La somma virtù del lasciare in pace gli altri

A Christian, che possa trovare pace eterna e piena libertà là dove ora è giunto

 

Nel “Saggio sulla libertà”, John Stuart Mill tesseva una rimarchevole lode nei riguardi della diversità di ogni singolo essere umano e del potere delle individualità: «La natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di crescere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente». Ciascuno, in poche parole, ha bisogno di scoprire se stesso, anche attraverso il dialogo, il confronto e, perché no?, lo scontro con altri suoi simili. La libertà che andrà maturando, farà crescere l’individuo, lo farà imparare dai propri errori, gli farà comprendere dove ha sbagliato così da renderlo sempre un po’ meno imperfetto di quello che è.

Questo è un alto ideale. È una meta a cui ognuno può e deve ambire. Migliorarsi per maturare, maturare per migliorarsi. A patto, però, che ogni singolo possa in qualche modo fare il più possibile da sé, sviluppare un’autonomia tale da rendersi indipendente dall’aiuto esterno reiterato e compulsivo. In buona sostanza, come A deve crescere a proprie spese, e quindi cercare di affrancarsi dal bisogno di aiuto di B, così B, proprio come A, desideroso di autonomia, anelante ad essere, per quel che può, padrone della propria vita, deve rispettare la dignità di A lasciandolo in pace. Non fa differenza, in fondo, che B cerchi di interferire con la vita di A per aiutarlo secondo principi solidali, o per direzionarlo secondo ciò che egli pensa sia il bene di A: il risultato è sempre renderlo una sorta di minorato mentale, ledere la sua dignità, deresponsabilizzarlo.

Inoltre, come scrive John Lachs in “Lasciare in pace gli altri. Una prospettiva etica” (IBL Libri 2018, pp. 152, € 18), «affermare di sapere che cosa è bene per gli altri e cercare di spingerli ad agire in tale direzione appare molto più egoistico di quanto non sia tenerci benevolmente a distanza».  Dopo tutto, è abbastanza evidente quanto poco sappiamo dell’esito di un’azione pure motivata da buone intenzioni: esso può risultare positivo, ma anche assai pernicioso. Lasciare una persona libera di agire, significa già di per sé aiutarla. Attraverso la libertà esperita, l’individuo responsabilizza le proprie azioni, si sobbarca delle conseguenze da esse cagionate, sia positive che negative, sviluppa capacità di discernimento e autocontrollo. Con ciò, egli può imparare ad adattare e limitare la propria libertà sulla base degli esiti delle azioni precedenti.

Come scrive Kenneth Minogue in un altro volume pubblicato dalla casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni nel 2012, “La mente servile”, «mentre i sistemi tradizionali di moralità si basano sull’obbedienza al comando o al costume, la vita morale individualistica si basa prevalentemente sul fatto che l’agente morale mantenga una qualche coerenza con l’insieme di impegni con cui è cresciuto o che ha scelto». In sostanza, attraverso un faticoso esercizio di volontà, l’individuo moderno è in grado di non scatenare liberamente, con ciò intendendo un modo rozzo o violento, i propri desideri, ma li incanala, li governa entro una morale che a poco a poco, a sue spese, ha introiettato.

Tutto ciò, scrive Lachs, non può che partire fin dalla più tenere età. È cosa buona e giusta, scrive il filosofo che insegna presso la “Vanderbilt University”, che si riduca al minimo l’intervento sul bambino, giacché «i bambini che non sono educati a compiere scelte tendono a diventare adulti indecisi nelle loro azioni e incerti nelle loro credenze». Analogamente, e ben più di quello genitoriale, l’intervento legislativo sui comportamenti individuali è assai nocivo: non solo poiché è percepito come più intrusivo e meno legittimato ad imporre comportamenti da seguire – il governo, anche quello più locale e decentrato, è tendenzialmente un’autorità più remota e poco prossima agli individui – ma poiché esso obbliga non solo bambini e giovani, bensì persone adulte. Non si vuole in questa sede sostenere che non ci sia bisogno di un’autorità statale o che non esista una non trascurabile quantità di persone le quali, adulte all’anagrafe, risultino a dir poco puerili nella realtà. Nondimeno, proprio un modo per ulteriormente renderle immature è quello di assisterle in qualsiasi caso e in modo permanente. Il fatto che si siano sviluppati sistemi di aiuto estesi, ha complicato la questione dell’aiutare il prossimo. Come scrive Lachs, l’aiuto, quando richiesto – e qui forse sarebbe il caso di chiedersi se l’estensione del welfare non abbia essiccato quelle energie morali, che pur ancora esistono, tipiche delle reti spontanee e volontarie di assistenza – deve essere limitato nel tempo e deve servire a fare uscire da una situazione di difficoltà. Esso, in altre parole, non deve in alcun modo divenire il pretesto per rendere l’individuo incapace di far da sé né, tantomeno, far pensare che l’aiuto sia finalizzato alla liberazione di qualsivoglia problema.

Quando non si è più in grado di far fronte all’insostenibile responsabilità della libertà, scrive Lachs, la dipendenza penetra nel cuore e gli individui divengono formiche. E quando ciò accade, una società libera va smarrendo la sua identità: la fiducia in se stessi, tipica dell’esercizio di una libertà responsabile, viene rimpiazzata da un imbolsimento generalizzato che alimenta una volontaria servitù. E qui torniamo alla questione sollevata da Mill, ma con le parole di Salvador de Madariaga, tratte da un suo volume da poco ripubblicato, “A testa alta! Ritratto di un uomo in piedi” (Oaks): «Il futuro dell’uomo dipende dal futuro della libertà, che permette ai germogli destinati ad una più grande altezza di raggiungere la loro dimensione senza ostacoli».

 

Pubblicato su “Il Pensiero Storico”, 05/01/2021

 

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