Nelle ultime settimane, a sostegno della stabilità del Governo in carica sono stati addotti due argomenti fondamentali: da un lato, la necessità di garantire l’adozione dei provvedimenti per gestire l’emergenza Covid, sia sul versante sanitario che su quello economico; dall’altro lato, l’esigenza di approvare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (cioè, il Recovery Plan).
Ora che la crisi è stata formalizzata con le dimissioni del Presidente del Consiglio, è opportuno chiedersi se e quanto le preoccupazioni agitate nel dibattito pubblico siano fondate. Per rispondere alla domanda, occorre analizzare i poteri di cui il Governo dimissionario dispone nel nostro sistema costituzionale.
Il tema è ricco di risvolti non solo teorici e politici, ma anche pratici, considerando che, nel corso della storia repubblicana, si è dato il caso di Gabinetti dimissionari rimasti in carica per periodi assai estesi: fra i precedenti più significativi, si possono ricordare il Governo Dini (1996), con 127 giorni intercorsi fra le dimissioni e la nomina del nuovo Esecutivo; e così pure i 126 giorni del Governo Andreotti V (1979), i 121 giorni del Governo Andreotti I (1972), i 104 giorni del Governo Prodi II (2008).
Provando a focalizzare l’attenzione sugli aspetti più strettamente giuridici, il Governo, a seguito dell’accettazione delle dimissioni da parte del Capo dello Stato, viene a trovarsi in regime di prorogatio, con funzioni e poteri circoscritti al “disbrigo degli affari correnti”. Quest’ultima nozione, priva di un preciso perimetro normativo, è stata riempita di contenuto, in realtà piuttosto nebuloso e mutevole, dalla prassi. Al suo interno confluiscono, innanzitutto, gli atti di ordinaria amministrazione (vincolati e discrezionali), richiesti per assicurare la continuità dell’azione amministrativa; restano invece preclusi gli atti espressione della funzione d’indirizzo politico, per i quali è necessaria l’operatività del rapporto fiduciario con le Camere, qui reciso dalle dimissioni. Restano nelle prerogative del Governo, poi, gli atti indifferibili e urgenti: la categoria comprende – secondo l’orientamento invalso nell’esperienza repubblicana – i decreti-legge, ove ricorrano i presupposti dell’art. 77 Cost., e gli altri atti, ivi compresi quelli di nomina, la cui adozione sia imposta dalla Costituzione, dal diritto europeo, dagli impegni internazionali o dalla legge (per quest’ultima, in virtù del principio di legalità cui è sottoposto il Governo), specie se astretti a termini di scadenza che rischiano di non essere osservati. La clausola degli atti indifferibili e urgenti – a ogni evidenza – rappresenta una deroga alla regola dell’ordinaria amministrazione, in quanto, in presenza di vincoli cogenti, consente al Governo dimissionario di assumere determinazioni che immettono nell’ordinamento un indirizzo politico di maggioranza, al di fuori di un compiuto circuito di responsabilità parlamentare, e in un contesto in cui, peraltro, è dubbio il fatto stesso che il Governo rappresenti ancora la maggioranza, o che una maggioranza esista. Ciò si verifica, in particolare, nell’ipotesi in cui siano presentati disegni di legge, oppure adottati decreti-legge, decreti legislativi attuativi di deleghe in scadenza e regolamenti, che possiedono tutti un elevato coefficiente di politicità.
Alle coordinate appena tracciate si attiene piuttosto scrupolosamente la circolare diramata il 26 gennaio dalla Presidenza del Consiglio, che reca le direttive per l’attività del Governo durante la crisi.
Scorrendola, vi si legge in apertura che il Governo “rimane impegnato nel disbrigo degli affari correnti […] e nell’adozione degli atti urgenti, ivi compresi gli atti, legislativi, regolamentari e amministrativi necessari per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 e ogni relativa conseguenza”. Il documento, in sostanza, pone una presunzione assoluta di urgenza per tutti gli atti relativi non solo alla gestione della pandemia, ma anche a “ogni [sua] conseguenza”. L’ambito delle prerogative del Governo dimissionario, soprattutto per questo secondo profilo, è ricostruito (o meglio, rivendicato) in modo assai ampio e probabilmente inedito. Ora, non sembra utile avventurarsi in ragionamenti circa la legittimità della previsione, che si arenerebbero sulla idoneità o meno della situazione a giustificare la dilatazione dei poteri del Governo; quel che appare indubbio, però – anche a prescindere dalla circolare e sulla scorta della lettura tradizionale – è che il Gabinetto, nonostante la crisi, disponga comunque di strumenti per assicurare la gestione dell’emergenza e per apprestare a sostegno del tessuto sociale ed economico almeno gli interventi connotati dalla straordinaria necessità e urgenza.
Dunque, pur non potendosi ignorare le difficoltà scaturenti dalla discontinuità politica, dal punto di vista strettamente tecnico le comprensibili preoccupazioni sollevate negli ultimi giorni si rivelano meno consistenti di quanto appaiano.
Per quanto riguarda invece il Recovery Plan, è opportuno svolgere delle considerazioni ulteriori. Il testo predisposto dall’Esecutivo è stato trasmesso al Parlamento lo scorso 15 gennaio, in data precedente alle dimissioni; la “prima fase” governativa si è così conclusa, e spettano ora alle Camere l’analisi e la discussione del piano, che dovrebbero culminare nell’approvazione di una risoluzione. Qui sorgono alcuni problemi. Durante la crisi di Governo, in attesa del ripristino fisiologico del rapporto fiduciario, l’attività delle Camere subisce per prassi una limitazione che riguarda ovviamente, in primo luogo, la funzione d’indirizzo: mancando la controparte della relazione fiduciaria, finché questa non sia ristabilita non è immaginabile l’espressione di un indirizzo politico all’Esecutivo da parte del Parlamento. A rigore, quindi, nelle more della definizione della crisi non sembra che possa addivenirsi all’approvazione della risoluzione che sugella il procedimento; a meno di non voler far leva sull’unicità del Recovery Plan, che non ha precedenti e non trova disciplina nei regolamenti parlamentari, per ammettere una deroga. Appare invece possibile proseguire nell’esame del testo: in questa prospettiva possono farsi valere sia la regola che ammette la trattazione di singole questioni, con il consenso unanime dei gruppi; sia la presenza di una scadenza temporale imposta a livello europeo, sebbene in procinto di essere resa derogabile, il prossimo 30 aprile. Peraltro, nell’ipotesi in cui il termine fosse reso flessibile, potrebbero ridimensionarsi anche le preoccupazioni di perdere i fondi, connesse all’eventuale svolgimento di nuove elezioni. Concludendo, l’avvio del procedimento in costanza della crisi politica, pur gravato dall’incognita circa la possibilità di concluderlo legato alla nomina effettiva del nuovo Governo, sembra possibile, con l’unità d’intenti di tutte le forze dell’arco parlamentare.
Professore di diritto pubblico, Università San Raffaele