Il mondo si è rimesso in movimento. Si è messo a correre, anzi. Ciò che più ci sconvolge però è che non solo non avevamo previsto la direzione della fuga, ma, più radicalmente, il movimento ci sembra andare a ritroso. In fondo, diciamocela tutta, i nazionalismi e i protezionismi, almeno nella mentalità colta e media del nostro Occidente, erano apparsi, a un certo punto, non delle semplici opzioni politiche, ma dei lasciti del tempo passato, che potevano certo avere qualche colpo di coda ma che erano stati inequivocabilmente superati dalla storia e dalla civiltà.
Chi, in un mondo interconnesso o globalizzato, avrebbe potuto ancora sentirsi attaccato a entità come la nazione o la patria, ideali che avevano raggiunto il loro acme fra Otto e Novecento, e che erano poi drammaticamente implosi dopo due cruente guerre mondiali?
È l’idea che si trova al fondo, ad esempio, del Manifesto che Rossi e Spinelli scrissero nel 1941 al confino di Ventotene, in cui prospettarono gli Stati Uniti d’Europa come risposta alla “crisi della civiltà europea” generata dai nazionalismi, arrivando ad auspicare addirittura uno Stato unico mondiale secondo le kantiane idee cosmopolitiche e di “pace universale”?
In Italia, caduto due anni dopo il fascismo, sarebbe “morta” anche la patria e le due nuove forze che sarebbero presto divenute i principali punti di riferimento politici, la cattolica e la comunista, avrebbero avuto come faro la prima un’ideologia internazionalista, basata sulla classe e non sulla nazione, e la seconda l’ideale universalistico e morale del cattolicesimo. Decenni di crescita e sviluppo, di benessere e welfare, avrebbero poi fatto il resto, facendoci quasi credere, a un certo punto e fino a ieri, che ineluttabilmente si procedesse lungo la via voluta dalla storia, quasi che essa non fosse il risultato, per lo più non intenzionale, delle nostre azioni, imprevedibili e libere per definizione.
La vecchia ideologia illuministica del Progresso, diventata nell’Ottocento un rigido necessitarismo storico, sia pure malconcia da un punto di vista teorico, e anzi decostruita dai più fini intellettuali europei, ritornava a vivere, nel secondo dopoguerra, nel nostro inconscio, nello spirito comune non solo italiano ma occidentale (e tendenzialmente mondiale). Sapevamo in fondo, come i vecchi marxisti, o credevamo di sapere, “dove va la storia” e “dove va il mondo”, e non volevamo stare “dalla parte sbagliata”. Le tappe che raggiungevamo non erano provvisori punti di approdo del nostro percorso, non erano il riflesso della mutevole e storicamente collocata coscienza comune, ma “conquiste”, “diritti inalienabili”, che come tali, non potevano essere messi in discussione.
Quante volte, ancora oggi, ci tocca sentire l’affermazione che “sui diritti non si può tornare indietro”, quasi essi fossero qualcosa che da sempre stava lì fuori e aspettasse solo che noi la si riconoscesse. E quasi come se essi fossero cumulativi e tendenzialmente infiniti. Senonché, ad un certo punto, le cose si son messe a girare diversamente: la libertà, che è la cifra della storia umana, ha cercato altre vie. Altre “narrazioni” hanno così preso il sopravvento, o almeno hanno conteso il campo a quella progressista, che si era col tempo irrigidita nelle astrattezze del multiculturalismo e del “politicamente corretto”.
In questa nuova temperie, nel nuovo “spirito del tempo”, rifanno oggi capolino vecchi concetti, quasi a dimostrare che essi rispondono a esigenze profonde dell’essere umano ed era stato sbagliato, anzi stupido, bollarli come residui del passato, di una “mente primitiva”.
È in questo contesto, in quest’ordine di discorso, che va collocato, a mio avviso, il ritorno (ma in verità non erano mai morti) di più o meno forti nazionalismi e protezionismi. Certo, essi indicano “chiusura” e non “apertura”, ma solo chi ha una mente poco addestrata filosoficamente, o filosoficamente fallace (la mamma dei positivisti vecchi e nuovi è sempre incinta), può pensare che “chiusura” e “apertura” siano degli assoluti, anche e soprattutto morali, e non i termini di un’eterna dialettica storica. Così come polarità della dialettica umana sono l’io e il noi, l’individuo e la comunità.
Ora, sembra giunto il tempo di un “noi” riscoperto, ma non era nemmeno ieri che il predominio dell’io era stato così radicale da portare l’io stesso a implodere: a liquefarsi, ad esempio, nelle teorie del gender. Certo, il cambiamento radicale di paradigmi a cui assistiamo ci sorprende a causa della pervasività che l’idea del Progresso ha avuto, in un’epoca di mass cult ma anche di mid cult (per dirla con Macdonald) come la più recente.
Tuttavia, forse, ci troviamo oggi di fronte a non altro che alla riproposizione, ovviamente sotto rinnovate forme, della classica lotta fra illuminismo e romanticismo politico che da tre secoli, con alterne oscillazioni del pendolo, è il leit motiv della politica in senso lato europea. Messi da parte gli estremismi, credo che il momento “romantico” possa dare più garanzia a un liberale.
Sia perché l’ideologia del Progresso, fra l’altro foriera di tragedie storiche, comprime troppo la libertà umana, sia perché l’individuo liberale va concepito non disincarnato ma immesso in una rete di relazioni storiche e reali. Più che a un “tramonto del liberalismo” (ultimamente nella pubblicistica la retorica del declino la fa da padrone), assistiamo oggi, forse, solo alla fine (parziale) dell’ideologia liberal, cioè dell’ultima versione dell’illuminismo politico.
Articolo pubblicato su “Formiche” n. 138 (luglio 2018) con il titolo Il liberalismo è un antidoto ancora valido