L’idea che il socialismo fosse una “scienza”, come sostenne Friedrich Engels, rafforzò negli intellettuali e nei militanti, la convinzione che i principi del materialismo dialettico possedessero la stessa validità delle leggi della fisica. La dogmatica marxista non ha seguito il cammino del metodo scientifico, che si nutre di dubbi, ma si è trincerata dietro i rassicuranti meccanismi di difesa dell’ideologia. Nella sua commemorazione di Marx, Engels mise in rilievo che, come Darwin aveva scoperto le leggi dell’evoluzione delle specie, Marx aveva individuato le leggi della storia. Questa analogia nascondeva, in realtà, molteplici insidie, che non avrebbero tardato a manifestarsi.
Dalla Rivoluzione scientifica in poi, lo scienziato non si accosta ai fenomeni che studia per coglierne l’essenza, ma per misurarli. Al centro della sua indagine, non è quindi il che cosa, ma il come. Non si propone, inoltre, di trovare leggi ferree, ma elabora congetture. Questo sapere congetturale caratterizza in modo più evidente l’ambito delle scienze storiche e sociali. L’analisi marxista può allora delineare i modelli di una società socialista, ma non può essere in grado di dimostrare che la storia si concluderà con la rivoluzione, il crollo del capitalismo e la proprietà sociale dei mezzi di produzione. Si attribuirebbe, in questo caso, valore di dimostrazione incontrovertibile a una filosofia teologizzata della storia, in cui, come ha sostenuto Karl Popper, alla previsione si sostituisce la profezia.
Nelle concezioni scientifiche che dubitavano della possibilità di comprendere pienamente la realtà o di fornirne una fedele ricostruzione, Lenin intravide lo spettro dell’immaterialismo di Berkeley, il filosofo dell’esse est percipi, che si stupiva dell’“opinione stranamente diffusa tra gli uomini che le case, le montagne, i fiumi, insomma tutti gli oggetti sensibili, abbiano un’esistenza naturale o reale, distinta dal loro essere percepiti dall’intelletto”.
Non è difficile cogliere il disagio di un rivoluzionario come Lenin, di fronte a quegli scienziati che, nel Novecento, hanno preso le distanze dalle forme consuete del materialismo. Se i corpi, scriveva, sono “complessi di sensazioni”, come dice Ernst Mach, o “combinazioni di sensazioni”, come diceva Berkeley, “ne consegue inevitabilmente che tutto il mondo non è che una mia rappresentazione. Partendo da questa premessa, non si può ammettere l’esistenza di altri uomini all’in fuori di se stessi: questo è il più puro solipsismo”, concludeva Lenin. Come si può trasformare il mondo e fare la rivoluzione, sembra dirci Lenin, se non si è in grado di dare una dimostrazione della sua realtà effettiva?
Le leggi della dialettica, sono, per Engels, “leggi reali dell’evoluzione della natura […] valide anche per la ricerca scientifica teorica”. Se queste leggi sono comuni alla società, alla natura e al pensiero, il pensiero stesso non può che riflettere in modo fedele la realtà.
Ciò spiega, come scrive Jacques Monod, “l’accanimento dei dialettici materialistici nel ripudiare ogni specie di epistemologia critica […], irrimediabilmente qualificata idealistica e kantiana”. Per tale ragione Lenin attaccava Mach; Andrej Zdanov metteva in guardia i fisici e i filosofi sovietici dalla teoria quantistica e dalle “diavolerie kantiane della scuola di Copenaghen”; Trofim Lysenko si scagliava contro la genetica “borghese”, colpevole, secondo lui, di contraddire i dogmi del materialismo dialettico. Se l’approccio probabilistico alla fisica veniva accusato di idealismo, la genetica mendeliana era considerata come una assolutizzazione metafisica. All’idealismo e alla metafisica “borghesi”, doveva allora contrapporsi la scienza proletaria.
Rispetto alle difficoltà poste dai modelli probabilistici, che si stavano affermando in seno alla fisica teorica, l’evoluzionismo darwiniano poteva rappresentare, più concretamente, un ponte tra le scienze e il materialismo dialettico. Si possono sicuramente cogliere delle consonanze fra la darwiniana lotta per la sopravvivenza, intesa come una dialettica che alimenta l’evoluzione delle specie, e la lotta di classe, che, dialetticamente, condurrà all’avvento del socialismo. Tali consonanze, che attraversano gli scritti di Engels, generano però delle evidenti contraddizioni.
Le leggi genetiche, che sono alla base dell’evoluzionismo, divennero infatti motivo di scontro nell’ambito della scolastica marxista-leninista, dal momento che l’invarianza del gene configgeva con la volontà di creare l’uomo nuovo socialista, l’homo sovieticus. L’idea che i caratteri acquisiti influissero sul patrimonio genetico, sostenuta da Lysenko, era invece coerente con l’impianto ideologico del socialismo sovietico. Come ha evidenziato Monod, la questione non verteva, infatti, sulla biologia sperimentale, ma “esclusivamente sull’ideologia, o piuttosto sulla dogmatica. L’argomento essenziale (il solo in definitiva), instancabilmente ripreso da Lysenko e dai suoi sostenitori contro la genetica classica, era la sua incompatibilità col materialismo dialettico”.
Nel luglio del 1948, presso l’Accademia sovietica di scienze agrarie “Lenin”, di cui era stato nominato presidente da Stalin, Lysenko aveva difeso le tesi del botanico Ivan Vladimirovic Miciurin, dell’Accademia delle scienze dell’URSS, che, ispirandosi a Lamarck, aveva rifiutato la genetica mendeliana. Nella certezza che le condizioni ambientali potessero influire sui caratteri ereditari, Miciurin riteneva, contro Mendel, che zoologi e botanici erano in grado di apportare modifiche ereditariamente trasmissibili negli animali e nelle piante. Si scelse così di seguire il metodo della vernalizzazione, che consisteva nel coltivare le piante in condizioni di particolare umidità e temperatura. Questo procedimento avrebbe comportato una selezione di determinate specie che, ereditando le qualità acquisite, avrebbero contribuito ad aumentare considerevolmente la produzione agricola, anche in condizioni climatiche ostili.
La grande attenzione che fu riservata alle tesi di Miciurin e di Lysenko fu anche legata all’esigenza di porre rimedio, in tempi brevi, alle crisi alimentari, che avevano già prodotto tragiche carestie. A questo programma “progressista”, si contrapponeva l’impostazione, descritta come “reazionaria” e deterministica, della genetica mendeliana. All’assenza di significative verifiche sperimentali, faceva riscontro una imponente legittimazione ideologica di queste teorie, che furono accolte con entusiasmo dalle gerarchie del Pcus e suscitarono l’interesse dello stesso Stalin. I genetisti che proseguirono le loro ricerche in sintonia con i metodi della comunità scientifica internazionale furono considerati reazionari e fascisti, e vennero imprigionati o ridotti al silenzio. Nokolaj Vavilov, che era stato insignito del premio Lenin e aveva diretto l’Istituto di genetica dell’Accademia delle scienze, fu accusato di boicottaggio per aver difeso la genetica mendeliana e per essersi opposto al lamarckismo improvvisato di Lysenko. Dopo la condanna a morte, fu imprigionato nel 1940 e morì in carcere nel 1943. Fu infine riabilitato nel 1955.
In Italia, il genetista Adriano Buzzati Traverso apostrofò come “assurda verità” la teoria di Lysenko, attirandosi le ire di alcuni biologi che gravitavano nell’orbita del Pci. Nello Ajello racconta che, nell’inverno del 1948-’49, si tenne, in casa di Emilio Sereni, responsabile della Commissione cultura del Pci dal 1948 al 1951, un incontro su questo tema e il microbiologo Luigi Silvestri fu molto duro nel condannare l’orientamento che Lysenko stava imprimendo alla genetica sovietica. Nel ricostruire la discussione, Silvestri scrive che, di fronte ai dubbi che affioravano anche in coloro che avevano definito Buzzati Traverso uno “scienziato da salotto”, Sereni, la cui profonda erudizione non gli impediva di aderire fideisticamente all’ortodossia sovietica, sostenne “il carattere partitico della scienza”. Tutto si ridusse così a “una questione di fedeltà verso l’URSS”. La posizione critica di Silvestri comportò, poco dopo, la sua espulsione dal Pci, non tanto per la sua avversione a Lysenko, scrive Ajello, “ma per indisciplina, avendo disobbedito al divieto di discutere l’argomento nelle sezioni del Pci”. Gli scienziati che militavano nel partito scelsero prevalentemente, per fedeltà ideologica, di non manifestare il proprio dissenso. “Non potevamo non roderci dentro”, scrisse poi il patologo Massimo Aloisi, ricordando che i biologi Giuseppe Montalenti e Pietro Omodeo furono definiti “reazionari e lacché dell’imperialismo per la loro opposizione a Lysenko”.
Fra gli scienziati che si trovarono ad operare nei totalitarismi vi fu chi si collocò in una zona grigia, chi aderì in modo incondizionato alla neolingua delle pseudoscienze di regime, chi, in rari casi, manifestò la sua opposizione. Nella Germania nazista, figure ben più autorevoli rispetto a Lysenko si trovarono coinvolte nell’ambiguità di questo clima. Werner Heisenberg, che fu insignito del premio Nobel nel 1932, pur non riconoscendosi nel nazismo, collaborò ai progetti di fissione nucleare finalizzati alla creazione di armi atomiche. Nel 1941, quando la Danimarca subiva l’occupazione nazista, si recò a Copenhagen, da Niels Bohr. Non è tuttora chiaro se intendesse proporgli di collaborare col Terzo Reich, che voleva precedere gli americani nella produzione della bomba atomica. Di fatto, la loro amicizia, nata venti anni prima, quando il giovane fisico tedesco aveva frequentato l’istituto di ricerca del più anziano Maestro danese, giunse a termine. Bohr, che aveva ricevuto il Nobel per la fisica nel 1922, e che, insieme a Werner Heisenberg e a Max Planck, aveva posto le basi della fisica quantistica, scelse la via dell’esilio. Dopo un periodo vissuto in Inghilterra, si stabilì negli Stati Uniti, dove collaborò al Progetto Manhattan.
Philipp von Lenard e Johannes Stark, due fisici insigniti del Nobel, nazisti della prima ora e difensori della Deutsche Physik, attaccarono aspramente la “fisica ebraica” di Albert Einstein, non risparmiando critiche a Planck, che, a loro avviso, doveva la sua posizione di privilegio nella comunità scientifica all’attenzione manifestata verso le teorie fisiche “giudaiche”. Sia Planck che Heisenberg furono poi apostrofati come “ebrei bianchi” dai “fisici ariani”, che li accusavano di non prendere le distanze da Einstein.
La contrapposizione tra fisica ariana e fisica giudaica, nella Germania di Hitler, appare speculare, sotto molti aspetti, alla contrapposizione tra genetica reazionaria borghese e genetica progressista, nell’ URSS di Stalin, come speculari appaiono le ideologie totalitarie, che hanno preteso di riscrivere la storia e di sostituire il metodo scientifico con le pseudoscienze. Nelle diverse declinazioni, il pensiero totalitario segue fideisticamente le sue indimostrabili premesse, e, obbedendo a una rigida e inesorabile logica paranoica, rifiuta, come scrisse Hannah Arendt, “gli insegnamenti della realtà”.
Testi citati
Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, trad. it., in G. Berkeley, Opere filosofiche, U.T.E.T., Torino, 1996.
J. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, trad. it., Editori Riuniti, Roma, 1973.
Engels, Dialettica della natura, trad. it., Edizioni Rinascita, Roma, 1950.
Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, trad. it., Edizioni scientifiche e tecniche Mondadori, Milano, 1972.
Ajello, Intellettuali e PCI 1944-1958, Laterza, Roma-Bari, 1979.
Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it., Edizioni di Comunità, Milano, 1967.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.