Nel gennaio del 2008 Joseph Ratzinger fu invitato dall’Università di Roma La Sapienza a tenere una lectio, poi annullata a causa della protesta di 67 docenti. Il motivo della protesta era legato al fatto che nel marzo del 1990 egli aveva ripreso un passo di Paul Feyerabend, in cui il filosofo della scienza austriaco scriveva che nel processo a Galileo la chiesa «rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo». Alcune posizioni di Ratzinger, e le dichiarazioni sul Caso-Galileo in particolare, impedivano, secondo quei docenti, di accoglierlo nell’Università. Fu certamente singolare che degli studiosi, «in nome della laicità della scienza», chiedessero che «l’incongruo evento» non si svolgesse. Sarebbe stata un’alta espressione di laicità accettare invece il confronto, dal momento che la questione non era stata posta da Ratzinger in termini dogmatici, ma con riferimenti al filosofo marxista eretico Ernst Bloch e a un epistemologo scettico come Feyerabend. Un teologo che affrontava criticamente temi fondamentali della modernità non trovava dunque spazio in un luogo in cui il sapere non dovrebbe conoscere steccati.
Per Galileo la natura era un grande libro scritto in caratteri matematici. La comprensione di questo linguaggio non poteva allora che produrre una descrizione realistica dei fenomeni fisici, letti da lui nel quadro del sistema copernicano. Per il Cardinale Bellarmino, suo inquisitore, la rappresentazione copernicana del cosmo costituiva invece solo un’ipotesi matematica. Al di là delle motivazioni apologetiche che possono aver alimentato questo confronto, da Bellarmino a Ratzinger, ci si trova qui di fronte a una questione che attraversa tutto il pensiero moderno e contemporaneo. L’idea che il sapere scientifico si limiti alla descrizione dei fenomeni e che la realtà nella sua essenza sia inaccessibile alla nostra conoscenza è largamente diffusa tra i fisici come tra i filosofi. Ecco perché Karl Popper ha potuto sostenere, non certo per difendere la Santa Inquisizione, che all’interno di una concezione strumentale della scienza, Bellarmino vince la sua battaglia «senza sparare un solo altro colpo».
Il pensiero di Ratzinger non ha mai inteso contrapporsi alla ragione critica. Nella celebre e da più parti contestata lectio su fede e ragione, tenuta nel 2006 all’Università di Ratisbona, citò un passo del dialogo fra l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo e un dotto persiano. L’imperatore metteva a confronto la concezione cristiana di un Dio che agisce secondo ragione e la guerra santa, che afferma la fede con la violenza. Nel legame tra il Dio cristiano e il Logos il Papa individuava quell’ elemento di continuità con il pensiero greco che si può cogliere nel Vangelo di Giovanni. La traduzione in greco dell’Antico Testamento nell’Alessandria ellenistica non si limitò infatti a veicolare il messaggio ebraico in un’altra lingua, ma rese possibile quel dialogo tra Atene e Gerusalemme che pose le basi della civiltà europea.
Benedetto XVI metteva in luce come, nel corso della storia, da Duns Scoto nel Medievo, fino alla Riforma e poi alla teologia liberale in Età moderna e contemporanea, vari fossero stati i tentativi di deellenizzare il cristianesimo, privilegiando l’aspetto volontaristico di Dio sulla sua natura razionale. Si rischiava in tal modo di tracciare un confine netto tra fede e ragione. In Kant, scriveva Ratzinger, la fede si collocava infatti nell’ambito della ragione pratica, e in Adolf von Harnack, successivamente, il Cristianesimo si identificava con una morale semplice. Passavano così in secondo piano tanto i riferimenti filosofici, quanto i concetti teologici essenziali, come il dogma trinitario o la stessa divinità del Messia. Con il prevalere dei paradigmi positivistici le domande di senso della teologia vennero relegate in un ambito pre-razionale e le questioni etiche furono affrontate adottando i metodi delle scienze. Tali metodi sono tuttavia riconducibili alla concezione matematica della realtà, che rinvia all’idealismo platonico, in cui, sottolinea Ratzinger, la tensione metafisica costituisce la cifra fondamentale.
Il dialogo tra Ratzinger e il pensiero contemporaneo ha avuto un rilievo significativo, e forse una maggiore risonanza, in ambito etico-politico. Nel gennaio del 2004 l’Accademia Cattolica di Monaco organizzò un incontro sulla secolarizzazione tra il filosofo Jürgen Habermas e l’allora Cardinale Ratzinger. Nel suo intervento Habermas riprese la questione posta negli anni ‘60 dal giurista Ernst Wolfgang Böckenförde, secondo il quale le democrazie non sono in grado di legittimare i principi su cui si fondano. Nel momento in cui lo stato democratico volesse imporre principi etici, negherebbe infatti il formalismo procedurale di ispirazione kantiana che lo caratterizza, trovandosi così dinnanzi al cosiddetto “Dilemma di Böckenförde”. Se è necessario che le virtù politiche stiano alla base della democrazia, si deve ammettere l’estrema difficoltà di educare a quel patriottismo costituzionale in cui, secondo Habermas, i cittadini divengono essi stessi colegislatori. Nelle comunità religiose che evitano il dogmatismo, sottolineava Habermas, si può invece trovare quello spirito di solidarietà che altrove è andato perduto e non può essere sostituito con il sapere professionale degli esperti.
Nel rapporto con le religioni emerge però, inevitabilmente, il tema del fondamentalismo. A questo riguardo, Ratzinger, riconoscendo che nel messaggio religioso, accanto alla missione salvifica è presente «un potere arcaico e pericoloso, che crea falsi universalismi», ammetteva che la ragione critica potrebbe limitare le derive fondamentaliste, come l’etica religiosa potrebbe arginare i rischi della Hybris tecnico-scientifica. Nel dialogo fra religione e stato laico il Cristianesimo assumerebbe, secondo Ratzinger, un ruolo decisivo, per ragioni storiche e culturali.
Nella lectio destinata a La Sapienza, richiamandosi alla tesi di Habermas, secondo cui la legittimità di una Costituzione si fonda sul consenso e sulla capacità di risolvere ragionevolmente i contrasti politici, Ratzinger sottolineava che il filosofo tedesco legava questa ragionevolezza a un «processo argomentativo sensibile alla verità». Tornava allora attuale, a suo avviso, la domanda di Pilato su cosa sia la verità. Se la conoscenza della verità rinvia alla ragione pubblica di John Rawls, bisognerebbe allora chiedersi, proseguiva Ratzinger, non solo cosa sia la verità stessa, ma anche cosa sia ragionevole. A questo proposito non giova certamente a un sereno confronto con la laicità il tono con cui lo stesso Ratzinger, proseguendo nel solco di una consolidata tradizione, condanna genericamente il relativismo. Torna alla mente l’enciclica Centesimus annus, in cui Giovanni Paolo II scrisse che “se non esiste una verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica”, si rischia di vivere in una democrazia senza valori e in un «totalitarismo aperto oppure subdolo».
I principi di giustizia universale sono laicamente positivizzati nelle carte costituzionali delle democrazie e lo stato di diritto garantisce autonomamente il rispetto di valori non negoziabili. Dinnanzi alla denuncia non sempre giustificata della cosiddetta “dittatura del relativismo”, un laico non può non far proprie le riflessioni di Hans Kelsen, per il quale «solo se non è possibile decidere, in via assoluta, cosa sia giusto o ingiusto, è consigliabile discutere il problema e, dopo la discussione, sottomettersi a un compromesso». È questo il sistema politico che noi chiamiamo democrazia e che possiamo opporre all’assolutismo, scrive Kelsen, «solo perché è relativismo politico». I valori non negoziabili che troviamo nei preamboli alle Costituzioni o nella Dichiarazione universale non si radicano in una verità ultima, ma nella storia. Nella consapevolezza che le finalità umane possono produrre conflitti, ma anche costruire spazi di condivisione, tali principi, come scriveva Isaiah Berlin, non devono essere considerati meno sacri solo perché la loro durata non può essere garantita.
Riguardo al complesso rapporto tra filosofia e teologia Ratzinger riprendeva una formula del Concilio di Calcedonia in cui si auspicava che questo incontro si svolgesse «senza confusione e senza separazione», dal momento che entrambe possono arricchirsi ma anche limitarsi reciprocamente. Una ragione pubblica aperta al dialogo non è ostile alle credenze religiose, a condizione che queste siano compatibili con le libertà costituzionali. In questo clima postsecolare siamo dunque lontani dalle guerre di religione perché il nuovo liberalismo, ha scritto Rawls, è profondamente diverso dal liberalismo illuminista, in quanto non attacca il Cristianesimo. Ecco perché Habermas sostiene che un pensiero critico deve mostrarsi «pronto a imparare e nello stesso tempo agnostico», astenendosi dall’arrogante pretesa di decidere che cosa nelle dottrine religiose sia o no razionale. Nel dialogo tra Ratzinger e Habermas emerge il reciproco arricchirsi e limitarsi del filosofo e del teologo, che si interrogano sul nostro tempo, contribuendo a costruire uno spazio pubblico per quanti, nel rispetto delle proprie identità, si riconoscono in un orizzonte comune.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.