La tendenza del liberalismo ad accogliere i principi universalistici dell’Illuminismo avrebbe in realtà assolutizzato, secondo quanti si riconoscono in un orientamento comunitario, i modelli culturali della modernità, mettendo in ombra le tradizioni lontane da tale prospettiva. Il soggetto del liberalismo procedurale appare, ai comunitaristi, puramente formale, un unencumbered self, per usare l’espressione di Michael Sandel, un soggetto vuoto, in opposizione al soggetto pieno, all’encumbered self, la cui esistenza si colloca entro una rete di relazioni. Si tratta di una critica che si trasforma talora in severa condanna, come dimostra la posizione di Alasdair McIntyre, il quale, in Dopo la virtù, auspica la costituzione di piccoli gruppi, che, simili alle comunità monastiche medioevali, possano costituire un’alternativa all’atomismo dell’homo oeconomicus.
Per Charles Taylor i modelli astratti e formali del proceduralismo liberale adottano una visione ristretta dell’uguaglianza, favorendo una omologazione che annulla le differenze. I filosofi cui Taylor si contrappone sono principalmente John Rawls, Ronald Dworkin, Bruce Ackermann. La loro posizione può essere compendiata facendo ricorso a un passo dell’introduzione a I fondamenti del liberalismo, in cui Dworkin scrive che il pensiero liberale ha subordinato le questioni sulla vita buona a quelle sulla vita giusta, seguendo le indicazioni tracciate nel 1971 da Rawls in Una Teoria della giustizia. Una volta che i principi generali di giustizia siano stati scelti, non c’è bisogno, scrive infatti Rawls, “di raggiungere un giudizio pubblicamente accettato sul bene di individui particolari”.
Dworkin può dunque coerentemente sostenere che “I filosofi liberali trovano naturale e utile insistere sul punto che il liberalismo non stipula cosa sia la vita buona, ma descrive soltanto strutture eque, politiche ed economiche, entro le quali i singoli cittadini devono decidere quale sia il tipo di vita buono per loro”. Come dire che il liberalismo privilegia la dimensione procedurale, lasciando ai singoli le scelte di valore, che devono, comunque, essere compatibili con un sistema normativo condiviso.
In Liberalismo politico, pubblicato vent’anni dopo Una Teoria della giustizia, Rawls elabora il concetto di “consenso per intersezione” (overlapping consensus). Nel prendere atto che, nel corso della modernità, si sono poste a confronto diverse concezioni etiche, spesso in conflitto fra loro, Rawls propone un modello pluralista, che trovi un accordo “per intersezione” intorno a principi ragionevoli. Le specificità non vengono dunque negate, come sostengono i comunitaristi, ma si collocano all’interno di un quadro normativo universalistico, in grado di garantire diverse opzioni, nel rispetto di regole condivise.
Taylor non accetta così la tesi di Dworkin, il quale si riconosce in una società che, non facendo propria una visione sostanziale dei valori, “è unita, invece, intorno a un forte impegno procedurale a trattare tutti con uguale rispetto”. In questo quadro, la correttezza delle procedure garantisce infatti il pluralismo, evitando le radicalizzazioni identitarie. Le considerazioni di Taylor pongono in primo piano il rapporto problematico tra valori in una società multiculturale.
Il multiculturalismo può anche essere considerato un aspetto del pluralismo, quando accoglie lo stile della tolleranza, ma non, come scrive Giovanni Sartori, quando esalta acriticamente l’alterità. Può allora accadere che divenga un vero e proprio progetto ideologico e che forze minoritarie considerino se stesse portatrici di interessi superiori rispetto alla loro reale consistenza. La politica del riconoscimento si identifica infatti, in molte circostanze, con la politica del “trattamento preferenziale”. Si nega, in tal modo, la dimensione generale e onnicomprensiva della legge, scegliendo di tutelare singole comunità. Pensando agli Stati Uniti, Sartori osserva che il principio delle discriminazioni compensanti, inizialmente riservate a neri, messicani, indiani nativi, filippini, si è esteso alle donne, agli omosessuali e ai malati di AIDS, che vengono privilegiati rispetto ai malati di cancro. Vi è il rischio, sostiene, che siano gli stessi multiculturalisti a fabbricare le culture, “che poi gestiscono a fini di separazione e/o ribellione”. All’universalismo si sostituiscono così forme di particolarismo giuridico, che enfatizzano una serie di identità comunitarie in perenne conflitto.
Altro tema centrale, all’interno di una società multietnica, è quello della cittadinanza. Negli Stati occidentali si è cittadini, ricorda Sartori, in virtù di ius sangunis o ius soli, mentre nei paesi musulmani la cittadinanza optimo iure è concessa solo al fedele. L’occidentale non vede l’islamico come un infedele, precisa però Sartori, mentre, per l’islamico, l’occidentale lo è. Una estensione della cittadinanza che non sia accompagnata da una forma di reciprocità, corre allora il pericolo di creare “controcittadini”. Il pluralismo può funzionare, a suo avviso, quando le linee di demarcazione fra comunità sono neutralizzate e frenate da affiliazioni multiple, non quando “le linee di frattura economico-sociali coincidono, sommandosi e rinforzandosi l’una con l’altra”, quando cioè le identità si dimostrano rigide. L’interlculturalismo che si colloca entro i principi costituzionali sarebbe dunque da preferire al multiculturalismo, che, radicalizzando le differenze, potrebbe condurre a forme di “balcanizzazione”.
Taylor, ritenendo che il liberalismo debba oltrepassare i suoi consueti orizzonti procedurali, cita, come esempio di apertura e di rispetto per le differenze, l’adozione della Carta Canadese dei Diritti del 1982, in cui sono state accolte le specifiche esigenze della comunità francofona del Québec, nonostante molte voci critiche ritenessero tutto ciò incompatibile con una legislazione valida per tutti i cittadini. E’ tuttavia evidente che il riconoscimento della peculiarità francofona del Quebec non mette in discussione i principi fondamentali dello Stato di diritto o della tutela delle libertà individuali. Un eguale riconoscimento a comunità che negassero ai propri membri il diritto all’autodeterminazione potrebbe produrre esiti liberticidi. Se si accetta il principio che una società liberale deve muoversi sul terreno della neutralità, limitandosi solo a garantire che tutti, indipendentemente dalle appartenenze etniche o religiose, siano trattati allo stesso modo, le rivendicazioni comunitarie non possono non apparire, in generale, come discriminatorie.
Il contrasto tra la prospettiva liberale e le concezioni comunitarie emerge in modo evidente nel confronto tra Charles Taylor e Isaiah Berlin. La difesa della libertà si identifica, per Taylor, con la salvaguardia della comunità, laddove, in Berlin, prevale l’esigenza di tutelare i singoli dal potere degli Stati e delle comunità stesse, privilegiando la libertà negativa, intesa come assenza di coazione. Il concetto di comunità implica, in Taylor, la fiducia in una sintesi, in cui le diverse concezioni morali possano riconoscersi. Berlin si contrappone a questa visione, che definisce monistica e finalistica. Entrambi si richiamano a Herder, che mette in luce l’importanza del radicamento sociale degli individui, ma se Berlin si limita a prendere atto di questo pluralismo, senza aspirare a una conciliazione, Taylor ritiene che il corso della storia sia orientato in direzione personalistica e comunitaria.
Berlin sostiene che gli ideali sono spesso incompatibili fra loro e che il pluralismo non implica il relativismo, dal momento che i valori sono oggettivi, e non “arbitrarie creazioni della fantasia”. Bisogna però prendere atto, scrive, che “se perseguo una serie di valori è possibile che ne detesti un’altra, e la ritenga dannosa all’unica forma di esistenza che sono in grado di vivere e di tollerare, per me stesso e per gli altri; nel qual caso potrà accadere che l’aggredisca, e perfino -in casi estremi- che debba scendere in guerra contro di essa”.
I valori comunitari divengono allora motivo di ostilità, quando non si esprimano in un clima di tolleranza, rappresentando un forte condizionamento, se non addirittura un’oppressione, per quanti non vi si riconoscano. La neutralità procedurale, che può apparire fredda rispetto alle differenze, consente in realtà la convivenza di diversi modi di stare al mondo, senza privilegiare le identità comunitarie rispetto alle libertà dei singoli.
Testi citati
Sandel, Il liberalismo e i limiti della giustizia, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1994.
McIntyre, Dopo la virtù, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1988.
Ch.Taylor, Il disagio della modernità, trad. it., Laterza, Roma-Bari, 1999.
Id., La politica del riconoscimento, trad. it. in Id., Multiculturalismo: la politica del riconoscimento, Anabasi, Milano, 1993.
Dworkin, Introduzione a R. Dworkin e S. Maffettone, I fondamenti del liberalismo, trad it., Laterza, Roma-Bari, 1996.
Rawls, Una teoria della giustizia, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1997.
Id. Liberalismo politico, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano, 1999.
G.Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano, 2000.
Berlin-Ch. Taylor, Individui, comunità, Pluralismo. Un dialogo, trad. it., Morcelliana, 2016.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.