Si ha un gran bel dire che viviamo in un mondo atomizzato e solipsistico, in cui il senso della comunità e la passione per il bene comune sono ormai ridotti al lumicino, e il ‘liberismo selvaggio’ spadroneggia ormai indisturbato in ogni ambito della vita sociale.
Ma tutto questo è soltanto il pregiudizio di un pensiero divenuto purtroppo dominante nel nostro Paese. Mercoledì 3 gennaio Sergio Belardinelli ha riproposto su «Il Foglio» alcune riflessioni di Christopher Lasch in merito alla crescita capillare della «cultura del narcisismo», tipica di una società che «ha perso interesse per il futuro».
Ora, come si fa a rimettere sui giusti binari il convoglio?
A mio avviso, l’infiacchimento, l’autoreferenzialità e il timore per i rischi sono il risultato di un’azione statale che tende a tarpare le ali all’individuo e alla sua libera forza creatrice. Non esiste al mondo creatura tanto adattabile quanto fantasiosa com’è l’uomo.
Pur partendo dall’assunto imprescindibile che mai potremo raddrizzare la stortezza di cui siamo fatti, è pur vero che abbiamo enormi potenzialità. Tuttavia, questo spirito ingegnoso e dinamico necessita della libertà per potersi sviluppare. Tocca constatare che sono le regole sempre più intrusive e lesive dell’autonomia individuale e della libertà di scelta che imbolsiscono l’essere umano e gli impediscono di dispiegare tutta la sua potenza.
Non è un caso che già Tocqueville vide in ciò una minaccia esiziale per una società prospera, allorché, parlando del nuovo tipo di servitù, tipico dello stato paternalista contemporaneo, disse che «dopo aver preso di volta in volta nelle sue mani potenti ogni individuo e averlo plasmato a suo modo, il sovrano estende il suo braccio sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose e uniformi […] non spezza le volontà, ma le infiacchisce […] non distrugge, ma impedisce di creare; non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi e industriosi, della quale il governo è il pastore».
All’interno di questo passaggio c’è tutto, o quasi, dei mali del nostro stato assistenziale. Il fatto è che, come rilevato da F.A. von Hayek, l’intervento statale produce assuefazione, crea dipendenza, dà vita a «un’alterazione nel carattere della gente». Il suo ombrello protettivo imbolsisce, deresponsabilizza ed esacerba la richiesta egoistica di protezione, per cui risulta ancora assai efficace la sentenza di F. Bastiat secondo cui «lo stato è la grande finzione per mezzo della quale tutti cercano di vivere a spese di tutti».
Più veniamo cullati da esso, più ne diventiamo schiavi. Più chiediamo aiuto, più sviluppiamo timore per i rischi e i fallimenti. Con il risultato che non siamo più in grado di tentare e, qualora usciamo sconfitti da una sfida, anziché fare autocritica, attribuiamo comodamente la colpa dell’insuccesso ad altri. Come ebbe a dire L. von Mises, «solamente attraverso la conoscenza di se stesso, egli deve imparare a sopportare il suo destino senza andare in cerca di capri espiatori su cui scaricare tutte le colpe», dove «egli» indica colui che non guarda «alla propria inadeguatezza», ai propri limiti, agli errori commessi, ma affibbia perennemente la responsabilità a qualcun altro.
Ricorda, per caso, qualche forza politica?
In sostanza, al fine di ritornare padroni del nostro destino – per quanto non lo saremo mai fino in fondo, come osserva Hayek – tornare a maturare responsabilità e, in definitiva, essere davvero persone adulte, gioverebbe affrancarsi dall’ausilio statale. Inoltre, andrebbe anche riconosciuto che ogni intervento centralizzato si riverbera sui propri piani individuali, ha un notevole costo opportunità, insomma. Per dirla con Bastiat, ciò che si vede è quello che lo stato (momentaneamente e illusoriamente) ci dona, ciò che non si vede è quello che lo stato ci toglie, non solo in termini di risorse economiche, ma, soprattutto, in termini di perdita di responsabilità, sicurezza in se stessi e, infine, libertà.
In altre parole, per tornare a essere veramente liberi, liberi di provare e fallire, liberi di progredire in seguito agli insuccessi e, così, sviluppare resilienza e fortezza d’animo, sarebbe bene ridurre i tentacoli dello stato.
Non sarebbe ovviamente indolore. Infatti, come disse Hayek, la libertà «con il diritto di scelta, comporta inevitabilmente anche il rischio e la responsabilità di siffatto diritto». Ma, nel lungo periodo ne usciremmo davvero cresciuti, responsabilizzati e migliorati.
E potremmo finalmente sviluppare i nostri propri io. «La natura umana non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di nascere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente», così si espresse J.S. Mill.
Ciascuno di noi può sviluppare l’albero peculiare che ha dentro solamente riscoprendo il sapore e il valore della libertà.
PhD candidate, Luiss Guido Carli, Roma. Tra gli interessi di ricerca: populismo, rapporto liberalismo/democrazia, pensiero liberale classico