In un editoriale pubblicato sul Washington Post il 1°ottobre, “L’orrore di Hamas è anche una lezione sul prezzo del populismo”, Yuval Noah Harari scrive che gli israeliani non sono riusciti inizialmente a comprendere la tragedia che li aveva travolti. Hanno in un primo tempo accostato l’evento alla guerra del Kippur del 1973, quando dovettero far fronte all’attacco improvviso dell’ Egitto e della Siria, ma quanto è accaduto ha consentito presto di capire che ci trovava dinnanzi a una tragedia assimilabile ai momenti più bui della loro storia. Harari si chiede come sia potuto avvenire tutto questo all’interno di Israele, uno Stato fondato perché i pogrom non dovessero più ripetersi.
Il governo presieduto da Benjamin Netanyahu, un leader da sempre sensibile al richiamo populista, è il frutto di un’alleanza tra diversi gruppi fondamentalisti che hanno sottovalutato, prosegue il filosofo israeliano, le esigenze dei palestinesi, favorito i nuovi insediamenti dei coloni e limitato i diritti civili. Netanyahu ha inoltre trascurato il tema chiave della sicurezza e quando il ministro della difesa, Yoav Gallant, ha messo in luce queste criticità, lo ha sostituito per poi doverlo richiamare in seguito alle proteste della società civile, severamente critica verso il governo. Gli israeliani avrebbero così pagato, a suo avviso, il prezzo di un’arroganza che li ha portati a credere di neutralizzare qualunque minaccia potesse provenire da Gaza. E’ inoltre risultato fatale l’errore di appoggiare in diverse occasioni Hamas per indebolire Fatah, che potrebbe rappresentare adesso il gruppo politico in grado di svolgere un ruolo di mediazione.
Prendere atto delle responsabilità di Israele nei confronti dei palestinesi, che vivono nella condizione di un popolo sottomesso, non giustifica però in alcun modo l’atto terroristico di Hamas, che non può configurarsi come una forma di resistenza verso una potenza occupante. Ecco perché Harari ha preso apertamente le distanze, insieme a 90 intellettuali, da quegli ambienti di sinistra in cui è prevalsa la tendenza a identificare nella politica israeliana di questi anni la causa di quanto si è verificato il 7 ottobre. Non deve esservi contraddizione infatti tra la critica dell’occupazione israeliana e la condanna dei metodi criminali di Hamas, che vuole la distruzione di Israele e non ha mai accettato di collaborare a un processo di pace.
Nella società israeliana è viva l’esigenza di porre fine a questo clima di perenne ostilità. Nel maggio del 2011 l’ex Presidente della Knesset Avraham Burg e il filosofo Avishai Margalit chiesero il riconoscimento di uno Stato palestinese da parte dell’ONU con un appello sottoscritto da uomini di cultura e politici israeliani, nella convinzione che ciò “non danneggia gli interessi israeliani e non contrasta con il processo di pace”. Nel 2016 cinquecento intellettuali israeliani, da David Grossman ad Amos Oz e allo stesso Margalit, firmarono una dichiarazione in cui chiedevano di porre fine all’occupazione dei territori palestinesi e di giungere alla formazione di due Stati. L’appello era rivolto non solo agli israeliani ma a tutto il mondo della diaspora.
“Il protrarsi dell’occupazione -si legge nella dichiarazione- opprime i palestinesi e alimenta un ciclo ininterrotto di spargimento di sangue. Corrompe le fondamenta morali e democratiche dello Stato di Israele e danneggia la sua posizione nella comunità delle nazioni. Facciamo appello agli ebrei nel mondo intero perché si uniscano a noi israeliani in un’azione coordinata per porre fine all’occupazione e costruire un futuro nuovo per la salvezza dello Stato di Israele e delle generazioni future”.
Per Harari, in questo momento, il dolore, tanto negli israeliani, quanto nei palestinesi, è talmente profondo da impedire di far propria la sofferenza altrui. Israele ha il dovere di difendersi e di combattere Hamas, che non può identificarsi col popolo palestinese, ma nel conflitto in atto ha anche il dovere di garantire i diritti fondamentali alla popolazione civile di Gaza.
Nelle società occidentali il passato coloniale e il postcolonialismo sono da tempo oggetto di una severa riflessione critica, in cui si avverte anche un forte senso di colpa. Federico Rampini ha sottolineato il 2 novembre su Repubblica come nei campus americani è diffusa la convinzione che Israele incarni una nuova forma di colonialismo ai danni dei palestinesi, con la complice solidarietà dei paesi occidentali. In questo quadro l’azione di Hamas viene considerata in molti casi alla stregua di una legittima “lotta di resistenza”. Nel prendere in esame i corsi di storia di diverse università americane ed europee, si può rilevare che alla denuncia del colonialismo occidentale non corrisponde una adeguata considerazione del colonialismo degli imperi arabo e ottomano, che in vaste aree del Medio Oriente hanno imposto la lingua e la religione. Né i monarchi sauditi né Erdogan -scrive Rampini- hanno mai accennato a scusarsi con i popoli sottomessi dai loro imperi, o per il ruolo avuto nella storia dello schiavismo. Non risulta poi che dei leader africani abbiano mai preteso queste scuse, mentre le esigono dai leader occidentali.
Tutto ciò ha una ricaduta politica, come dimostra il fatto che negli Stati Uniti 15 parlamentari della sinistra del partito democratico non hanno votato al Congresso la condanna nei confronti di Hamas. In una lettera aperta cento docenti della Columbia University di New York hanno inoltre definito l’attentato di Hamas «la risposta militare di un popolo che ha sofferto l’oppressione e la violenza di Stato da parte di una potenza d’occupazione».
Il 1° novembre, in un’intervista al TG1, il Papa ha ripreso il tema dei “due popoli, due Stati”. Un progetto, questo, che dal 1947 ad oggi viene evocato senza però che si possano nutrire concrete speranze di vederlo realizzato. In quell’anno, infatti, l’Assemblea Generale dell’Onu votò la Risoluzione 181, che prevedeva la suddivisione della Palestina tra uno Stato arabo e uno ebraico, ma il progetto non fu accettato dai Paesi arabi, che nel maggio del 1948 non riconobbero il nuovo Stato di Israele ed entrarono in guerra per annientarlo. Le conseguenze di tale posizione radicalmente ostile a Israele pesarono sulla popolazione palestinese, che, non potendosi costituire come Stato, visse in una condizione di identità indefinita.
A vent’anni dalla guerra del Kippur del 1973 si giunse agli Accordi di Oslo tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, e l’Autorità Nazionale Palestinese poté esercitare una forma limitata di autogoverno in Cisgiordania e a Gaza. Il Vertice di Camp David nel 2000, in cui Israele propose di cedere ai palestinesi circa il 91% dei territori, la Road Map for Peace nel 2002, sostenuta da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu, non riuscirono ad operare una svolta significativa. Nel 2005 Ariel Sharon prese la decisione del ritiro israeliano da Gaza. La delegittimazione dell’OLP era tuttavia in atto da tempo, e Hamas, forte di un cospicuo consenso elettorale, fece prevalere una strategia che mirava all’annientamento di Israele dimostrando, la sua radicale ostilità alla soluzione “due popoli due Stati”.
Quanto è accaduto dimostra che se Giordania, Egitto e Arabia Saudita non terranno a freno Hamas e se Israele non promuoverà una leadership alternativa a Netanyahu e ai fondamentalisti che lo sostengono, non potrà esserci una soluzione al conflitto. Si tratta di un percorso accidentato, che solo classi politiche moderate potranno intraprendere, affrontando grandi difficoltà. La strage del 7 ottobre ha rappresentato la reazione di Hamas al processo di distensione che si stava avviando tra Israele e Arabia Saudita, un processo visto con grande sospetto. Si teme infatti che gli accordi tra i Paesi arabi e Israele facciano passare in secondo piano la causa dei palestinesi, che sentono di subire non solo l’occupazione israeliana, ma anche il disinteresse di Egitto e Giordania nei loro confronti. La sconfitta di Hamas non sarà in ogni caso totale e risulta arduo ipotizzare che l’Autorità Nazionale Palestinese, senza aprirsi a figure del mondo laico e moderato non compromesse col malgoverno di Fatah, possa trovare consensi a Gaza. Ogni possibile opzione dovrà inoltre collocarsi all’interno dell’attuale quadro geopolitico, segnato dal conflitto in Ucraina e dalla posizione di Paesi come la Russia, la Cina, la Turchia, l’Iran, che in un nuovo scenario da guerra fredda si contrappongono a Israele, agli Stati Uniti e all’Unione Europea.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.