gli investimenti statunitensi, ragione per la quale Donald Trump non ha autorizzato la vendita alla Turchia della loro versione avanzata.
Per altri versi, gli Stati Uniti non possono pretendere di non conoscere le motivazioni che hanno condotto all’incursione della Turchia in Siria e di non averne potuto prevedere o evitare le sequele, fra le quali un rafforzamento della posizione di Iran e Russia nel paese e le negozziazioni di pace, e un’alleanza dei curdi con il presidente Bashar al-Assad, per il cui rovesciamento erano intervenuti. La veemente opposizione turca all’Unità di Protezione Popolare (Ypg), la fazione armata sirio-curda che ha combattuto al fianco degli americani nella lotta contro il sedicente stato islamico, era chiara sin dall’inizio, dovuto ai suoi legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), che sia Ankara sia Washington annoverano nella lista dei gruppi terroristici. Malgrado ciò, gli Stati Uniti avevano bisogno di entrambi e i turchi vennero utilizzati nello scacchiere anti-russo.
Nel prolungato status quo, durato dal termine della seconda guerra mondiale, la società turca ha subito profonde mutazioni e l’élite laica è stata rimpiazzata da elementi fondamentalisti religiosi e nazionalisti. In questo modo, il paese è rientrato nel gioco dell’isolamento e i sodalizi tattici, che avevano contraddistinto l’impero ottomano, verso la fine del diciannovesimo secolo, e il primo periodo della repubblica. Nel tentativo di allontanare il declino, i sultani si erano affiancati a svariate nazioni straniere, dalla corona austro-ungarica, alla Russia, passando per il Regno Unito, e terminando con la Germania nella prima guerra mondiale. Negli anni 20 e 30, la repubblica turca venne supportata dal governo bolscevico, e nonostante l’imparzialità mantenuta nel corso del secondo conflitto, oscillò fra la Germania nazista e il Regno Unito per ottenere aiuti militari, esportare crediti, e accedere ad altre forme di sostegno finanziario da entrambi.
Erdogan persegue la medesima tattica, cercando di ottenere vantaggi da potenze diverse, senza schierarsi con nessuna. Questa manovra ha richiesto una revisione storica, accompagnata da una campagna mediatica, che si avvale anche di contenuti televisivi di stampo popolare, e ha imposto l’idea dell’ipotetica unicità e il presunto destino protagonico, di un paese erede di un impero, concepito come l’antesignano di un nuovo ordine, giusto nel governo, e più equanime con i propri soggetti di quanto non lo siano stati i colonialismi occidentali. Una narrazione che va in direzione contraria all’interpretazione del padre della nazione, Kemal Ataturk, il quale vedeva negli ottomani un apparato retrogrado e inefficiente, incapace di tenere il passo con la civiltà contemporanea.
La nuova politica estera turca ha preso forma in un contesto policentrico e atomizzato, dove si è incuneata nei vuoti, generando spazi di decisione, talvolta di contrasto e, pertanto, imprevisti livelli di influenza e potere. Nel 2019, in Libia, Erdogan intravide un’opportunità, impensabile solo qualche anno prima, e si mosse con rapidità. Il premier provvisorio, avvallato dalla comunità internazionale, bussò alla porta di tutte le capitali importanti, cercando aiuto per arrestare l’avanzata del generale Khalifa Haftar su Tripoli, ma nessuno volle o seppe intervenire, incluso il pachiderma europeo. La Turchia mise fine all’offensiva con un investimento contenuto e un importante ricavo in beni tangibili e intangibili.
Come spesso accade nella storia, questa partita, in cui Erdogan è celebrato come lo statista del secolo, capace di tenere testa ai grandi capi di stato, da Angela Merkel a Trump e Vladimir Putin, e l’affermazione della Turchia in Iraq, Libia, Siria e nel Caucaso, viene misurata sulle orme ottomane, è giocata da una fragile condizione domestica ed è funzionale alla sopravvivenza politica. La Turchia affronta una severa crisi economica, accompagnata da inflazione e alti indici di disoccupazione, con fuga di capitali e impoverimento della gente comune. Per la prima volta in decenni, gli economisti temono uno scompenso nella bilancia dei pagamenti e la base degli elettori del Partito della Giustizia e lo Sviluppo (Akp) si va assottigliando al punto che meno del 30 per cento degli intervistati in un sondaggio di aprile ha dichiarato di continuare a sostenerlo.
Anche se analisti stranieri sono convinti che Erdogan rimarrà al potere, in maniera ininterrotta e indefinita, e che una transizione democratica non sia fattibile, per una massa critica di turchi, le limitazioni alla libertà di opinione, la persecuzione di esponenti curdi, e altre forme esistenti di repressione civile e politica, non assicurano che Erdogan e l’Akp vincano le elezioni previste nel 2023. La significativa inflessione del Akp nei risultati delle amministrative dell’anno scorso, così come la nascita di partiti guidati da precedenti alleati, lasciano immaginare la possibilità di un futuro sotto una leadership diversa.
Inoltre, molti cittadini non credono che Erdogan sia in definitiva riuscito a rendere la Turchia di nuovo grande con la sua, pur ambiziosa, agenda internazionale. A dispetto del nazionalismo populista, e dei media a favore del governo, si sta levando un sentimento negativo rispetto alla perdita di senso di talune posizioni estreme e l’isolamento che pesa sul benessere economico e la qualità della vita, che sembrerebbero replicare proprio quegli errori che costarono la caduta dell’impero ottomano.
Tuttavia, la cultura nazionale è dominata da una folta schiera di politici, burocrati, giornalisti e studiosi, apertamente scettici riguardo all’allineamento con l’occidente e una politica estera indipendente è destinata a perdurare. Questa mentalità sarà difficilmente ribaltata da un’alternanza o da una rinvigorita alleanza atlantica. Un ipotetico successore di Erdogan potrebbe riparare il dialogo con l’Unione Europea, normalizzare i rapporti con l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, e gettare le basi per una proficua relazione con i paesi vicini e con i poteri mondiali, ma è alquanto improbabile che vada contro la corrente nazionalista e assuma una posizione pro-liberale senza riserve.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.