Il titolo del libro è a dir poco ambizioso: Una breve storia del potere (Liberilibri, introduzione e traduzione di Lorenzo Castellani, pagine 164, euro 18). E lo è per i motivi che adduce l’autore stesso, Simon Heffer, che è uno storico e un affermato giornalista inglese (già vicedirettore del quotidiano “The Daily Telegraph” e del settimanale “The Spectator”): il perseguimento del potere è connesso allo stesso essere umano, e quindi a tutte le società e le civiltà che la storia ci presenta.
Attraverso una ammirevole padronanza della storia, con una capacità di sintesi notevole, Heffer individua quattro tipologie di motivi che muovono gli uomini e i popoli a cercare sempre più ampi spazi di azione o influenza per loro stessi, cioè il potere per l’appunto. Lo fa non con la rigidità intellettualistica del sociologo, portato a concepire i suoi schemi mentali come quasi fissi e immutabili, ma con la duttilità dello storico che sa che la vita effettiva degli individui e dei popoli è sempre più piena di significato di quanto i nostri schemi di comprensione possano permettere di contenerne. La storia, detto altrimenti, è sempre pronta a relativizzare o distruggere i paletti concettuali con cui ci orientiamo in essa.
I quattro motivi che secondo Heffer ci spingono a cercare il potere sono: 1) il territorio, 2) Dio e cioè la religione, 3) la ricchezza, 4) le idee o meglio l’affermazione di una ideologia. Nell’ottica dei valori che sorreggono la nostra civiltà, potremmo dire che due motivazioni sono “materiali”, il territorio e la ricchezza, e due “morali”, la religione e l’ideologia. Ove però Heffer sembra essere consapevole che anche ciò che è morale ci porta, attraverso la persuasione più che attraverso la forza bruta, a cercare il potere, a volere accrescere il nostro spirito vitale (coloro che fanno nascere o prendono in prestito delle idee “cercheranno sempre il potere per farle valere, o per imporle agli altri”).
Inutile poi dire che i quattro elementi non si trovano mai, nelle dinamiche storiche, presenti allo stato puro: sono sempre mescolati gli uni con gli altri (e ciò è evidente soprattutto nella storia del Novecento). Di nessuno di essi si può poi dire che sia superiore e più importante degli altri, come poteva essere il fattore economico nell’analisi marxiana. In modo carambolesco, ma mai superficiale, Heffer esemplica le quattro forme di potere passando con facilità dalla storia greca e romana a quella medievale e moderna, dal mondo occidentale alle altre civiltà (asiatiche, africane, precolombiane, ecc.). Lo fa con levità e senza manicheismi, con una sobrietà tutta inglese che si richiama costantemente ad una sorta di liberalismo realista che rifugge sia dalle utopie liberal sia da una chiusura astrattamente conservatrice rispetto ai cambiamenti, fra l’altro oggi sempre più repentini, delle coordinate del mondo e dello scenario globale.
Heffer è conservatore per il semplice fatto che ha un senso storico spiccato, che rispetta le tradizioni consolidate entro la cui cornice solamente può svolgersi un cambiamento civile, effettivo e non velleitario. Ma è altresì un “progressista” disincantato, se così si può dire, che non crede all’idea di Progresso: cioè crede, e vorrebbe che la storia ci aiutasse a comprendere, che la peggiore barbarie è sempre dietro l’angolo, che la civiltà si può perdere in un attimo e che bisogna perciò sempre essere vigili e attenti. Il Progresso non si dà qui né, ovviamente, nella formula illuministica, cioè in modo cumulativo e continuo, né in quella idealistica che vede anche nei regressi una crisi di crescenza che porterà la civiltà a superarli in sintesi più ampie.
Fra le grandi “filosofie della storia” emerse, soprattutto a livello mediatico, dopo la fine del comunismo, Heffer sembra prendere più sul serio quella dello “scontro di civiltà” di Samuel Huntington che non quella della “fine della storia” di Francis Fukuyama. Il problema è ovviamente soprattutto l’ostilità e aggressività del mondo islamico verso il nostro, che data dai tempi di Maometto ma che ha preso nuova forma e recrudescenza negli ultimi decenni. Anche se poi Heffer non è sicuro che sia solo la religione, e non anche un’ideologia, quella che muove gli islamisti radicali e i terroristi. Si tratterebbe, in questo secondo caso, dell’ “opposizione di principio all’America, sia come idea a sé stante sia come entità”. È questa “una delle grandi ideologie a livello mondiale”, che “deriva dalle vecchie dottrine anticapitaliste e antimperialiste”. Se così fosse, anche se l’autore di queste pagine non lo dice, l’islamismo sarebbe anche per questa parte più moderno che medievale, figlio anche esso di un mondo “occidentalizzato” se è vero come è vero che l’antiocidentalismo nasce come ideologia all’interno dello stesso Occidente.
Anche Heffer, come un’ampia lettatura odierna per lo più politologica e anglosassone, parla di una attuale “crisi dell’ordine liberale”. Egli però vede quest’ultimo insidiato non tanto dai movimenti che si è soliti chiamare “populisti”, ma dalla possibilità, sperimentata con successo soprattutto n Cina, ma con ampie imitazione un po’ in tutto il mondo, di unire autoritarismo e capitalismo, la libera intrapresa e il libero mercato con un forte controllo sui movimenti e la libertà delle persone. Forse anche per motivi temporali (l’edizione originale del libro è del 2011), nella parte dedicata all’oggi Heffer non tiene in conto dell’attuale “rivolta” contro le élites che sembra accomunare la vita politica un po’ in tutto il mondo occidentale. Né sappiamo quale giudizio l’autore abbia in altre sedi maturato in proposito. Attenendosi al suo liberalismo realista, e quindi non liberal, si può però abbozzare una risposta plausibile e di buon senso a questo problema. Sicuramente, da questo punto di vista, assistiamo a un fallimento dei vecchi gruppi dirigenti, ai quali è imputabile proprio un eccesso di utopia intellettualistica e razionalistica che li ha portati ad allontanarsi dai problemi e dalle esigenze della gente. Si è trattato di un agire e di un potere ideologico, anche se poi ad esso, per restare alla tassonomia proposta, si sono aggiunti fini di potere più materiali e terreni.
Il “populismo”, da questo punto di vista, lungi dall’essere, come è nella retorica liberal, un male o un cancro da estirpare e a cui opporre strenua resisenza, è forse null’altro che la confusa ricerca di nuovi equilibri di potere, di nuove idee e anche di una nuova classe dirigente che se ne faccia portatrice e che possa godere del consenso popolare (se è evidente come è evidente che il governo diretto del popolo è anch’esso una utopia). Che la risposta qui abbozzata non tradisca lo spirito di questo lbro, lo si può capire anche delle poche ma puntuali pagine di buon senso e realismo che l’autore dedica all’Unione Europea. Il progetto di unificazione viene catalogato sotto la categoria di “idealismo”: una “quasi utopia” che non tiene in debito conto delle diversità che la storia ha sedimentato fra i popoli europei ma che indubbiamente risponde all’esigenza di tenere unita quanto più possibile quella parte di mondo che, pur con tutte le sue differenziazioni interne, è legata da una comune civiltà che potremmo dire cristiana e liberale.
Il progetto europeo, osserva Heffer, è sorto nel secondo dopoguerra sull’onda di un’ideologia sovranazionalista che imputava al nazionalismo le due guerre mondiali e i totalitarismi. Il progetto si avvaleva poi, anche se Heffer non lo dice, del beneplacet degli Stati Uniti che avevano interesse a mantenere unito il blocco geopolitico che si opponeva al mondo comunista in quella “guerra fredda” che l’autore del libro non esita a definire, come in senso nobile certamente fu, una “guerra ideologica”. Ora, a parte le motivazioni storiche venute meno e a parte le degenerazioni burocratiche che il progetto ha avuto nel tempo, a me sembra rilevante considerare le riflessioni che, pur non riferendosi esplicitamente all’ideologia sovranazionalista che anima il progetto europeo, Heffer aveva fatto poco prima nel libro parlando delle “ambiguità del nazionalismo”. Il quale se da una parte può assumere, e spesso nella storia ha assunto, i connotati di una ideologia “deleteria”, dall’altra “può essere anche buono e assumere la forma d’un desiderio di autodeterminazione invece che di espansione”. La storia è piena di esempi, anche recenti, dell’uno e dell’altro tipo. Non solo!
Potremmo con facilità aggiungere che lo stesso liberalismo, per come si è affermato nell’Ottocento, cioè come costituzionalismo, divisione dei poteri e parlamentarismo, sarebbe del tutto inconcepibile senza il forte riferimento alla nazione e allo Stato-nazione come concreta forma politica di organizzazione della libertà individuale. Se ne può perciò dedurre che globalismo e nazionalismo, per sé presi, sono concetti “neutri” e passibili entrambi, come ogni idealità umana, di degenerazioni. Che, per caso, non è una possibile degenerazione autoritaria e illiberala l’utopia di uno Stato unico o mondiale, che facilmente evoca scenari di tipo orwelliano? È certo che, connesso al liberalismo, è un afflato morale e quindi universalistico, ma è pur vero che il pensiero realista ci ha insegnato che l’universale diventa concreto se si incarna in qualcosa di effettivo e reale. Lo Stato-nazione ha rappresentato, con tutti i suoi difetti e le sue degenerazioni, questo qualcosa.
In sostanza, il libro di Heffer vuole essere un richiamo a tener presente la costante più forte della storia e direi della natura umana: la ricerca del potere. Il quale se è la modalità in cui deve di necessità tradursi ogni nostra idealità, compreso il liberalismo, è d’altro canto anche ciò che deve portare la civiltà democratica occidentale, oggi in affanno e “sulla difensiva”, a non sottovalutare mai i propri nemici in nome di un’astratta idea di progresso o dell’utopia di un mondo pacificato e senza più conflitti. “Il primo passo in difesa della democrazia -afferma a ragione Heffer- deve essere quello di riconoscere che il desiderio altrui di far valere il proprio potere, per le proprie ragioni, è altrettanto intenso del nostro”.
Corrado Ocone, Il Dubbio 1 novembre 2018