Miriam Mafai scriveva nel 1996, in Dimenticare Berlinguer, che il leader comunista intese la politica come abnegazione e sacrificio, in un momento in cui i cittadini avevano perso fiducia nei partiti. In quel clima, Enrico Berlinguer incarnò un esempio di eccezionalità, ma proprio “perché è entrato nel mito”, proseguiva Mafai, è così difficile fare i conti con la sua eredità e parlarne oggi, “senza apparire quasi blasfemi”.
Questi temi riaffiorano nel film di Andrea Segre, Berlinguer. La grande ambizione, che, come dice lo stesso regista, non ha un intento ideologico o agiografico. Vuole proporsi piuttosto come un’occasione di confronto fra quanti, come lui ed Elio Germano (che interpreta Berlinguer), guardano a distanza quella stagione politica e quanti hanno concretamente vissuto quei momenti. Il film consente di accostarsi alla figura di Berlinguer con un atteggiamento critico e con un occhio rivolto al presente, in cui il regista rileva forme di disuguaglianza sempre più diffuse, a causa di orientamenti politici condizionati esclusivamente da ragioni economiche.
Gli avvenimenti si svolgono in un arco di tempo che, dal golpe cileno del 1973, giunge al 1978, l’anno dell’assassinio di Aldo Moro. Gli anni Settanta segnarono il declino dei “trenta gloriosi”, in cui, dopo la II guerra mondiale, lo stato sociale di mercato aveva coniugato capitalismo e giustizia sociale. La crisi economica successiva portò con sé l’erosione del compromesso socialdemocratico e del welfare.
In quella stagione di instabilità politica, il Pci si trovò a dover rivedere le proprie strategie. L’esperienza cilena dimostrava ampiamente come non sarebbe stato possibile tradurre il consenso elettorale, che nel 1976 andò al di là del 33%, in responsabilità di governo, anche unendo tutte le forze progressiste. Nonostante le regioni e le città amministrate dalla sinistra fossero spesso additate come esempio di buongoverno, permaneva sempre quel “fattore K”, indicato da Alberto Ronchey in un articolo sul Corriere della sera del 30 marzo 1979, che impediva l’accesso al governo a un partito di ispirazione marxista-leninista. Nella formula di Ronchey riecheggiava la tesi di Giovanni Sartori, che, come ha sottolineato Gianfranco Pasquino in La libertà inutile, aveva definito il Pci partito antisistema, in quanto, con la sua impostazione ideologica, si contrapponeva ai principi della liberaldemocrazia e del libero mercato.
Il comunismo, che il Berlinguer di Segre vede sempre schierato a difesa di tutte le libertà e contro ogni forma di sfruttamento, aveva in realtà preso forma in regimi autocratici, in cui le libertà erano tutt’altro che tutelate. Questa contraddizione attraversa tutto il film, tratteggiando la drammaticità delle scelte di Berlinguer, nell’ambito della politica italiana e dei rapporti con l’Unione Sovietica.
Berlinguer rifiutò sempre la “conversione” socialdemocratica e immaginò di aggirare il “fattore K” cercando un punto di incontro con la DC di Aldo Moro, al fine di realizzare un’alleanza fra le forze popolari più rappresentative del paese che consentisse al Pci di assumere responsabilità di governo.
La vicenda politica ed esistenziale di Berlinguer esprime la difficoltà di mantenere la specificità del Pci entro una linea politica, il compromesso storico, che doveva fare i conti con la DC, rappresentata da Aldo Moro ma anche da Giulio Andreotti. Bisognava inoltre tener conto dei contrasti interni al partito, in cui la destra migliorista era vicina alla socialdemocrazia, mentre la sinistra ingraiana mostrava un’ispirazione operaista. Quando la lotta politica divenne cruenta, la statura morale di Berlinguer emerse con chiarezza. Condannò infatti gli estremisti e prese decisamente le distanze da chi assunse un atteggiamento ambiguo verso il partito armato.
La decisione di elaborare una linea autonoma, senza spezzare del tutto il legame con Mosca, non poteva che portare con sé dilemmi e lacerazioni, e non solo nelle dinamiche interne. Berlinguer, che aveva dimostrato la sua rigorosa ortodossia comunista anche dinnanzi alla feroce repressione della rivoluzione ungherese del 1956, attirava adesso dei sospetti presso il rigido apparato sovietico. L’attentato del 3 ottobre del 1973 in Bulgaria gli fece comprendere drammaticamente che le sue prese di posizione apparivano al Cremlino pericolosamente eretiche. Questa consapevolezza acuì un senso di solitudine, che si percepisce in molte situazioni rappresentate nel film, in cui la dimensione umana e la tensione etica di Berlinguer assumono particolare rilievo.
Il compromesso storico rappresentava, sotto molti aspetti, la prosecuzione di un percorso di avvicinamento del Pci alle istituzioni democratiche, un percorso che si era interrotto nel 1947 e poteva adesso giungere a conclusione. La proposta berlingueriana metteva però in luce la totale incapacità del Pci di costruire una reale alternativa alla DC. L’urgenza di uscire da una situazione di stallo prevaleva infatti sull’esigenza di accettare una dialettica dell’alternanza e la proposta del compromesso storico, con il suo spirito assembleare, allontanava la possibilità di una Bad Godesberg italiana. Nel 1972, eletto segretario del Pci, Berlinguer affermava, nella sua relazione, che le forze popolari e antifasciste, in un momento di crisi generale del capitalismo, avrebbero dovuto dar vita a un governo che andasse al di là del centro-sinistra, per condurre il paese “verso una società socialista”. Erano qui poste le premesse, e le contraddizioni, del compromesso storico che, trovò poi una più ampia esposizione nell’autunno del 1973 sulle pagine di Rinascita. L’impraticabilità dei disegni di Berlinguer, difficilmente condivisibili dalla DC, e l’inevitabile rottura con i socialisti, trasformò poi la grande ambizione del Pci in una altrettanto grande illusione, nel momento in cui il partito sostenne i governi di solidarietà nazionale, dal 1976 al 1979. Le ambiguità dell’eurocomunismo, che avrebbe dovuto ambiziosamente rappresentare una “terza via” non solo tra USA e URSS, ma anche tra socialismo reale e socialdemocrazia, emersero quando all’accettazione dell’appartenenza dell’Italia alla Nato non seguì la decisione di dichiararsi apertamente autonomi da Mosca.
Il 28 luglio del 1981, in una intervista rilasciata a Eugenio Scalfari su Repubblica, Berlinguer dichiarava in realtà di rifiutare i modelli del socialismo reale e la rigidità della pianificazione economica. Non si mostrava ostile verso l’economia di mercato, ma precisava che l’iniziativa individuale e l’impresa privata non potevano funzionare “sotto la cappa di piombo” della DC e “dentro le forme capitalistiche”. Bisognava allora discutere “in qual modo superare il capitalismo”, a cui attribuiva la responsabilità non solo della crescente disoccupazione, ma anche “di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione”. Come l’iniziativa individuale dovesse configurarsi al di fuori del capitalismo, considerato peraltro responsabile di ogni male, tanto sul piano individuale quanto sul piano sociale, risultava decisamente poco chiaro. Già dopo il referendum sul divorzio, Berlinguer aveva mostrato la sua preoccupazione per la diffusione della spinta libertaria, che “rischiava di portare la nostra società al decadimento morale e sociale”. Il tono antimoderno di queste dichiarazioni esprime una condanna morale prima che una valutazione politica. A quelli che considerava i disvalori delle democrazie liberali, Berlinguer contrapponeva “il clima morale superiore” dei paesi socialisti, additati come esempio per le forze progressiste che intendevano superare le ingiustizie del capitalismo. La sua analisi, che aveva sicuramente il valore di un’alta testimonianza politica ed esistenziale, non coglieva come la crisi fosse in atto proprio nei paesi socialisti, che da lì a poco sarebbero implosi, mentre il capitalismo avrebbe conosciuto una delle sue tante rinascite, venendo adottato, spesso maldestramente, da molti suoi antichi nemici.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.