In un articolo molto spiritoso, Massimo sconforto, pubblicato venerdì 24 novembre u.s., Il Foglio ricorda che il Corriere della Sera in un anno ha riservato ben quattro interviste a Massimo D’Alema («ma c’è ancora un mesetto di tempo per il conteggio definitivo»).« Il principale quotidiano italiano che spesso critica giustamente la politica per essere lontana dalle esigenze e dai desideri dei cittadini, dovrebbe tenere conto del peso politico e della capacità di rappresentare la società degli intervistati», scrive l’anonimo articolista. D’Alema è «solo uno dei tanti dirigenti – con P.L. Bersani, a Roberto Speranza e Arturo Scotto – di un piccolo partito, l’Mdp (leader Pietro Grasso), che non arriva al 3%.
La Repubblica non è stata da meno con l’ampio spazio concesso a Giuliano Pisapia il cui Campo progressista conta ancor meno dell’Mdp. I due quotidiani hanno pressoché ignorato, invece, Giorgia Meloni, che ha visto il suo candidato, Nello Musumeci, governatore della Sicilia e che con i suoi ‘Fratelli d’Italia’ è arrivata al ballottaggio ad Ostia. «È accreditata al 5%, più dei voti di D’Alema e Pisapia messi insieme. Ma fa la metà delle interviste».
È una vecchia storia, verrebbe da commentare. Sennonché quanto denuncia Il Foglio, con divertita ironia, non é solo un fatto di (mal) costume politico ma rinvia a qualcosa «d’antico», ovvero alla mancata interiorizzazione, nella political culture del nostro paese, dell’ethos democratico.
Corrado Ocone, su Formiche del 26 novembre u.s., ha scritto, senz’ombra di panglossismo, che «la democrazia ha vinto» e che «oggi, soprattutto nei paesi occidentali ma non solo» siamo «nell’epoca del suo pieno dispiegamento, nel tempo della democrazia trionfante o dell’iperdemocrazia. Già solo che possa passar per la testa che “uno vale uno”, che siamo o dobbiamo essere tutti uguali, che non ci siano differenze fra i generi, che tutti possono avere il loro quarto d’oro di celebrità e raccontar le loro frottole quotidiane, non è espressione di un iperdemocraticismo diffuso ed esasperato?». Ho qualche dubbio.
In realtà, se la democrazia è il riconoscimento dei diritti del ‘numero’, dei più, a rendere visibili le loro richieste e nel metterle all’o.d.g. dell’agenda governativa, in Italia al discorso pubblico sulla democrazia ‘reale’ se n’è sempre affiancato uno, per così dire, ‘privato’ di ben differente tenore. Quest’ultimo , in ogni epoca si può dire, ha contrapposto alla ‘quantità’ la ‘qualità’ e ha preteso dai giornali e dai mass media in genere che compensassero i successi immeritati della prima portando in primo piano i prodotti pregiati, appunto, della seconda. Di qui la visibilità maggiore riservata al ‘prestigio’, allo ‘stile’, alla ‘tradizione’ di contro al disprezzo per chi proviene da storie non esaltanti (o perché sospette di fascismo, o perché inquinate dal populismo).
D’Alema viene dal PCI di Gramsci e di Togliatti, dal partito che ha dato il maggior contributo di uomini alla Resistenza e all’antifascismo e che era il depositario ufficiale di un’ideologia alla quale si richiamavano Unione Sovietica e Cina, Cuba e mezza Europa. Giorgia Meloni sembra uscita da un mercatino del Testaccio, è priva di classe, è decisamente plebea: le va già di lusso se sui grandi quotidiani ogni tanto si parla di lei.
D’altra parte, si consideri la presenza de Il Manifesto alla Rai o in certe trasmissioni radiofoniche come Prima Pagina. Chi non conosce il quotidiano fondato da Luigi Pintor, da Rossana Rossanda, da Aldo Natoli? Un’alta scuola di giornalismo, si continua a dire, che si è sempre distinta per il suo coraggioso non conformismo all’interno della sinistra di classe.
Già, proprio così: erano filocinesi, contro la direzione nazionale del PCI filosovietica – ai milioni di vittime di Stalin preferivano i milioni di vittime di Mao; erano terzomondisti alla Franz Fanon e persino polpotisti, esaltavano Che Guevara, si trovavano in prima fila in tutte le rivendicazioni dei diritti dei diversi – che, in qualche modo, facessero crollare le mura di Gerico della rispettabilità borghese e vittoriana- ma, soprattutto, erano i principali importatori di un antioccidentalismo intransigente, quello della Monthly Review, di Edward Said, dei nemici implacabili del mercato.
Posizioni legittime, beninteso: in una democrazia a norma tutti hanno il diritto di manifestare le loro idee e di battersi per i loro progetti politici. Non si vede, però, per quale ragione sia stato quasi istituzionalizzato il diritto/dovere di far conoscere al grosso pubblico dei lettori battaglie ed opinioni di un un’area giornalistica e politica che fa capo a un quotidiano che, nell’aprile scorso, vendeva 8.354 copie mentre una coltre di silenzio (o quasi) debba calare su giornali come il Messaggero Veneto (37.054 copie) o l’Eco di Bergamo ( 22.959 copie) – giornali regionali, si dice, ma lo è anche Il Messaggero introvabile al di fuori del Lazio eppure sempre citato alla RAI e in altre reti.
È un fatto che a presentarsi, in un salotto buono della borghesia colta o semicolta, come uno «che collabora o ha collaborato a Il Manifesto» si è sicuri di ottenere un’attenzione infinitamente superiore ad un altro che presenti, nel suo biglietto da visita, la collaborazione a un qualsiasi quotidiano nazionale o blog del tutto privo di carisma culturale.
Si potrebbe ancora capire il prestigio di un periodico come Il Mondo – elitario quant’altri mai – ma solidamente ancorato nei valori ‘atlantici’ ed espressione autentica della civic culture della ‘società aperta’. Tale prestigio, comunque, non giustificherebbe alcun sostegno pubblico a compenso delle (tante) copie invendute; si comprende assai meno come, nel caso del Il Manifesto, l’argomento della ‘qualità’ possa giocare a favore di quanti (i comunisti) dovrebbero rappresentare il ‘numero’ e per questo, secondo Aristotele, minacciare le minoranze aristocratiche custodi del Bene e del Vero.
D’altra parte, non se ne esce, lasciando il mercato arbitro delle sopravvivenze di politici, di quotidiani, di intellettuali militanti. La questione è quanto mai complessa in un paese in cui le caste fanno blocco e, a forza di vedere sul piccolo schermo, le stesse facce c’è il pericolo che a farle scomparire si registri un calo di audience.