La filosofia è una disciplina, o un’attività umana, che è portata per sua natura a riflettere su sé stessa, a chiedersi cosa essa sia. Riflettere, appunto, significa piegarsi su di sé, prendere ad oggetto di pensiero lo stesso pensare. Un’idea che in qualche modo è sottesa, pur con significativi slittamenti semantici e concettuali, anche in termini come “speculativo”, che rimanda proprio alla nostra immagine riflessa in uno specchio; “autocoscienza”, che non indica il semplice essere coscienti di qualcosa ma di sé stessi come coscienti di ciò; o “teoretico”, che non è ciò che normalmente definiamo teorico o concettuale. Riflettere su sé stessi significa anche autodeterminarsi, cioè stabilire i limiti della propria attività rispetto alle altre. La filosofia si specifica perciò come diversa da ogni altra attività, anche di pensiero, proprio perché specula, riflette, è autocosciente e teoretica.
Chiedersi cosa sia la filosofia è già fare filosofia. Ed è una domanda, implicita in ogni opera filosofica, diventando poi esplicita quando, in pochi casi, i filosofi ne fanno oggetto di libri, discussioni, conferenze. Questa volta tocca a Donatella Di Cesare, che oltre a insegnare Filosofia Teoretica alla Sapienza, gode ultimamente di una ottima visibilità mediatica. La Di Cesare non chiama il suo libro, come pure avrebbe potuto, “Cosa è la filosofia?”, ma, nel titolarlo, preferisce già dare una indicazione di quella che, alla fine di un rapido e denso percorso storico e teoretico insieme, sarà la sua risposta: Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri, pagine 179, euro 15). Ed in verità è proprio questa risposta, che viene esplicitamente affermata all’inizio del volumetto e ribadita poi nei capitoletti finali, a destare non poche perplessità. Non perché la filosofia non possa dirsi anche, in lato senso, politica, nel senso se non altro che ragionare sull’uomo è già immetterlo in una serie di relazioni interindividuali, ma perché, a mio avviso, la risposta dell’autrice è viziata in origine, come quella di molti fra coloro che praticano oggi filosofia in Italia, da un pregiudizio tardomarxista e tardonovecentesco che assegna alla disciplina non un compito di comprensione (sempre parziale e precaria) della realtà, di orientamento in essa, ma di trasformazione, o cooperazione alla trasformazione, della stessa. È evidente che, in quest’ordine di discorso, che accomuna oggi anche pensatori molto diversi fra loro, il nemico che la filosofia deve contribuire ad abbattere, per adempiere al suo compito, è il tardo o “turbocapitalismo” che, secondo questa interpretazione, pervaderebbe e dominerebbe le nostre vite.
Ne consegue una visione del presente e del futuro catastrofica, preoccupata, ansiogena, quasi senza un filo di speranza e ottimismo. ”Il mondo del turbocapitalismo è quello del collasso ecologico planetario”. E ancora: “il mondo dell’immanenza satura è quello del regime capitalistico-globale, lo spazio claustrofobico dove si oscilla tra il non evento del fluire liberaldemocratico e l’imminente collasso planetario”. Occorre quindi, in quest’ottica, recuperare la trascendenza e contrastare l’ “immanenza satura” del nostro mondo. Come se la trascendenza non facesse oggi già abbondantemente capolino nei mille miti, ideologie, sovrastrutture che popolano la nostra vita quotidiana e sociale, a cominciare direi proprio da quella che imputa ad un mai ben definito “sistema capitalistico” la perdita di una nostra presunta “autenticità”! E come se il primo conformismo da combattere non fosse proprio quello che porta a stigmatizzare il capitalismo e il liberalismo senza prima averli ben compresi né definiti! La trascendenza da ristabilire è comunque, per Di Cesare, in primo luogo quella della filosofia, cioè del pensare dei dotti, o di chi si eleva ad essa.
Riemerge qui il mito (fra l’altro storicamente fallimentare e tragico) della “superiorità” del filosofo, dell’uomo veramente colto che guarda le cose da un angolo prospettico “superiore”, appunto, e indica agli altri la via da seguire. La filosofia è, per l’autrice di questo libro, un essere svegli ma tenendo ben viva la dialettica della luce del giorno con quella del buio della notte. Con troppa luce infatti si rimane accecati, si cade in quell’essere svegli non da vigili ma da “sonnambuli” che caratterizzerebbe a suo dire l’epoca attuale. Un’epoca fatta di mille luci che, invano, vorrebbero rendere tutto trasparente e mostrare che tutto, a cominciare dalla vita, è sotto controllo o può essere facilmente messo sotto controllo da forze più o meno poliziesche.
È alla lezione di Platone-Socrate, e prima ancora a quella di Eraclito, che Di Cesare si richiama, contestando di punto in bianco ogni interpretazione “liberale” (mi riferisco soprattutto a quella di Karl Raimund Popper) del platonismo come incipiente totalitarismo. D’altronde, Di Cesare contesta la categoria stessa di totalitarismo finendo per ritenere, in sostanza, che il comunismo sia stato meno malvagio (se non altro nelle intenzioni) del nazismo e anche del fascismo. Nega l’idea, pure oramai acclarata, non solo delle affinità ma anche della comune origine delle ideologie novecentesche rosse e nere. Una impostazione molto comune fra i nostri intellettuali, quasi a segnare un divorzio fra la storiografia e il restante mondo della cultura. Ma tant’è!
Detto questo, il libro, nella parte centrale, delinea con molta chiarezza, e anche in modo condivisibile, la particolarità della filosofia, soprattutto rispetto alle scienze empiriche e al pensiero basato su elementi quantitativi e astratti. Una giusta critica, quella di Di Cesare, a molto positivismo che inficia la nostra cultura e vita e che, a mio avviso, lungi dal rappresentare la civiltà liberale dell’Occidente (all’autrice di queste pagine in fondo invisa) ne esprime la crisi attuale. Condivisibile pure la critica alla filosofia analitica, che ha conquistato anche in Germania, e non solo nei paesi anglosassoni, l’egemonia accademica e che propriamente filosofia non è proprio per l suo essere astratta e non speculativa. Condivisibili ancora le critiche al pensiero di di Jurgen Habermas con il suo “richiamo solerte a una razionalità di basso profilo che si dispiega nell’immanenza”. E anche, e direi soprattutto, quelle al pensiero di John Rawls e in genere al normativismo. “Sebbene al suo interno abbiano prevalso le coerenti analitiche più ortodosse, la filosofia normativa si è affermata in ampi settori dall’etica (nei suoi diversi rami, bioetica, etica applicata ecc.) alla teoria della giustizia, al dibattito sui diritti. Ne compendia modalità, contenuti, intenti, il liberalismo politico, nella versione paradigmatica offerta da Rawls, che si avvale di esperimenti mentali. Ogni questione viene depoliticizzata, mentre prevale un approccio tutto interno, morale o moralistico. Qui si presuppone quel che dovrebbe essere invece tema di riflessione critica. Anziché interrogarsi sull’asimmetria, si prendono le mosse da una simmetria ideale tra gli individui liberi e uguali”. Ottimo, ma qui si identifica, in maniera a mio avviso assolutamente non corretta, il pensiero liberale con quello liberal, pregno di metafisica e sostanzialmente illiberale.
Meno convincente la critica di Di Cesare al “liberalismo ironico” di di Richard Rorty, e decisamente ingenerose quelle a Hannah Arendt (soprattutto sull’elaborazione come detto del concetto di “totalitarismo”) e a Hans George Gadamer (il cui pensiero viene bollato come “heideggrismo liberale”). Giusta anche la critica all’anarchismo classico, basato su un concetto astratto e sostanzialistico di individuo e alla ricerca in definitiva di un archè metafisica su cui ancorare il pensiero e la vita. “Si tratta invece, muovendo dalle molteplici e differenti forme che l’anarchia va prendendo nello scenario contemporaneo, di articolare un altro anarchismo. In un’epoca in cui lo Stato, minato nella sua sovranità, cerca di controllare e saturare ogni spazio politico, è necessario volgere lo sguardo non all’esterno dei confini, ma anche all’interno del suo territorio, nei luoghi e nei tempi interstiziali che si aprono. Poiché la politica è una domanda di giustizia, occorrerà articolare un anarchismo della responsabilità”.
Ora, è proprio questa idea della politica come “domanda di giustizia”, e non come lotta per il potere e dispiegamento dei rapporti di forza, che crea non pochi problemi a tutto l’impianto di pensiero sotteso a questo pur utile libro. La giustizia è infatti di pertinenza della morale, mentre la politica, se non vuole essere velleitaria o demagogica, deve dispiegarsi nulla più, appunto, che come l’eterno conflitto che è proprio del mondo vitale umano. Confondere i due ambiti porta la politica a proporsi fini palingenetici, per quanto possano essere anarchicamente atteggiati, e la morale a esteriorizzarsi e a porsi fini eteronomi e non contestualizzati. Da questa confusione, ne esce malconcia la stessa filosofia, costretta a spezzare quel nesso che, nella comprensione, lega le parti del mondo e a farsi per ciò stesa partigiana. Il carattere disinteressato e non utilitaristico che le è proprio, e che è rivendicato anche da Donatella Di Cesare, si corrompe e con esso si corrompe anche quella libertà che per librarsi non può sopportare altri fini che non siano quelli che già trova ogni volta in sé. La vocazione della filosofia è contemplativa non politica, è questa la “verità” più importante e da non dimenticare che ci ha consegnato la filosofia classica.
Corrado Ocone, Il Dubbio 5 dicembre