Una moda che sembra non passare mai è quella di utilizzare concetti collettivi e di per sé inesistenti come se fossero realtà, ovvero come se davvero pensassero, agissero e, quindi, vivessero. La democrazia, purtroppo, non fa che alimentare questa “cultura”, se la si interpreta in un certo modo.
Infatti, se presa alla lettera, considerata quindi in senso etimologico, incentiva l’idea che esista il “popolo”: se il termine sta a significare che il potere risiede nel popolo, come fa esso a non esistere? Ebbene, seguendo questa interpretazione è ben chiaro come essa arrivi ad assumere connotati ben lontani da quelli che una democrazia liberale – o, se si preferisce, una democrazia basata su quella che Constant definì “libertà dei moderni” – dovrebbe avere.
Per democrazia liberale, allora, cosa si dovrebbe intendere? Qui non si può evidentemente ripercorrere un completo ed esaustivo percorso di ricerca che individui i caratteri del regime politico oggetto di questa riflessione. Nondimeno, se consideriamo alcuni dei più fulgidi studiosi del fenomeno, si può ricostruire per sommi capi quali sono i tratti fondamentali di una liberaldemocrazia. Un classico come Raymond Aron, ad esempio, ci parla di regimi “costituzional-pluralisti” in cui si deve avere «la combinazione fra un governo esercitato secondo le regole legali e una competizione organizzata fra individui e partiti per l’esercizio del potere». Ma è il seguito il fulcro del discorso, giacché «in altri termini, le istituzioni della democrazia liberale […] si definiscono meno per la sovranità del popolo o il suffragio universale […] che per l’organizzazione d’una competizione nutrita da passioni pronte ad esplodere».
Se poi utilizziamo Giovanni Sartori, possiamo intendere per democrazia (rigorosamente liberale, non dimentichiamolo) «una società libera, non oppressa da un potere politico discrezionale ed incontrollato, né dominata da una oligarchia chiusa e ristretta», cioè a dire «una “società aperta”, nella quale il rapporto tra governanti e governati è inteso nel senso che lo Stato è al servizio dei cittadini e non i cittadini dello Stato, che il governo esiste per il popolo e non viceversa». Il termine “popolo” viene impiegato dal politologo fiorentino, ma non in senso organicistico, unanimistico e monocorde. Infatti, come lascia intendere l’impiego di concetti come “società aperta” e “società libera”, il popolo non può che essere ricondotto all’unità di base del reale, ovvero l’individuo. E, in questo modo, il popolo non sarà certamente un corpo collettivo monolitico, esercitante direttamente il potere, bensì un corpo fatto di individui, irriducibili e peculiarmente distinti, i quali manifestano un potere di influenza e controllo, limitante ed edificante gli argini necessari al contenimento del potere politico.
Come magistralmente lasciatoci in eredità da Benjamin Constant, allora, il perno attorno cui ruota una democrazia compiutamente liberale è il tipo di libertà esperita. Presso gli antichi, ci dice il pensatore franco-svizzero, «l’individuo, praticamente sovrano negli affari pubblici, è schiavo all’interno dei rapporti privati». Infatti, la libertà considerata in quest’accezione viene a identificarsi con la «partecipazione attiva e costante al potere collettivo». Al contrario, in senso moderno-individualistico, la libertà è intesa come «tranquillo godimento dell’indipendenza privata», e la libertà politica è semplicemente uno strumento volto a garantire e a preservare la libertà dei moderni. Riprendendo Sartori, diremo così che «se misurati alla stregua dei moderni, gli antichi non erano liberi, e più esattamente non erano liberi alla stregua del nostro concetto di libertà individuale». E, seguitando con un passo tratto da Democrazia e definizioni, «per i Greci democrazia era soltanto quel sistema di governo nel quale le decisioni sono collettive […] la polis è sovrana in quanto e perché gli individui le sono interamente soggetti: libera era la città, non necessariamente i cittadini».
Si è arrivati, insomma, al nerbo della questione. Una democrazia compiutamente liberale è quella che ha come suo fondamento l’individuo e, in questo senso, a essere sovrano non sarà l’uomo e il suo arbitrio, ma la legge. Nel caso, invece, in cui ad essere sovrani saranno gli uomini, ci insegna Aristotele, la faranno da padroni i demagoghi e si avrà un iper-legislazione che andrà man mano distruggendo la certezza del diritto e la garanzia della libertà individuale. Qualora si verifichi questa seconda condizione – e merita, all’uopo, di essere citato un passo tratto da La politica di Aristotele – «il popolo diventa allora il vero monarca, ed esso è costituito dai più, i quali sono signori, non presi uno per uno, ma tutti insieme. […] Allora il popolo, trovandosi in queste condizioni ed essendo perciò una specie di monarca, cerca di esercitare il suo dominio da solo, rifiutando l’autorità delle leggi, e diventa dispotico […] Questa democrazia diventa analoga a quella monarchia che si chiama tirannide».
In altre parole, da un lato abbiamo una democrazia liberale, incardinata sull’individuo – il quale non è, evidentemente, uno “sradicato”, ma un soggetto “situato” in una realtà che in buona misura lo aiuta a diventare un’ “io”, nel solco della lezione di Edmund Burke – e sulla sovranità delle legge. Questa – come poi dirà quello che con buona certezza è il più grande pensatore liberale del ‘900, Friedrich August von Hayek – è una “nomocrazia” (termine che, al pari del suo opposto “teleocrazia”, Hayek trae da Michael Oakeshott) ovvero una società libera in cui a ciascuno è data la possibilità di raggiungere i propri scopi e, così, realizzarsi, secondo uno schema di norme generali e astratte, dunque non prescrittive e non intrusive della sfera individuale. A questo proposito, giova ricordare anche un altro grande autore, ovvero Bruno Leoni. Pur non potendo in questo contesto parlare diffusamente delle brillanti idee di questo originale pensatore, si può notare come egli puntualizzò, facendo un parallelo con la pianificazione economica, che una società davvero libera non può fare affidamento su una legislazione capillare e pianificatrice e su decisioni collettive adottate in qualsiasi ambito, pena la perdita di libertà. In tal senso, egli criticò aspramente la rappresentanza di chi non è disposto a conferire il mandato di essere rappresentato. Ancor di più – si legge in un saggio, Rappresentanza politica e rappresentatività dei partiti (1967), riportato in Scritti di scienza politica e teoria del diritto – «non si possono trasformare per forza in decisioni di gruppo, da adottarsi con qualche procedura formale, le decisioni che i rappresentati, o una parte di essi, vogliono e possono prendere a livello individuale». In questo senso, una democrazia davvero liberale è una democrazia “limitata”, nel senso che le decisioni collettive devono essere prese solo per pochi e davvero comuni ambiti. Per converso, una democrazia basata non sull’individuo e sulla sovranità della legge, bensì sul popolo e sull’arbitrio degli uomini, andrà assumendo sempre più caratteri “teleocratici” e prescrittivi, in cui ciascun individuo tornerà ad assumere i connotati di un anonimo granello di sabbia, privo di una propria singolarità. L’entità collettiva monolitica sovrana, allora, darà vita a un dispotismo antimoderno, cioè a dire anti-individualistico, in cui tutto sarà regolato mediante decisioni collettive e, in questo modo, ancora con le parole di Aristotele, tale regime politico «non è neppure una democrazia nel vero senso della parola». Si avrà, in questo senso una democrazia “illimitata”.
Come disse Isaiah Berlin nella celebre prolusione al corso che tenne a Oxford nel 1958 (Two concepts of liberty), la democrazia, se erroneamente considerata, «può anche annientare gli individui con altrettanta spietatezza di qualsiasi dominatore precedente». E così ciò che pare doveroso è «rimettere in esplicito tutto ciò che – nel dire soltanto democrazia – non è detto ma solo sottointeso» (Sartori). Come scrisse Constant nella sua Nota sulla sovranità del popolo e i suoi limiti, «il riconoscimento astratto della sovranità del popolo non incrementa sotto nessun profilo la somma delle libertà degli individui, e se si attribuisce a questa sovranità un’ampiezza che non deve avere, la libertà può essere perduta malgrado tale principio, o addirittura a causa di questo». Il problema, infatti, non è stabilire se è un sol uomo o il popolo intero ad essere sovrano, bensì è la limitazione della stessa sovranità a rendere una democrazia davvero liberale. Con Hayek diremmo, in altri termini, che «non è la fonte ma la limitazione del potere che impedisce ad esso di essere arbitrario». E dunque, se da un lato non è sufficiente dividere i poteri per limitarli e tutelare gli individui, ciò che va decisamente limitato è il potere pubblico medesimo, ovvero vanno ristretti al minimo gli ambiti in cui adottare decisioni collettive; dall’altro, affinché ci si trovi in una società libera, non basta nemmeno asserire che la libertà consiste in ciò che le leggi ci permettono di fare, giacché, ancora con Constant, «le leggi potrebbero proibire così tante cose che anche in tal modo verrebbe meno la libertà».
PhD candidate, Luiss Guido Carli, Roma. Tra gli interessi di ricerca: populismo, rapporto liberalismo/democrazia, pensiero liberale classico