Aspettando… un nuovo magistrato

«L’errore italiano è stato quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo» (C. Davigo).

Esempi, iperboli, metafore, guizzi intellettuali sono formidabili ordigni retorici, ma non sempre assurgono a principi di verità, storica o giuridica. Ce ne rendiamo subito conto a volere ipotizzare un altro caso: in pieno giorno cento persone testimoniano di avere visto un uomo mentre, a distanza ravvicinata, con una pistola sparava ripetutamente mirando al capo di un clochard adagiato sulla panchina di un parco pubblico. Bisogna “aspettare la sentenza”? Certamente sì, perché l’autopsia può rivelare se, prima degli spari narrati dai testimoni, il clochard fosse già deceduto ovvero fosse stato ucciso da un’altra arma.

Ma torniamo alla metafora orami famosa di Davigo. Se mi accorgessi che il mio ospite nel corso del pranzo avesse  sottratto le mie posate non solo difficilmente reitererei l’invito a pranzo, ma soprattutto avrei il diritto di invocarne la condanna; ma a questo scopo dovrei inevitabilmente “aspettare la sentenza”. Da qualche millennio ormai, infatti, Giustizia e potestà punitiva spettano alla Stato, e precisamente (da qualche secolo) all’Ordine giudiziario.

Di tutto ciò è sicuramente ben avvertito il dott. Davigo. Il suo messaggio va dunque correttamente interpretato. Egli intende più propriamente richiamarci ad una spontanea legalità diffusa e proattiva, senza la quale l’Ordine giudiziario resta sostanzialmente impotente, perché altrimenti occorrere (come diceva Carnelutti) che Carabinieri e Magistrati fossero in numero superiore a quello della popolazione. In teoria generale si chiama principio di effettività dell’ordinamento giuridico: perché esso correttamente funzioni è necessario che la maggior parte dei cittadini si adegui spontaneamente alla legge democraticamente emessa e se ne faccia paladino. Pertanto, se i dirigenti di un partito politico o di una istituzione pubblica abbiano sicura evidenza di un abuso o di un illecito maneggio, dovrebbero intanto essi stessi espellere le “mele marce”, senza attendere che lo faccia l’apparato punitivo. Il che ovviamente – giova aggiungere – vale a maggior ragione per la Magistratura e i magistrati. Soltanto in questo senso è plausibile affermare che fisiologicamente non dovrebbe essere necessario attendere la sanzione della sentenza (penale o disciplinare), per fare cessare l’illiceità di una condotta. In verità, com’è persino lapalissiano, se magistrati, Cittadini e Autorità lungi dal violare la legge, se ne facciano attivi paladini e custodi, di certo non sarebbero necessarie così tante (sentenze e) sanzioni.

Ma l’ingenuo candore di queste notazioni filologiche si dimostra inattuale nella presente congiuntura storica, perché lo scandalo delle Toghe sporche ha schiacciato quello di Mani Pulite. La ‘casa’ della giustizia, disvelata da un trojan, ha esibito che trame, linguaggio («la casa dell’essere», secondo Heidegger) e spregiudicatezza di molti magistrati chiamati a governare il C.S.M. non sono affatto diversi da quelli che i magistrati di Mani Pulite avevano contribuito a sanzionare, segnando addirittura una fase della nostra storia repubblicana. Nel 1992 fu colpita, ma non debellata, la pandemia etica della corruzione ambientale; nel 2019 il virus che ha infettato molti magistrati apicali è quello dell’ambizione sfrenata, assolutamente incompatibile con l’indipendenza dell’Ordine giudiziario.

Di fronte a cotale ‘disfatta’ della Giustizia (o della giustizia), non basta sostenere – come afferma Davigo – che la maggior parte dei magistrati sono onestissimi servitori dello Stato. Il che è verissimo ma non basta, sia perché costoro non sono in grado di incidere minimamente sulle decisioni del C.S.M. (che anzi il più delle volte passivamente subiscono), sia perché al postutto essi (tra cui lo scrivente) non hanno saputo scegliere i propri rappresentanti e vigilare in tanti anni sulla loro condotta.

Di fronte a cotale ‘disfatta’ della Giustizia (o della giustizia), allora non basta sostenere – come afferma Davigo – «L’errore italiano è stato quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”». Al contrario, in questo caso non solo legittimamente aspettiamo da un anno le pertinenti e pubbliche decisioni penali e disciplinari sui protagonisti della sciagurata vicenda, ma soprattutto auspichiamo che, con umile saggezza, i magistrati tutti ripensino le ragioni della ‘disfatta’ e ne diano conto all’Utente finale della Giustizia, nel cui nome giudicano. Una crisi epocale, come quella attraversata dalla magistratura italiana, ha bisogno non di trionfali invettive, ma di una radicale e fattiva palingenesi (personale e professionale) dei magistrati tutti (invano auspicata dal Capo dello Stato), senza la quale anche le inevitabili riforme legislative sarebbero vane. Occorre una nuova Magistratura, ma soprattutto un nuovo Magistrato: umilissimo, colto, riservato, tanto solerte quanto profondo nei giudizi, consapevole e pensoso del proprio ruolo di «condannato a decidere» (per dirla con F. Cordero), soprattutto impermeabile a ogni ambizione che non sia quella di applicare imparzialmente la legge e la Costituzione, agguerrito e sapiente difensore della propria indipendenza (interna ed esterna). Occorre altresì un Consiglio Superiore della Magistratura capace di interpretare ed estrinsecare la propria ‘superiorità’ nel preservare realmente l’indipendenza dei magistrati perfino dalle loro personali ambizioni. Tutto ciò aspettiamo e speriamo, mentre attendiamo – e con pari forza auspichiamo – la positiva metamorfosi anche degli esponenti politici con cui non a caso tramavamo i magistrati inquisiti.

Purtroppo la ‘disfatta’ della giustizia (o Giustizia) svela la crisi della legalità e perciò del sistema democratico, sancito dalla Costituzione ma smentito dal sistema spartitorio rivelato dalle intercettazioni[1]. Il diritto va preso sul serio.

 

[1] Sia consentito rinviare a R. RUSSO, Giustizia è sfatta. Appunti per un accorato necrologio, 8 gennaio 2020, sul sito Judicium.it, diretto dal prof. B. Sassani.

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