Cruijff e Spinoza, perché calcio e filosofia vanno a braccetto

Chissà quante volte, guardando una partita di pallone, avete pensato che il calcio è una rappresentazione della vita.

Ora la vostra intuizione ha la sua dimostrazione. Infatti, è vero che Jean-Paul Sartre amava dire che «il calcio è la metafora della vita», ma è tempo di capovolgere la frase del filosofo de L’essere e il nulla per dire che la vita è la metafora del calcio. Perché quando tra amici e persino nemici si danno quattro calci a un pallone, in gioco vi è nientemeno che la condizione umana.

Il calcio ci fornisce la chiave di volta per capire la nostra libertà. I regimi totalitari del ‘900 – la Germania nazionalsocialista di Hitler, l’Unione sovietica di Stalin, l’Ungheria del socialismo reale di Ràkosi – usarono il calcio per dimostrare la superiorità delle loro dittature sul mondo libero e capitalistico ma persero la partita perché non capirono che il controllo assoluto del pallone è la fine del gioco, come il controllo assoluto della vita è la fine della libertà.

Johan Cruijff, il Pelè bianco, è stato un grande calciatore olandese ma anche un grande filosofo come il suo connazionale Spinoza. Si deve proprio a Cruijff la migliore definizione del calcio: «Il calcio è saper ricevere la palla e saper passare la palla». Lo possiamo dire con una formula: il calcio è controllo e abbandono. Per poter giocare, infatti, è necessario controllare la palla. Tuttavia, è questa solo la prima regola alla quale segue la seconda: la palla va abbandonata, passata, calciata, insomma va giocata.

La definizione di Cruijff ci dà quell’intelligenza della vita che lo stesso Spinoza intuì solo geometricamente: la vita, proprio come il pallone, va controllata e abbandonata. Il controllo finalizzato a se stesso va bene per la caserma o per l’ospedale ma nessuno di noi vuol vivere in una caserma o in clinica. La filosofia, come sapere della vita, si basa su regole calcistiche: non solo per filosofare è necessario mettere la vita in gioco ma per vivere liberamente bisogna prendere atto che nessuno – uno Stato, un Partito, una Chiesa, un Intellettuale – può essere il padrone assoluto della Vita e del Pallone, altrimenti non si può vivere, non si può giocare.

Il calcio è un fenomeno anti-totalitario che mette in fuori-gioco il potenziale totalitario che è insito nel rapporto tra politica e verità. C’è sempre qualcuno che vuole mettere le mani sul pallone o per cancellare la partita o per giocare con la pretesa di avere la vittoria in tasca. È accaduto in passato ma è successo anche ieri.

L’Argentina di Messi avrebbe dovuto giocare un’amichevole con Israele a Gerusalemme ma dopo le proteste e le minacce dei palestinesi la partita non è stata disputata. A dimostrazione che il calcio è un gioco pericoloso. Infatti, se il calcio è praticato in un regime democratico, è ciò che tutti considerano semplicemente un gioco, uno sport, un divertimento. Se è praticato in un regime dispotico rivela la sua carica umana. Se è praticato in un regime totalitario diventa a tutti gli effetti un gioco pericoloso.

Messi doveva scendere in campo. Doveva giocare. Perché aveva ragione Bill Shankly, grande allenatore del Liverpool, quando disse: «Alcuni pensano che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. È molto, molto di più». Il «molto di più» è la critica del potere che non solo si pensa ma si vede anche in atto – in gioco – guardando una partita di calcio.

Perché il gioco non ha padroni e nasce solo là dove c’è pluralità ed esperienza dei singoli giocatori. Solo chi è ridicolamente affetto da un delirio di onnipotenza può credere di controllare il gioco. Ecco perché Vladimir Putin, che una certa propensione al controllo totale ce l’ha, non sa che diavolo si è messo in casa con i Mondiali di calcio.

L’affinità che c’è tra calcio e filosofia trova la sua spiegazione nel tentativo, a volte disperato, dei filosofi di coniugare verità e libertà. Il calcio, come si è visto con il profeta del gol Cruijff, ha da sempre in sé questo segreto. Ecco perché i filosofi, da Heidegger a Derrida, da Wittgenstein a Merleau-Ponty fino a Giovanni Paolo II che giocava in porta con gli ebrei, amano il calcio, amano giocare.

 

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