Alexandre Koyrè, riflettendo sul linguaggio politico dei totalitarismi, scriveva, nel 1943, che non si era mai mentito tanto come in quel tempo, perché i giornali, e soprattutto la radio, erano stati posti al servizio della menzogna. Il pensiero totalitario, sosteneva Koyrè, non si propone di rivelarci il reale, “ma di aiutarci a modificarlo, a trasformarlo, guidandoci verso ciò che non è”. Il mito assume così un primato sulla scienza e una retorica di forte impatto emotivo predomina su ogni argomentazione razionale. Ecco perché i regimi totalitari sono, a suo avviso, “al di là della verità e della menzogna” e, se la distinzione permane, è sicuramente la menzogna a prevalere.
I totalitarismi, scrive Koyrè, sono delle “cospirazioni in piena luce”, non propriamente società segrete, ma “società con segreto”, segreto noto solo agli eletti, che pretendono di conoscere la meta verso cui orientare la società. Si tratta, commenta, di “una aristocrazia della menzogna, […] una cacocrazia e non un’aristocrazia”, in cui l’élite degli iniziati è radicalmente separata dalla massa. Si realizza così una netta dicotomia tra logos-ragione e logos-parola e la dimostrazione cede il passo alla propaganda, “perché l’animale parlante è prima di tutto un animale credulo e l’animale credulo è appunto quello che non pensa”. Nell’antropologia totalitaria rivivrebbe dunque la dualità gnostica di iletici (legati solo ai bisogni materiali) e pneumatici (gli eletti), una contrapposizione che richiama anche la rigida divisione aristotelica tra schiavi e uomini liberi.
La menzogna diviene allora, con diverse declinazioni, l’elemento costitutivo della comunicazione, tanto nei confronti del nemico, quanto nei confronti delle masse amorfe, che esprimono il loro cieco consenso verso il capo e la gerarchia. Se tali strategie risultavano efficaci nei regimi totalitari, i paesi democratici, concludeva Koyrè, si erano rivelati refrattari a questo genere di propaganda. Le presunte aristocrazie totalitarie, e non le masse popolari democratiche, avrebbero quindi incarnato “la categoria più bassa dell’umanità, quella dell’uomo credulo, che non pensa”.
Si fa una certa fatica a condividere, oggi, la fiducia nutrita da Koyrè nei confronti dell’opinione pubblica democratica, se si pensa che la Oxford Dictionaries Word del 2016 è stata Post-verità, un modo di comunicare in cui i fatti divengono quasi irrilevanti rispetto alle emozioni suscitate da immagini, commenti e impressioni personali.
Viviamo infatti, come scrive il politologo James Fishkin, “in una versione high-tech della caverna di Platone”. Questa allegoria risulta meno sorprendente ai nostri contemporanei di quanto risultasse agli antichi, perché, come gli abitanti della caverna, prosegue Fiskin, “noi riceviamo la nostra immagine del mondo, specialmente la nostra immagine del mondo politico, a partire da immagini riflesse e da echi di voci. […] Sono le immagini riflesse che appaiono reali ed importanti. Sono esse che costituiscono il mondo politico, piuttosto che quello che possiamo vedere all’esterno della caverna con i nostri occhi”.
Ci si può naturalmente affrancare da tale sudditanza, ma questo richiede, da parte del singolo, la forza di elaborare uno stile di pensiero autonomo, che si dimostra poi minoritario e dissonante rispetto ai modelli prevalenti nelle democrazie. Non bisogna dimenticare che, come sosteneva Schumpeter, “la democrazia è un metodo politico”, non un fine in sé. In assenza di una cittadinanza consapevole e di un corretto bilanciamento di poteri, le istituzioni democratiche lasciano emergere, infatti, la loro costitutiva fragilità.
Di fronte alla scarsa partecipazione alla vita pubblica e alla crisi dei partiti, i sondaggi sono divenuti una sorta di bussola, non sempre affidabile, per quanti ambiscono a rappresentare, in modo immediato e diretto, la volontà popolare. Questi plebisciti quotidiani, alimentando le ambizioni dei leader populisti che vogliono dar voce alle folle, possono evocare sogni e incubi novecenteschi, ma non bisogna dimenticare che il comportamento gregario dei nostri giorni assume il volto dei followers, che si identificano nella Società dello spettacolo e nei suoi ambigui simulacri.
Tutto ciò non è del tutto nuovo, anche se diversa, rispetto al passato, è la modalità di diffusione del messaggio politico. Nelle città in preda al disordine e alle sedizioni, scriveva Tucidide, l’usuale valore, che le parole avevano in rapporto all’oggetto, mutava. L’audacia dissennata veniva allora considerata “ardire devoto” e la cautela “viltà mascherata da un bel nome”. Quando il rapporto tra le parole e le cose varia a tal punto che i fatti scompaiono dietro argomentazioni sofistiche e seduttive, può accadere, oggi come nell’Atene di Tucidide, che la simulazione e la cosmesi prevalgano sulle osservazioni ponderate.
Lo aveva già rilevato Günther Anders, quando scriveva, nel 1960, che la scelta di farsi truccare, da parte di Kennedy e Nixon, per apparire più giovani in occasione del celebre confronto elettorale, provava “che i due non solo erano attesi dal pubblico come uno show, ma che essi già concepivano se stessi come attori, che entravano in concorrenza con le star televisive”. Dunque, commentava Anders, “non solo l’interpretazione della realtà da parte del pubblico diventa poco seria, ma la realtà stessa lo diventa”. Guy Debord, scriverà poi, nel 1967, che la nostra società si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli, in cui “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”.
In questo clima, un uso dei sondaggi che non preveda un filtro, non favorisce risposte razionali, ma produce piuttosto reazioni immediate ed emotive. Nel 1976 fu organizzato, negli Stati Uniti, un sondaggio su un fantomatico Public Affairs Act, presentato come una legge approvata l’anno precedente. Le risposte registrarono pareri favorevoli, contrari, e una minoranza di incerti. Fu reso noto, in seguito, che il Public Affairs Act non esisteva. L’operazione, riguardo allo stesso quesito, è stata ripetuta dopo venti anni, chiedendo se si era favorevoli a Clinton, che voleva conservare quella legge o ai repubblicani, che volevano abrogarla. La maggioranza, fu favorevole a Clinton, la cui immagine mediatica era, in quel momento, decisamente vincente.
L’idea del cittadino colegislatore, che dovrebbe essere alla base dell’ethos democratico, appare come un modello lontanissimo dalla prassi politica delle nostre società, come appare impossibile che il monito einaudiano, “conoscere per deliberare”, possa in qualche modo trovare attuazione.
Risulta decisamente arduo elaborare linguaggi che possano rappresentare un’alternativa ai metodi della politica contemporanea. Solo i comici, forse, potrebbero contribuire efficacemente a decostruire questi sofismi. Mark Thompson ritiene che sono sempre stati “gli spazzini del linguaggio pubblico”, in quanto hanno eliminano “la retorica fasulla in tutte le sue forme, il falso, il servile, il demente”. Dovremo allora rivolgerci ai comici “per avere i commenti più affidabili sui fatti del giorno”?
Thompson si riferisce a figure come Chris Morris in Gran Bretagna o John Oliver negli Stati Uniti, evidenziando che sono proprio loro a rendere evidente la distanza fra il linguaggio della politica e la realtà vissuta dai cittadini. Pensando all’Italia, sappiamo tutti che molte performance di Maurizio Crozza ci spiegano più cose di quante possiamo comprenderne assistendo a un confronto fra opinionisti, scelti spesso più per la loro capacità di “bucare lo schermo” che per la loro competenza.
Antonio Albanese, in Qualunquemente, ha descritto aspetti della classe politica meridionale (e non solo), del suo stile di vita e delle sue forme espressive, che potrebbero fornire strumenti di indagine per sociologi e scienziati della politica. Si potrebbe addirittura pensare di integrare, con il contributo di Albanese, le tesi sul familismo amorale, sostenute da Edward C. Banfield nel 1958 nel suo celebre saggio Le basi morali di una società arretrata.
Solo una decostruzione del discorso pubblico contemporaneo può restituire un senso allo spazio comune in cui le opinioni si confrontano entro le procedure della democrazia. Alla decostruzione dovrà affiancarsi la pars construens di un sapere critico, che contrasti la cattiva retorica e le esibizioni narcisistiche di quanti, da irresponsabili e incompetenti, pontificano su tutto, e, in tempo di pandemia, anche su questioni sanitarie e vaccini.
Gorgia raccontava a Socrate di essersi recato, con dei medici, presso persone ammalate, riuscendo a convincerle, con l’arte retorica, a seguire quelle terapie che gli stessi medici, senza successo, tentavano di prescrivere. Ciò lo portava a concludere che “se un medico e un retore andassero in una città qualsiasi e se si dovesse discutere nell’assemblea popolare o in qualsiasi altra riunione quale dei due dovesse essere scelto come medico, il medico non riuscirebbe ad imporsi e verrebbe scelto quello che è abile a parlare, posto che lo volesse”.
Dopo aver ascoltato le osservazioni di Socrate, Gorgia deve però ammettere che queste capacità persuasive hanno dei limiti, ma possono valere, “almeno per il volgo”. Varranno allora “per quelli che non sanno”, conclude Socrate, perché “fra coloro che sanno il retore non sarà mai più persuasivo del medico”.
Una società di cittadini “che non sanno” rischia, infatti, di divenire terreno di conquista per guaritori improvvisati, finanzieri disinvolti, sofisti-giullari o, persino per un salsicciaio, come avviene ne I Cavalieri di Aristofane.
Testi citati
Koyrè, Riflessioni sulla menzogna politica, trad. it., De Martinis & C., Catania, 1994.
A. Schumpeter, Capitalismo, Socialismo, Democrazia, trad. it., Etas Kompas, Milano, 1984.
Tucidide, Le Storie, III, 82, 3-4, trad. it. in Erodoto e Tucidide, Sansoni, Firenze, 1967.
Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, 2 voll., vol. II, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
Debord, La società dello spettacolo, trad. it., Baldini & Castoldi, Milano, 1997.
S. Fishkin, La nostra voce. Opinione pubblica & democrazia, una proposta, trad. it., Marsilio, Venezia, 2003.
Id., Il sondaggio deliberativo, perché e come funziona, trad. it. in G. Bosetti e S. Maffettone, (a cura di), Democrazia deliberativa: cosa è, Luiss University Press, Roma, 2004.
Thompson, La fine del dibattito pubblico, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2017.
Platone, Gorgia, 456 B-C, 459 A, trad. it. In Platone, Tutti gli scritti, Rusconi, Milano, 1991.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.