Cosa si cela dietro l’attacco delle toghe all’abrogazione dell’abuso di ufficio

Non appena la Camera aveva dato il via libera definitivo al Ddl Nordio – il quale, come noto, conteneva come previsione caratterizzante l’abrogazione del reato di abuso di ufficio – l’Associazione Nazionale Magistrati era scesa sul sentiero di guerra. È “una piccola amnistia per i colletti bianchi” aveva tuonato il Presidente del Sindacato della Corporazione Giuseppe Santalucia.
Al togato proclama di battaglia aveva, ovviamente, fatto seguito il solito ossessivo tam-tam del giornalismo embedded, il quale da mesi va lamentando la solitudine del cittadino indifeso di fronte ad ogni sorta di abuso e prevaricazione.
Non sorprende quindi che – guarda caso, da quel processo di Bibbiano che tanto ha appassionato il circuito mediatico-giudiziario – sia partito l’attacco finale delle toghe alle scelte del Legislatore. La PM del processo sui presunti affidi illeciti “Angeli e demoni” ha, infatti, richiesto al Tribunale di Reggio Emilia di sollevare la questione di costituzionalità. Secondo il magistrato, la norma che cancella l’art. 323 del codice penale sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, che sancisce l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, con l’art. 24, in quanto lascerebbe i cittadini privi di tutela di fronte alle condotte abusive dei pubblici ufficiali, e con l’art. 117, poiché la norma sarebbe asseritamente in contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Il Tribunale emiliano dovrebbe pronunciarsi sul punto il 16 settembre.
La questione appare di scarsa rilevanza pratica.
Innanzitutto nel processo sugli affidi, in quanto non si vede come la Corte Costituzionale possa accogliere una questione di legittimità che finirebbe per applicare retroattivamente una norma più sfavorevole determinata dalla stessa Corte Costituzionale; a tal proposito, l’argine posto dagli articoli 2, comma 2, del codice penale e 25, comma 2, della Costituzione appare invalicabile.
Ma pure in ordine alla stretta questione di legittimità, sebbene non vi sia dubbio che le sentenze costituzionali n. 148/1983, 394/2006 e 5/2014 non escludono un intervento di illegittimità costituzionale in peius – persino laddove volto a resuscitare una fattispecie penale abrogata – il Pubblico Ministero non appare avere molta tela da tessere, poiché proprio quei precedenti giurisprudenziali ci indicano che la verifica di costituzionalità di fatto deve limitarsi alla ricognizione della correttezza del percorso legislativo che ha condotto all’abolizione. Anche perché, sull’intera vicenda, pesa il via libera chiaro e definitivo dato dal Consiglio UE dei 27 svoltosi a giugno scorso che ha con chiare parole accolto l’ipotesi di rendere facoltativo e non più obbligatorio il mantenimento del reato di abuso di ufficio, anche alla luce dell’introduzione, con il DL carceri, del nuovo reato di peculato per distrazione, proprio al fine di assolvere gli impegni assunti dall’Italia con il recepimento della direttiva cosiddetta Merida contro la corruzione, introdotta nel nostro ordinamento con legge 116/2019.
Se la rilevanza giuridica della questione appare, pertanto, tutto sommato limitata, di contro notevole è il significato politico della questione: appena la norma è entrata in vigore, immediata è giunta la reazione tesa a rivendicare la sopravvivenza del controllo inquirente sulla discrezionalità dei pubblici funzionari.
La magistratura italiana non fa un passo indietro nella propria pretesa di sostituirsi al Legislatore. A tal proposito, l’iniziativa che parte dal processo di Bibbiano pare ascrivibile ad una sorta di dichiarazione-manifesto il che non appare certo sorprendente, avendoci l’Associazione Nazionale Magistrati abituato a giudicare con la matita blu non solo le norme approvate dal Parlamento, ma addirittura quelle in discussione. Ciò produce, non da oggi, una costante svalutazione della autorità del Legislatore.
Al netto dei manifesti, ben più pericoloso, però, appare il costante picconamento dell’autorità, non del Legislatore, bensì della Legge. Nel silenzio della quotidianità, infatti, è diffuso ampiamente il fenomeno dei giudici-legislatori, che con una miriade di sentenze cosiddette “creative” superano la cornice dei significati ragionevolmente attribuibili al testo della legge stessa; insomma, sotto il mantello dell’interpretazione si cela la creazione di una nuova disposizione. Va da sé che per questa via diventi lettera morta l’art. 101, comma 2, della Costituzione, che prevede la soggezione del giudice alla sola legge, dal momento che il giudice appare ormai vincolato non tanto alla legge quanto alla interpretazione che della stessa ha dato un suo collega.
Siamo, quindi, in presenza di una manovra che potrebbe definirsi a tenaglia: abituale svalutazione dell’autorità del Legislatore e progressiva svalutazione dell’autorità della Legge. Insomma, abbiamo un problema, anche se a Bibbiano anziché a Houston, ma nessuno pare accorgersene.

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