“Il cielo d’Irlanda ha i tuoi occhi se guardi lassù, ti annega di verde e ti copre di blu”. Così cantava Fiorella Mannoia nel 1991, un poetico omaggio al paese della Guiness, divenuto uno dei brani più celebri della cantante romana.
Eppure, la Tigre Celtica non è soltanto il paese delle pinte di birra e della musica folk, del dubliner James Joyce e dei sempiterni nuvoloni plumbei che vigilano sulle praterie sconfinate. L’Irlanda è ormai da anni l’El Dorado verde di imprese e multinazionali, meta di pellegrinaggio di startupper da tutta Europa.
Colpita nel 2009 da una forte recessione economica come conseguenza dello scoppio della bolla immobiliare, l’Irlanda ha attraversato tre anni di forti sacrifici imposti dal programma d’austerità della Troika (il connubio Commissione UE, BCE e FMI occupatosi dei piani di salvataggio dei paesi dell’area euro a rischio insolvenza), delle cui catene si è liberata nel 2013, dopo essere stata inserita nell’infamante gruppo dei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), la cinquina dei paesi europei che più hanno risentito delle conseguenze della crisi economica globale.
Oggi, l’Irlanda è uno dei paesi al mondo con la più bassa tassazione d’impresa e uno dei più favorevoli allo sviluppo di business, grazie a un’aliquota del 12,5% sui profitti delle società, un credito d’imposta fino al 30% sulle attività di ricerca e sviluppo e una deduzione fiscale, al 12,5%, per spese in ricerca e sviluppo. Inoltre, è prevista un’esenzione fiscale di tre anni per le imprese di nuova fondazione.
Nel 2018, Enterprise Ireland, braccio operativo del governo irlandese, ha messo in palio 500.000 euro per le imprese intenzionate a stabilire il proprio business nel paese del trifoglio. Due anni prima, la stessa agenzia di sviluppo economico aveva investito 32 milioni di euro in startup. Grazie al lavoro di Enterprise Ireland, il governo irlandese è capace di generare ritorni economici di circa 60 milioni di euro l’anno, proprio per via degli investimenti in startup, rendendo l’Irlanda il sesto paese al mondo per investimenti esteri, una nazione che, oltretutto, vanta la popolazione più giovane d’europa (l’età media dei cittadini irlandesi è di 36 anni).
E l’Italia? Il Bel Paese, sfortunatamente, si colloca in una situazione diametralmente opposta rispetto al partner anglosassone. Secondo uno studio della CGIA di Mestre (Associazione Artigiani e Piccole Imprese), l’Italia è il penultimo paese in Europa per capacità di attrarre investimenti stranieri (peggio di noi, soltanto la Grecia). Secondo il rapporto “Paying Taxes 2020” realizzato da Banca Mondiale e PWC, la pressione fiscale sulle imprese in Italia si attesta al 59,1% ( a fronte di una media europea del 38,9%), mentre le ore impiegate per gli adempimenti fiscali risultano pari a 238 (a fronte di una media europea di 161). Basti solo pensare che l’IRES, ovvero l’Imposta sul Reddito delle Società, prevede un’aliquota del 24%, quasi il doppio dell’aliquota sui profitti d’impresa pagata dalle aziende irlandesi. Inoltre, l’Italia è il paese più “anziano” d’Europa (un cittadino su quattro ha più di 65 anni).
Ma non mancano duri attacchi al sistema fiscale irlandese. Secondo Roberto Rustichelli, Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), il dumping fiscale generato da partner UE come Regno Unito, Malta, Lussemburgo, Paesi Bassi e la stessa Irlanda causerebbe al nostro paese una perdita economica fino a 8 miliardi di dollari l’anno. Alla luce di ciò, resta da capire come sia possibile che un paese come la Francia il quale, pur non presentando particolari regimi fiscali caratterizzati da esenzioni e timide aliquote, esattamente come l’Italia, riesca, diversamente da noi, a far leva su un’economia domestica di grande scala, collocandosi al settimo posto al mondo (subito dopo l’Irlanda) per investimenti esteri.
Eppure, nonostante gravi problemi strutturali legati a una burocrazia scellerata, una tassazione da stato sovietico nonchè una generalizzata cultura anti-impresa, il nostro paese non è esattamente un deserto imprenditoriale. Al contrario, secondo la Coldiretti, nel 2018 sono state lanciate 300 imprese giovanili al giorno, un dato impressionante che rende i giovani italiani i più intraprendenti d’Europa. Allo stato attuale, le startup iscritte al Registro delle Imprese equivalgono alle 10.630 unità, per un valore della produzione di circa 1,2 miliardi di euro.
Insomma, i dati parlano chiaro: il tessuto imprenditoriale italiano è ancora vivo e vegeto, e il nostro paese può ancora contare su estro, creatività, innovazione e intraprendenza, qualità che lo hanno reso una delle nazioni più ricche del mondo.
Ma è il momento di costruire un ponte di comunicazione tra politica e impresa, una finestra di dialogo e confronto tra realtà partitiche di ispirazione liberale e social-liberale e giovani imprenditori e startupper, per fare in modo che questi ultimi vengano messi nelle migliori condizioni per lavorare e fare business in Italia, senza essere costretti a emigrare altrove per ricercare ricchezza e riconoscimenti.
E’ il momento di ridurre una pressione fiscale che fa scappare capitali all’estero e scoraggia la libera iniziativa economica, diritto fondamentale di qualunque democrazia liberale. In questo, il modello irlandese, forte di numeri incoraggianti che ne attestano l’estrema l’efficacia, può sicuramente insegnarci qualcosa.