Con l’inizio del 2021, l’avviamento della vaccinazione e l’insediamento di Mario Draghi a Palazzo Chigi, mentre possiamo forse abbandonarci alla speranza che il COVID-19 verrà prima o poi lasciato alle spalle, è necessario porre una riflessione sul clima che ha alimentato le argomentazioni pro-lockdown negli scorsi tragici mesi e che, ahimè, non scomparirà insieme alla pandemia.
Descrivendo la narrazione mediatica che si è talvolta spinta fino a parlare di lockdown anche nel 2022 e 2023 come esageratamente catastrofista, credo che pochi avrebbero da ridire. Tanto per fare un esempio, qualche settimana fa, Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università Statale di Milano, ha parlato di impossibilità di pranzi e cene fino alla fine del 20211. (https://www.fanpage.it/attualita/il-virologo-pregliasco-la-terza-ondata-e-certa-zona-rossa-dopo-il-6-1/). Sono altrettanto numerosi i cittadini e le autorità che in questi mesi sono sembrati invocare lockdown e misure restrittive con eccessiva leggerezza.
Scoprire quali siano i fattori che determinano questo approccio alla pandemia, in cui a più riprese è sembrato emergere un inquietante denominatore comune, ossia una non troppo celata simpatia verso il lockdown come mezzo di espiazione dei peccati dei cittadini, è lo scopo di questo articolo.
Ma prima facciamo un passo indietro.
Nell’era delle social-democrazie il liberalismo è sempre più moribondo e la lotta alla disuguaglianza è sempre più viva. Se dovessi scegliere una parola, un ritornello, il leitmotif di questo secolo, sceglierei proprio il termine “disuguaglianza”. Ma mentre volere la libertà significa volere che ogni cittadino sia egualmente libero, ed implica quindi l’uguaglianza “di partenza”, la lotta alla disuguaglianza può diventare liberticida se non si presta attenzione alla distinzione tra uguaglianza di partenza e uguaglianza di risultato. Infatti, volere che i corridori di una maratona partano dallo stesso punto, è ben diverso dal volere che concludano la gara nello stesso istante.
Ovviamente, garantire la libertà ai corridori significa ammettere che alla fine della corsa ci sarà disuguaglianza.
Così, dire che in una classe del liceo sono aumentate le disuguaglianze, per il clima culturale in cui viviamo, significa comunicare qualcosa con accezione negativa. Ma se in una classe tutti gli alunni hanno 6 di media, e dopo un mese metà classe aumenta la sua media portandola a 8, mentre l’altra metà l’aumenta portandola a 10, si potrebbe forse dire che questo aumento della disuguaglianza è un male da eradicare? Ovviamente no, perché le condizioni individuali di ciascun alunno sono migliorate.
Allo stesso modo, la nenia quotidiana per cui “i redditi dei ricchi aumentano”, raramente prende in considerazione il reddito delle classi meno abbienti. Il fatto che i ricchi si arricchiscano, per chi filtra la società con l’occhio dell’uguaglianza di fatto e dell’invidia sociale, è di per sé un fatto negativo, a prescindere dal fatto che questo arricchimento sia accompagnato o meno da un miglioramento delle condizioni della classe povera. In questi 2 secoli di capitalismo abbiamo assistito ad una vertiginosa diminuzione del numero di persone che vivono in condizioni di estrema povertà, eppure si parla solo dell’aumento o diminuzione del numero dei miliardari.
Già nel 1979, Margaret Thatcher accusava il socialismo di volere la diminuzione delle disuguaglianze anche qualora questo dovesse comportare l’impoverimento dei più poveri: “So long as the gap is smaller, they’d rather have the poor poorer.”.
E questo infelice sentimento, il principio del “mal comune mezzo gaudio”, per cui il fatto che qualcuno soffra basta ad alleviare le nostre sofferenze, o che le nostre sofferenze dipendono in modo inversamente proporzionale dalla felicità altrui, unito allo scarso rispetto per le libertà altrui e alla volontà di raggiungere l’uguaglianza sociale, a prescindere che questa sia raggiunta con un impoverimento collettivo o con un miglioramento delle condizioni delle classi meno abbienti, pare essere il fondo ideologico della fazione della sinistra, lontana dalla parte più liberale (o meno socialista) di Renzi, Bonino e Calenda, che sembra veramente tifare per il lockdown.
Tutti ricorderanno la narrazione della “movida”, gli attacchi ai giovani sui navigli milanesi protratti spesso con fotografie schiacciate, la caccia ai runners, la persecuzione dei cittadini che, armati di mascherina, si sono riversati per le vie delle grandi città per fare shopping non appena la legge lo ha consentito, la trama mediatica dell’ “estate”, per cui ogni contagio da Ottobre a Dicembre può essere ricondotto ai comportamenti “irresponsabili” di ferragosto proprio come ogni peccato dell’uomo può essere ricondotto al peccato originale di Adamo ed Eva.
Sono già state avanzate teorie per cui “la libertà di andare a correre non è una vera libertà” e il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, è arrivato a sostenere che i runners dovrebbero pensare che, mentre loro corrono, le persone che li osservano dalla finestra si sentono recluse.
Godere di una libertà senza che gli altri possano fare altrettanto, quindi, è diventato una colpa.
Sembra inoltre emergere una nuova concezione della libertà per cui libertà non è essere liberi di fare tutto ciò che non arreca danno agli altri, ma solamente di fare solamente ciò che è utile alla società, mentre qualsiasi altra pretesa rientra nell’alveo dell’egoismo individualista. Sotto questa lente, è inevitabile che le privazioni della libertà a cui stiamo assistendo in questi mesi non siano ritenute così drammatiche.
Diceva Indro Montanelli: “Quando un italiano vede passare una macchina di lusso il suo primo impulso non è averne una anche lui, ma tagliarle le gomme.”
Ecco, attualmente non è impossibile acquistare una Ferrari, ma con il lockdown si è reso possibile non assistere più a macchine di lusso sfrecciare per le strade, a signori ingozzarsi in ristoranti eleganti, a coppie dilettarsi nella pratica dello shopping in negozi lussuosi, a cittadini divertirsi sulle piste da sci, a giovincelli con la fortuna di provenire da famiglie benestanti affollare i locali dei quartieri “bene” dei vari capoluoghi, si è infine reso possibile non assistere all’ostentazione delle vacanze altrui sui social networks.
Si potrebbe argomentare che una fazione ha semplicemente più a cuore la salute collettiva rispetto all’altra. Tuttavia, i modi ed il tono della dialettica politica, paiono indicare che questa tesi non possa definirsi esaustiva: nella maggior parte dei casi non si tifa maggiormente per la sconfitta del virus, semplicemente si tifa di meno per il ritorno alla normalità e alla libertà perché, mentre nel lockdown siamo tutti egualmente infelici e possiamo consolarcene, nella normalità della vita bisogna fare i conti con la disuguaglianza di fatto che deriva dal naturale displicarsi della libertà.
Sia chiaro, non si vuole qui dire che queste siano le uniche motivazioni per sostenere il lockdown: la paura per sé stessi, la paura per i propri parenti, la paura in generale per i propri concittadini possono essere un fattore più che ragionevole; allo stesso modo, il catastrofismo e il terrorismo mediatico emanato da alcune figure istituzionali e dai media potrebbe essere spiegato dalla volontà di “spaventare” ed indurre a comportamenti più prudenti (si dice alla popolazione che sarà impossibile “cenare insieme fino alla fine del 2021” sperando che la paura di veder prolungate le misure restrittive un altro anno possa indurre a maggiore prudenza).
E’ tuttavia fuor di dubbio che mentre la consapevolezza di quanto il lockdown sia una misura drastica, estrema, altamente lesiva dei diritti e delle libertà umane dovrebbe indurre ad interrogarsi sulla sua necessarietà ed inevitabilità, a dimostrare quanti e quali benefici effettivamente porti, ad accettare veramente a malincuore una sua adozione, a pesare con estrema cautela una sua protratta estensione prima di farne uno strumento di minaccia ed isteria collettiva, le svariate dichiarazioni pro-lockdown sembrano andare esattamente nella direzione opposta, arrivando persino a palesare una certa simpatia verso la misura.
Mariana Mazzuccato, consigliera economica di Giuseppe Conte, ha già sostenuto che anche nel futuro, a causa dei cambiamenti climatici, potrebbe essere necessario implementare dei lockdown1 e i governi potrebbero dover imporre ai cittadini per esempio di non mangiare carne rossa: viene allora la forte paura che, una volta ammesso il principio per cui sia lecito limitare le libertà fondamentali in virtù di un bene superiore, il prossimo decennio sarà tutto un gran spolverare di lockdowns e misure restrittive, proprio come si fa con il prezzemolo in cucina.
Quest’estate Boris Johnson, per giustificare il “libertinismo” inglese in risposta alla pandemia, ha detto che il Regno Unito, “a differenza di molti altri paesi del mondo, è una nazione “freedom loving.”, amante della libertà2 , scatenando anche la reazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non ci addentriamo oltre nella polemica, ma, per concludere con eufemismo, faremmo fatica ad accusare il premier britannico di aver detto il falso.
Nato il 28/04/1999, laureando in Economia e Finanza, prossimamente Laurea Magistrale in Economia e Scienze Sociali.
Ho frequentato il quarto anno di liceo negli Stati Uniti, in Illinois.
Sono attivo politicamente e, seguendo l’approccio di Hannah Arendt, credo che la politica debba occuparsi di allargare lo spazio di libertá degli individui.
La mia frase preferita è di Benedetto Croce: “per l’autoritarismo al quale è costretto ad appigliarsi[…], per l’inevitabile inclinazione a soffocare la varietà delle tendenze, gli spontanei svolgimenti e la formazione della personalità, il socialismo incontra l’ostilità della concezione liberale.”
Amo Edmund Burke.