Che un condannato debba scontare la pena comminatagli dal suo giudice naturale, quando questa sia divenuta ormai definitiva e pertanto irrevocabile, è questione che attiene alla certezza del diritto. È indubbiamente anche una questione di civiltà.
La cattura di Cesare Battisti avvenuta per opera dell’Interpol nella giornata di domenica 13 gennaio in Bolivia da una parte ha messo fine a una latitanza durata quarant’anni, dall’altra ha innescato sin dalle primissime agenzie polemiche infuocate.
Matteo Salvini ha aspettato a Ciampino l’aereo che riportava in Italia l’uomo appena estradato. Era in compagnia di Alfonso Bonafede che con lui divide l’esperienza di governo, al dicastero della Giustizia, e che non ha fatto mancare una diretta Facebook con tanto di immagini montate in musica. Un video-promo di una certa efficienza italica, in materia di sicurezza.
Il vicepremier ha fatto il resto. “Il mio impegno è che questo maledetto delinquente sconti la sua pena. Ovviamente dovrà marcire in galera fino all’ultimo dei suoi giorni. Non deve uscire vivo dalla galera”. La platea era quella della scuola politica della Lega, a Milano. Parole di rabbia che se possiamo ritenere giustificate e in qualche maniera comprensibili in bocca ai parenti delle vittime, ai quali in fondo anche un sentimento di vendetta potrebbe addirsi, al contrario ci appaiono eccesso e nota stonata quando a pronunciarle è un ministro di questa Repubblica.
Il condannato è chiamato a scontare la pena non a marcire in galera. E questo in un paese democratico e civile dovrebbe valere per Cesare Battisti, come per Totò Riina.
Evidente che l’idea di tenerla sotto controllo, quella dimensione emotiva così accesa, nelle esternazioni che sono la manifestazione pubblica e ufficiale della carica rivestita quale membro di questo governo, al ministro Salvini in queste ore non deve essere nemmeno passata per l’anticamera del cervello.
Ma il problema è reale. E non è di galateo, né unicamente di buon gusto, come dire. Continua a essere, per il leader leghista, ancora e sempre una questione di muscoli.
Le ripercussioni sull’immagine delle istituzioni sono tuttavia evidentissime e brucianti.
Battisti è per la giustizia italiana un terrorista, condannato a due ergastoli per quattro omicidi compiuti sul finire degli anni Settanta. La cronaca, la militanza nei gruppi dei proletari Armati per il Comunismo, l’evasione, poi i lunghi anni all’estero da latitante, i panni del romanziere, accolto in Francia e in Brasile, una vita raccontata dall’ombra. Lo scontro, si direbbe, è quello che da sempre contrappone giustizialisti e garantisti. Ma forse non è solo questo, c’è anche di più.
A guardarla da giurista, ciò di cui dibattiamo è la sanzione penale. Essa implica una presa d’atto che pone il nostro sistema di fronte a una prospettiva che può atteggiarsi in molteplici maniere, ruotando
tra assi differenti: retribuzione, prevenzione generale e prevenzione speciale. Il punto di equilibrio dà di volta in volta il senso del contesto politico sociale, oltre che di una scelta meramente giuridica e normativa. È, di fatto, un’angolatura d’eccezione attraverso la quale leggere il paese.
Che la sanzione debba compensare il crimine compiuto e che pertanto abbia in sé una connotazione afflittiva è del resto tratto fisiologico. Il passaggio ulteriore, peraltro, non può sfuggire, ponendosi il concetto di proporzione come elemento imprescindibile e metro di misura a garanzia di equilibrio e, perché no, di giustizia.
Considerata dunque la fattispecie, la questione è qui molto più sottile.
Va da sé che le volte in cui la chiarezza sembri far difetto, dalla nebbia si esce spostando il faro in modo da illuminare la Costituzione. Così facendo si squarcia un velo e si finisce per scoprire qualcosa che a Salvini per primo potrebbe tornare utile sapere, visto il ministero che al momento lo impegna.
La Carta ci dice chiaramente che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e – ci dice di più – devono tendere alla rieducazione del condannato”.
E ciò malgrado l’aspro confronto in sede di lavori preparatori tra quanti ritenevano, anche citando Benedetto Croce e il suo volume Etica e Politica, “esser del tutto vano discutere sul carattere utilitario e morale delle leggi e di questa o quella legge”.
C’è dunque, infine, un’idea di fondo recepita nella Costituzione. Ed è contro di essa che questo ministro dell’Interno inevitabilmente va a sbattere.
La pena, anche quella che dovrà scontare Cesare Battisti, non potrà dunque che tendere alla rieducazione del condannato.
Ed è precetto irrinunciabile, questo, che va letto all’interno del complesso di tutti i principi ispiratori del nostro sistema costituzionale.
Un’architettura di garanzia contro cui nemmeno i muscoli di un ministro, forse, potranno far molto.