Aiutiamoli a casa loro? Lo stiamo già facendo, ma male

Introduzione

Nonostante l’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia di Coronavirus, i migranti sono pronti a ripartire dalle coste libiche.

 

Sempre più politici hanno iniziato ad affermare che l’unica soluzione è “aiutarli a casa loro.” Nessuno politico, però, dice che l’Occidente sta già aiutando le popolazioni dei paesi in via di sviluppo “a casa loro”. Il problema è che lo sta facendo male.

 

La maggior parte dei migranti che approdano sulle coste italiane provengono dall’Africa sub-sahariana. Gli aiuti economici all’Africa non hanno però sviluppato l’economia, perché non sono riusciti a sviluppare una cultura imprenditoriale. Gli aiuti hanno invece reso ricchi i dittatori africani, che hanno preso il potere dopo l’indipendenza dai coloni europei, diventando il maggior ostacolo allo sviluppo.

 

La crisi dei migranti, che sembra non avere una fine, ha sicuramente portato alla luce il fallimento della cooperazione internazionale.

 

Questo articolo vuole spiegare le cause della crisi africana e le contraddizioni degli aiuti economici. L’articolo vuole anche offrire nuove idee per un aiuto occidentale, che possa contribuire allo sviluppo economico dell’Africa.

 

 

1.Il Nuovo Colonialismo

Tempo fa, mi trovavo a Washington per lavoro. Un autista di taxi eritreo, scoperta la mia origine italiana, iniziò a parlarmi del passato italiano di Asmara.

 

Poi, raccontandomi della sua famiglia, aggiunse: “Per noi, la colonizzazione italiana è stata la migliore.”

 

Lui continuò: “L’Eritrea è diventata indipendente e si è staccata dall’Etiopia nel 1991. Quando eravamo un paese solo, si stava male. Ora siamo due paesi, e in Eritrea, si continua a stare male. Le torture e le violenze sono quotidiane. Non c’è il rispetto per i diritti umani. Si stava meglio sotto il colonialismo italiano. Allora sì, che ad Asmara si stava bene. Tutti i regimi che sono venuti dopo, a partire dall’amministrazione britannica, sono stati un disastro.”

 

Lo guardai perplessa. Ma lui, continuando a guidare, mi disse: “Sai che cosa? Dovete ricolonizzarci. L’Italia ci ricolonizza e risolviamo tutto.”

 

Cercai allora di spiegargli che non mi sembrava la giusta soluzione. Gli ricordai che il colonialismo aveva arrecato danni enormi, che l’Italia aveva sfruttato le ricchezze del suo paese, e che è una pagina della storia di cui non andare fieri.

 

Lui però imperterrito mi rispose: “Meglio il colonialismo italiano che i nostri dittatori. La nostra miseria l’hanno causata i nostri stessi capi di Stato, non il colonialismo.”

 

Gli chiesi quindi se questa sua opinione fosse condivisa anche da altri eritrei come lui. “Certo, chiedilo a chiunque per le vie di Asmara, o agli eritrei nella diaspora qui a Washington. Solo un pazzo ti direbbe il contrario,” mi ribadì, mentre giungemmo alla fine della corsa.

 

1.1 Il Colonialismo E’ Davvero Il Responsabile?

“Un grande ostacolo alla crescita economica dell’Africa è la tendenza di incolpare le forze esterne per i nostri fallimenti… il progresso sarebbe potuto arrivare se avessimo provato a rimuovere la polvere dagli occhi.”

Said Akobeng Eric, Ghana, lettera all’editore di Free Press (29 Marzo – 11 Aprile 1996)

 

Per anni abbiamo sentito il solito mantra: il colonialismo è il responsabile di tutti i mali dell’Africa.

 

Ma è davvero così?

 

Ali Mazrui, rinomato studioso kenyota (1933-2014), considerava il colonialismo occidentale e l’imperialismo come le cause fondamentali dell’arretratezza del continente africano.

 

Tuttavia, mentre un tempo, l’intelligentia africana accusava la colonizzazione europea della crisi dell’Africa, adesso la nuova generazione incolpa la propria leadership di non essere riuscita – dopo più di cinquanta anni di indipendenza (la maggior parte dei paesi africani sono diventati indipendenti negli anni ’60) – a sviluppare un’economia funzionante.

 

La colonizzazione è da condannare. E’ stata brutale e selvaggia. Però, per l’economista ghaniano George Ayittey, che vuole promuovere una nuova prospettiva sui problemi dell’Africa, la popolazione africana è stanca di essere governata da una classe politica, che non vuole prendersi le proprie responsabilità ed usa la carta del colonialismo come alibi per nascondere la propria incompetenza e il malgoverno.

 

Ayittey non nega che il colonialismo non abbia avuto un ruolo nella crisi africana, ma reputa che questo fattore non debba essere una scusa per giustificare i dittatori africani.

 

“Questa [nuova] scuola di pensiero [africana] riconosce che il colonialismo occidentale e l’imperialismo abbiano danneggiato l’Africa e continuino tutt’ora a farlo, ma considera anche che le condizioni dell’Africa siano drasticamente peggiorate a causa di fattori interni, tra cui: un’incauta leadership, il malgoverno, una corruzione sistematica, la fuga di capitali, il declino degli investimenti, il collasso delle infrastrutture, le istituzioni decadenti, le guerre civili insensate, le flagranti violazioni dei diritti umani…,” scrive Ayittey (George B. N. Ayittey, “The ‘Colonialism-Imperialism’ Paradigm Is Kaput,” 26 giugno 2006).

 

Ayittey sostiene infatti che la vera tragedia per lo sviluppo dell’Africa nasce non con il colonialismo, ma con l’indipendenza (George B. N. Ayittey, Defeating Dictators: Fighting Tyranny in Africa and Around the World, Ed. St. Martin’s Griffin, 2012, Pp. 396-406).

 

1.2 Quando gli Africani Chiedono di Ricolonizzare l’Africa

Il noto accademico tanzaniano, Godfrey Mwakikagile, scrive in un articolo, intitolato provocatoriamente “Africa is in a Mess: Should It Be Recolonized?(“L’Africa è nel Caos: Dovrebbe Essere Ricolonizzata?”, Africanstudies.tripod.com, 2003), che la condizione nell’Africa sub-sahariana è talmente disperata che molti africani pensano addirittura che l’unica soluzione possibile sia la ricolonizzazione dell’Africa da parte dei paesi Europei.

 

L’idea folle di ricolonizzare l’Africa è sostenuta anche da alcuni studiosi africani, che si chiedono un po’ per scherzo e un po’ seriamente: “Quando finisce l’indipendenza?”

 

Lo studioso tanzaniano scrive: “Per milioni [di africani] l’indipendenza è rimasta un ideale astratto senza alcun beneficio concreto nelle loro vite, dal momento che sono rimasti intrappolati nella povertà e continuano a essere devastati dalle malattie, mentre miliardi di dollari in aiuti internazionali… vengono rubati e dilapidati da politici e burocrati senza scrupoli… E’ chiaro dove risieda il problema. Risiede dentro e non fuori [dall’Africa]. Le persone sono stufe.”

 

La situazione in Africa è pertanto così disperata per l’assenza di sviluppo, a causa della classe politico-militare che negli anni ha manipolato il sistema per il proprio tornaconto, che la popolazione ricorda con nostalgia “i bei tempi andati,” ovvero la colonizzazione occidentale.

 

Mwakikagile sostiene infatti che, almeno in quel periodo buio per la storia europea, le persone avevano accesso ai beni e servizi di prima necessità. Non solo, ma Mwakikagile evidenzia anche il fatto che c’era più libertà d’espressione sotto il colonialismo che sotto le dittature africane.

 

Mwakikagile poi aggiunge nel suo articolo: “Il colonialismo è stato oppressivo e basato sullo sfruttamento. Non c’è ombra di dubbio su questo. Non ha dato agli africani il tipo di libertà di cui avrebbero potuto godere sotto una democrazia. Ma quando un leader come l’arcivescovo [sudafricano] Desmond Tutu dice che lui ha avuto più libertà d’espressione durante l’apartheid che molti africani in paesi africani indipendenti sotto la leadership di capi di Stato africani… allora ci si rende chiaramente conto in quale situazione caotica ci troviamo come persone, che vivono nel continente africano.”

 

Nell’articolo, Mwakikagile racconta anche di un viaggio nell’ex Congo belga, l’attuale Repubblica Democratica del Congo, di cui è stato protagonista il noto scrittore e docente universitario afro-americano Henry Louis Gates Jr.

 

Durante una sua visita nella zona del Kisangani, importante porto fluviale, si era sparsa la voce che dei coloni belgi stavano arrivando per riprendere il paese. E con grande stupore di Henry Louis Gates, una folla di congolesi festanti aveva iniziato a preparare dei rami di alberi verdi per accogliere i nuovi coloni.

 

Eppure, la colonizzazione belga non fu per niente rose e fiori. L’Impero coloniale belga durò dal 1885 al 1962 e fu costituito da una unica, grande colonia, il Congo Belga. Questo impero nacque come proprietà privata del re del Belgio Leopoldo II. Sotto il suo regno, il Congo fu soggetto a uno sfruttamento talmente brutale da fare 10 milioni di vittime su un totale di 25 milioni.

 

Nonostante tutto, i congolesi festanti di Kisangani avrebbero comunque preferito riavere il coloni belgi a governare il loro paese.

 

Mwakikagile asserisce: “Sin dall’indipendenza, molti leader africani hanno portato alla bancarotta le economie dei paesi che governavano, hanno messo in prigione, torturato e ucciso i loro oppositori reali e immaginari… Sono fra le persone più ricche al mondo pur vivendo nei paesi più poveri al mondo.”

La cleptocrazia dei dittatori africani ha infatti ridotto all’estrema povertà paesi ricchissimi di risorse naturali e con un grande potenziale agricolo.

 

“E’ una richiesta d’aiuto che nasce dalla disperazione… i nostri leader hanno fallito…” scrive Mwakikagile.

 

1.3 La Ricolonizzazione degli Aiuti Esteri

La ricolonizzazione però è già in atto e non ha niente di positivo. La nuova colonizzazione è rappresentata oggi non dai coloni in divisa, ma dagli aiuti esteri. Questa nuova ricolonizzazione è quella degli aiuti internazionali, del Fondo Monetario Internazionale e dei progetti delle varie agenzie di cooperazione.

 

Gli aiuti internazionali hanno avuto un impatto molto peggiore dell’imperialismo europeo. Sono gli aiuti che infatti hanno perpetuato le dittature, causa principale dei mali dell’Africa.

 

L’economista inglese, nato in Ungheria, Peter Bauer è stato fra i primi a criticare gli aiuti internazionali e i suoi scritti hanno influenzato molti economisti africani. Già negli anni Settanta, Bauer scriveva che gli aiuti economici non servono allo sviluppo e sosteneva che “l’aiuto è il processo per il quale il povero nei paesi ricchi sovvenziona il ricco nei paesi poveri.” (A Tribute to Peter Bauer, Institute of Economic Affairs, Iea.org.uk).

 

James Bovard, influenzato dagli scritti di Bauer, ha portato il dibattito sul foreign aid nei think-tanks di Washington D.C. Nel 1986, Bovard descrisse in un articolo, pubblicato dal think tank Cato Institute, il fallimento degli aiuti occidentali allo sviluppo, definendoli come uno spreco di denaro pubblico (James Bovard, The Continuing Failure of Foreign Aid, Cato.org, 31 gennaio, 1986).Le sue parole, seppur scritte più di trenta anni fa, rimangono sempre attuali.

 

Bovard scriveva nell’articolo: “I programmi di aiuto allo sviluppo sono stati perpetuati e incrementati non perché hanno avuto successo, ma perché il foreign aid sembra essere ancora una buona idea. Ma gli aiuti hanno raramente contribuito a sviluppare qualcosa che i paesi riceventi non avrebbero già potuto fare da soli. Solitamente questi aiuti incoraggiano i peggiori comportamenti dei paesi riceventi, fornendo copertura a programmi e politiche che hanno affamato migliaia di persone e deragliato economie in difficoltà.”

 

L’intellettuale americano accusava anche gli aiuti di aver rimpinguato le tasche di una crescente falange di burocrati “corrotti, ingerenti e strapagati,” invece di contribuire al benessere della società, oltre ad aver finanziato gli “white elephants”, ovvero imponenti progetti i cui eccessivi costi di realizzazione non sono compensati dai benefici successivi.

 

Bovard sosteneva: “Invece di rompere ‘l’inesauribile ciclo di povertà,’ gli aiuti sono diventati la droga dei paesi in via di sviluppo. I donatori internazionali hanno incoraggiato i governi dei paesi riceventi ad affidarsi all’elemosina per lo sviluppo, invece che su se stessi. Non importa quanto irresponsabile, corrotto o oppressivo sia un governo in via di sviluppo, ci sarà sempre un governo occidentale, un’agenzia internazionale ansiosi di fornire altri milioni di dollari.

 

Sovvenzionando l’irresponsabilità politica e politiche perniciose, gli aiuti internazionali rendono un pessimo servizio ai poveri del mondo.”

 

Come scrive l’economista ghaniano George Ayittey: “Abbiamo rimosso i colonialisti bianchi e li abbiamo rimpiazzati con neo-colonialisti neri,” mantenuti con gli aiuti internazionali (Therisingcontinent.com, 25 Ottobre 2011).

 

2. L’Inutilità degli Aiuti

Dopo anni di finanziamenti occidentali ai governi dei paesi africani, la situazione in Africa non solo non è migliorata, ma è sempre più catastrofica.

 

I leader europei cercano di suggerire nuove/vecchie soluzioni per lo sviluppo del continente africano, come l’idea di lanciare un Piano Marshall per l’Africa.

 

Queste iniziative però non sembrano volte né a sviluppare né a promuovere l’economia africana. Il foreign aid può funzionare quando ci si trova di fronte a delle emergenze per catastrofi naturali o per episodi di carestia, ma non riesce a favorire alcun tipo di sviluppo economico sostenibile.

 

Quasi sempre, i benefici che derivano dai progetti di aiuto allo sviluppo sono relativi alla durata del progetto stesso e tendono a scomparire negli anni successivi.

 

Inoltre, quando i paesi donatori inviano gli aiuti internazionali, questi non vanno a finire direttamente alla popolazione che muore di fame, ma ai governi. La conseguenza diretta è la crescita del ruolo dello Stato nell’economia del paese ricevente, che non offre incentivi allo sviluppo del settore privato.

 

Andrew Mwenda, giornalista ugandese, definisce gli aiuti come antitetici alla crescita, perché creano gli incentivi sbagliati.

 

Secondo Mwenda, se le risorse degli Stati derivano dalla buona economia del paese, allora i governi avrebbero tutto l’interesse di ascoltare la voce dei cittadini per orientare le politiche atte a promuovere il settore privato. “Il buon governo non è frutto di altruismo, ma di un interesse privato,” scrive Mwenda.

 

Il foreign aid però distorce la relazione tra Stato e cittadino. Di fatto, a causa degli aiuti internazionali, il governo non ha più alcun interesse a dialogare con la popolazione e a cercare consensi, perché sostenuto economicamente dall’esterno (Andrew M Mwenda: aid creates the wrong incentives for progress, Theguardian.com, 24 luglio, 2008.)

 

Mwenda crede che l’occidente commetta un errore, pensando che i governi africani rappresentino l’interesse dei loro cittadini. Al contrario, i governi africani rappresentano soltanto una ristretta élite , che non è direttamente coinvolta nel processo di produzione (Andrew Mwenda discusses foreign aid in Africa, Abc.net.au, 6 agosto, 2008).

 

Qui di seguito sono illustrate le quantità di denaro erogate dai paesi donatori ogni anno. Le cifre mostrano come miliardi di euro, consegnati ai governi africani, non abbiano prodotto alcun impatto nello sviluppo delle economie locali.

 

2.1 Il Fallimento degli Aiuti Internazionali

Secondo i dati forniti dal Ministero degli Affari Esteri italiano, negli ultimi anni le risorse impegnate ed erogate per progetti umanitari e di lotta alla povertà in Africa, Asia ed America Latina sono aumentate drasticamente. Nel 2016, l’Italia ha impegnato 4.593.821.856 miliardi di euro e ha erogato 4.621.620.058 miliardi di euro (totale dell’aiuto pubblico, Openaid.esteri.it).

 

L’ex Ministro italiano dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, aveva definito la cooperazione allo sviluppo come “l’asse portante nella direttrice degli investimenti del nostro Paese”, sottolineando che in passato “l’Italia investiva lo 0,14 per cento del PIL,” oggi invece “la quota degli investimenti in cooperazione è raddoppiata” e ci “dobbiamo porre l’obiettivo di uno 0,5 per cento del PIL.” (Ilsole24ore.com, 24 gennaio, 2018)

 

L’Italia però non è l’unico paese a investire in progetti di cooperazione allo sviluppo. Nel 2016, la Gran Bretagna ha contribuito agli aiuti internazionali, con un totale di £13.3 miliardi (quasi 15 miliardi di euro), esattamente il 0.7% del proprio PIL, come indicato dalla Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite (Nel 2000, gli Stati membri delle Nazioni Uniti avevano firmato la Dichiarazione del Millennio, in cui si impegnavano a raggiungere entro l’anno 2015, fra i vari obiettivi, a sradicare la povertà estrema e la fame nel mondo. Nella dichiarazione, gli Stati si impegnavano a devolvere lo 0.7% del loro PIL ai paesi di via di sviluppo. Questo obiettivo era già stato fissato il 24 ottobre del 1970 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite).

 

Nello stesso anno, anche Svezia, Lussemburgo, Emirati Arabi, Turchia, Danimarca e Norvegia sono riusciti a raggiungere l’obiettivo di impegnare il 0.7 per cento del loro PIL.

 

Tutti questi aiuti però non sembrano portare ad alcun risultato. Milioni di persone continuano a scappare ogni giorno da quei paesi, in cui “le nazioni ricche” investono in progetti di sviluppo, a causa della mancanza di lavoro, cibo, acqua, sanità. Il paradosso è che, nonostante gli aiuti siano aumentati, le condizioni politiche, sociali e di sicurezza dei paesi africani non sono migliorate, ma peggiorate.

 

Un esempio del fallimento della cooperazione internazionale è il Congo (un tempo conosciuto anche come Zaire), un paese ricco di risorse naturali. Prima, i finanziamenti esteri hanno sostenuto il governo corrotto di Mobutu Sese Seko. Nel 1997, una volta rimossi i residui della dittatura di Mobutu, Laurent Kabila prese il potere, ma fu poi ucciso nel 2001 dalle sue guardie del corpo. Gli è poi succeduto il figlio Joseph Kabila, sostenuto dagli aid donors, che hanno pagato l’organizzazione di due elezioni (nel 2006 e nel 2011), costate miliardi di dollari.

 

Le elezioni, vinte da Kabila, sono state considerate fraudolente dall’opposizione, e – di conseguenza – delle violente proteste sono scoppiate nel paese. Nel momento in cui il Congo aveva maggiormente bisogno di unità, le soluzioni occidentali hanno portato soltanto a divisioni interne, dando il potere politico ed economico alle élite corrotte, incapaci di costruire uno Stato funzionante.

 

Ma ci sono altri esempi più eclatanti di aiuti fallimentari. Negli anni Ottanta, un’agenzia di sviluppo norvegese aveva costruito un impianto per la congelazione del pesce nel nord del Kenya. Dopo aver completato l’opera, l’agenzia si è accorta che per far funzionare l’impianto era necessario utilizzare una quantità di energia superiore a quella prodotta nell’intera regione (The Sorry Record of Foreign Aid in Africa, Fee.org, 1 agosto, 2001).

 

Sempre negli stessi anni, 10 milioni di dollari da parte di agenzie occidentali erano stati spesi in Tanzania, per costruire un impianto di trattamento per anacardi. L’impianto aveva una capacità di lavorazione tre volte maggiore a quella della produzione di anacardi di tutto il paese e inoltre risultava più economico mandare i frutti ad impianti di trattamento in India (The Sorry Record of Foreign Aid in Africa, Fee.org, 1 agosto, 2001).

 

Sembra pertanto essere sempre più chiaro che la formula “aiutiamoli a casa loro” non funzioni, almeno per come è impostata adesso la cooperazione internazionale.

 

2.2 Piano Marshall per l’Africa? Non Può Funzionare

Si sta facendo sempre più forte l’idea che un Piano Marshall per l’Africa possa risollevare i paesi africani e frenare così l’emergenza migranti.

 

Agli inizi di giugno del 2018, intervenendo a Bruxelles agli European Development Days, l’ex Presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, aveva detto: “Serve un nuovo piano Marshall. Non è solo nell’interesse dell’Africa, è anche nel nostro interesse” (Ansa.it, 5 giugno, 2018). La stessa cancelliera tedesca Angela Merkel ha supportato questa proposta.

 

Ma un Piano Marshall per il continente africano è davvero possibile?

 

L’economista americano Tyler Cowen, in un articolo, intitolato “Il Piano Marshall: Miti e Realtà” (“The Marshall Plan: Myths and Realities”; Washington: Heritage Foundation, 1985), mette persino in discussione il fatto che il Piano Marshall abbia avuto un reale impatto per la stessa Europa.

 

A parere dell’economista americano, infatti, l’Europa si sarebbe ripresa comunque con o senza il Piano Marshall, aggiungendo che non esistono prove convincenti che sia stata l’iniziativa americana a provocare la crescita economica europea. Di fatto, l’aiuto americano non ha mai superato il 5% del PIL dei Paesi riceventi. Cowen scrive: “Il totale dell’assistenza economica era minuscolo comprato alla crescita che ebbe luogo negli anni Cinquanta.”

 

Inoltre, a prescindere dagli effetti che possa aver avuto il Piano Marshall, c’è da considerare che la condizione dell’Europa nel dopoguerra era particolare. Come nota lo stesso Cowen, l’economia europea era già industrializzata e ben integrata. Inoltre, l’Europa aveva già una lunga tradizione di istituzioni capitaliste. Cowen evidenzia anche il fatto che il fenomeno di rinascita di queste istituzioni era incoraggiato dagli stessi leader europei, come Ludwig Erhard nella Germania occidentale e da Luigi Einaudi in Italia, più che da input esteri.

 

In Africa, però, queste stesse condizioni che esistevano nell’Europa del dopoguerra non ci sono. Il continente africano deve costruire istituzioni ed infrastrutture ex novo e non ricostruire delle infrastrutture danneggiate, come nell’Europa post-bellica. Sono, infatti, pochi i Paesi in via di sviluppo che hanno una tradizione di capitalismo e industrializzazione. Il noto economista nigeriano ed ex Segretario esecutivo delle Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite, Adebayo Adedeji, ha detto nel 2002: “Nessun Piano Marshall può funzionare per i mercati in via di sviluppo dell’Africa… L’Africa ha bisogno di essere costruita da zero, non riabilitata o ricostruita.”

 

L’economista americano Cowen evidenzia, inoltre, che negli anni è stato dimostrato come il foreign aid sia completamente incapace di incoraggiare la nascita di simili istituzioni. Gli aiuti internazionali e il Piano Marshall, infatti, promuovono soltanto il carattere “government-to-government,” ovvero lo statismo, e non la “free enterprise” e la libertà economica.

 

Un Piano Marshall Plan per l’Africa sarebbe soltanto un ulteriore costo per l’Europa. Di fatto, non contribuirebbe al benessere delle società africane, perché non produrrebbe e non svilupperebbe alcuna cultura imprenditoriale.

 

  1. Le Due Scuole Di Pensiero

Sempre più economisti africani iniziano a sostenere che gli aiuti internazionali non hanno avuto alcun effetto positivo. Tra questi economisti però ci sono due visioni distinte per quanto riguarda le soluzioni da mettere in campo per risolvere la crisi africana.

 

La prima scuola di pensiero sostiene che il processo di sviluppo può avvenire soltanto attraverso il libero mercato. Questa scuola considera che la creazione di una società economicamente stabile sia la priorità per l’Africa. La democrazia è invece vista come un obiettivo secondario e non direttamente correlabile allo sviluppo economico.

 

La seconda scuola di pensiero ritiene invece che solo attraverso il processo democratico, uno Stato può raggiungere lo sviluppo economico. E’ quindi necessario costruire prima le istituzioni democratiche, per avviare il continente africano verso la modernità e il progresso.

 

La prima scuola, quella del “prima l’economia”, è rappresentata dall’economista dello Zambia, Dambisa Moyo, autrice del libro “Dead Aid” (“Aiuto Morto”, Penguin, 2009). Moyo sostiene che le popolazioni africane non hanno come bisogno urgente quello di votare liberamente, ma quello di mangiare e di fare trovare un pasto caldo ai loro figli.

 

La seconda scuola, quella di “prima la democrazia”, è rappresentata dall’economista ghaniano, George Ayittey. Secondo Ayittey, non si può concepire uno sviluppo economico, senza avere delle istituzioni politico-giurdiche che garantiscano i diritti dei cittadini. L’economista ghaniano sostiene che una volta che queste istituzioni sono stabilite, allora l’Africa potrà proseguire da sola, senza aiuti economici, verso il progresso.

 

3.1 Prima l’Economia

“Non ho mai visto paesi svilupparsi grazie agli aiuti… I paesi che si sono sviluppati come gli Stati Europei, l’America, il Giappone…hanno tutti creduto nel libero mercato. Non c’è alcun mistero. L’Africa ha preso una strada sbagliata dopo l’indipendenza.”

Ex Presidente del Senegal Abdoulaye Wade, 2002

 

L’economista dello Zambia, Dambisa Moyo, è una dura critica contro gli aiuti internazionali. Il suo libro, “Dead Aid” ha suscitato forti critiche da parte delle organizzazioni non governative, che si occupano di sviluppo nei paesi africani.

 

Nel preambolo del suo libro, Moyo offre una sua definizione di aiuto internazionale, per capire quali sono gli errori dei paesi donatori.

 

Moyo spiega che cospicui trasferimenti di denaro vengono effettuati sistematicamente dai paesi sviluppati ai governi africani in due forme:

 

  • Prestiti a tasso agevolato (ovvero denaro prestato a un tasso di interesse inferiore a quello di mercato, e spesso per periodi più lunghi di quelli normalmente in uso).
  • Denaro dato a fondo perduto (grants).

 

Per la giovane economista, la questione è se i governi africani vedono una differenza fra prestito e grants. Secondo Moyo, dato che buona parte dei prestiti sono dati a condizioni molto favorevoli e i debiti vengono comunque spesso cancellati, allora non esiste più alcuna differenza fra prestiti e grants. Pertanto, l’aiuto può essere definito come la somma dei prestiti e del denaro a fondo perduto.

 

Per Moyo, questi aiuti (prestiti+grants) non stimolano affatto l’economia. “L’aiuto genera pigrizia da parte dei responsabili politici africani,” rimprovera Moyo nel suo libro, aggiungendo che la dipendenza dagli aiuti internazionali porta alla creazione di un circolo vizioso, dal quale non è semplice uscirne.

 

Moyo spiega: “Il foreign aid sostiene i governi corrotti [africani] – fornendo loro denaro utilizzabile liberamente. Questi governi corrotti interferiscono con lo Stato di diritto, con la creazione di istituzioni civili trasparenti e con la protezione delle libertà civili, rendendo poco attraente qualsiasi investimento estero o interno… la mancanza di investimenti riduce la crescita economica, che porta alla carenza di opportunità di lavoro e alla crescita della povertà.

 

“In risposta all’aumento della povertà, i paesi donatori danno più aiuti economici, continuando così la spirale della povertà. Questo è il circolo vizioso degli aiuti. Il circolo che strozza il bisogno di investimenti, che infonde la cultura della dipendenza, e facilita la corruzione sistematica, con deleterie conseguenze per la crescita. Questo è il circolo che perpetua il sotto-sviluppo e garantisce il fallimento economico dei paesi poveri, dipendenti dal foreign aid.”

 

La soluzione per Moyo è pertanto chiara: cancellare gli aiuti.

 

L’alternativa?

 

Per eliminare ogni componente di dono e fondare interamente sul libero mercato l’economia dei paesi africani, i governi dovrebbero puntare principalmente agli investimenti diretti esteri.

 

Per Moyo, questa opportunità di ottenere investimenti diretti viene fondamentalmente dalla Cina. Le multinazionali cinesi stanno infatti investendo nel continente africano, costruendo infrastrutture, delocalizzando la produzione e manodopera, in cambio dell’accesso alle risorse naturali.

 

Moyo spiega: “L’errore dell’Occidente è stato di dare senza chiedere niente in cambio. Il segreto del successo della Cina è che la sua incursione in Africa è solo per business. L’Occidente ha inviato aiuti in Africa e non si è curato dei risultati… La Cina, invece, investe denaro in Africa e poi vuole un ritorno economico. In questo modo, gli Africani ottengono un lavoro, delle strade, da mangiare…”

 

Poco importa, per Moyo, se la penetrazione cinese in Africa si sta facendo sempre più progressiva e aggressiva. “E’ l’economia che conta,” scrive Moyo.

 

“I cinesi stanno arrivando… ed è in Africa che la loro campagna per il dominio globale sarà consolidata… e quando possiederanno le banche, la terra e le risorse economiche in Africa, la loro crociata sarà finita. Avranno vinto. Se il dominio cinese sia o meno nell’interesse dell’Africano medio è irrilevante…,” sostiene Moyo.

 

Secondo Moyo, la priorità immediata è la crescita economica dell’Africa e non la democratizzazione e i diritti dell’individuo.

 

L’economista spiega: “Nell’immediato, a una donna che vive in una[zona] rurale non importa quali saranno i diritti democratici fra quarant’anni, quello che vuole sono del cibo sulla tavola per questa sera. La Cina promette quel cibo sulla tavola per oggi, educazione per i figli domani e le infrastrutture su cui lei può affidarsi per sostenere il suo business nel futuro immediato” (Dambisa Moyo, “Dead Aid”, Penguin, 2009).

 

Moyo poi ribadisce: “Nessuno nega che la democrazia sia un valore cruciale – ma è solo una questione di tempo. A una famiglia che muore di fame non importa molto se può votare… prima di tutto ha bisogno di mangiare. Per questo è fondamentale un’economia che cresca velocemente e in fretta” (Dambisa Moyo, “Dead Aid”, Penguin, 2009).

 

3.2 Prima La Democrazia

“Se vuoi capire perché l’Africa è così povera e l’America è così ricca, fatti la seguente domanda: come hanno fatto i soldi le persone ricche nel continente africano e negli Stati Uniti? In America, una tra le persone più ricche è Bill Gates. Come ha fatto i soldi? Li ha guadagnati nel settore privato, producendo software. Chi sono le persone più ricche in Africa? I capi di Stato. Che cosa hanno fatto per produrre le loro ricchezze? Niente! Sono diventati ricchi usando il potere e i loro privilegi per rubare ai più poveri.”

George Ayittey, Fee.org, 24 dicembre 2008.

 

Ayittey sostiene invece che la democratizzazione del continente africano non possa essere secondaria alla crescita economica.

 

Inoltre, l’economista ghaniano ha dei dubbi sugli investimenti diretti cinesi in Africa. Ayittey, infatti, accusa le multinazionali cinesi di non avere alcun riguardo per i diritti dei lavoratori e crede che la Cina stia semplicemente sfruttando le risorse naturali dell’Africa.

 

L’economista ghaniano spiega che non sempre c’è stato un guadagno per i paesi africani, che hanno fatto affari con Beijing. La Cina ha offerto investimenti per le infrastrutture in cambio di risorse. Ayittey però sostiene che la Cina ha gonfiato i costi per le infrastrutture. Pertanto, più alta era la stima dei costi e più era grande il prestito. Inoltre, più grande era il prestito e più era grande l’ammontare delle risorse che dovevano essere spedite in Cina per l’estinzione del debito. (George Ayittey, Chinese Investments in Africa: “Chopsticks Mercantilism”, Almariam.com, 27 settembre, 2017).

 

Secondo Ayittey, quindi, lo sviluppo dell’Africa non può passare attraverso gli investimenti diretti, ma soltanto attraverso la creazione di infrastrutture democratiche.

 

La soluzione di Ayittey per la crisi africana è di legare ogni aiuto finanziario occidentale alle seguenti richieste:

 

  1. Una banca centrale indipendente. Questo assicurerebbe una stabilità monetaria ed economica.

 

  1. Un sistema giuridico indipendente, essenziale per la creazione di uno Stato di diritto.

 

  1. Una stampa libera ed indipendente. I giornalisti africani dovrebbero essere liberi di poter esporre i problemi sociali, che affliggono l’Africa.

 

  1. Una commissione elettorale indipendente per assicurare elezioni senza brogli. L’opposizione deve essere lasciata libera di partecipare alla vita politica e non arrestata.

 

  1. Una pubblica amministrazione efficiente, che offra servizi sulla base del bisogno e non sulla base dell’etnia o dell’affiliazione politica.

 

  1. La creazione di forze armate e di sicurezza neutrali e professionali.

 

 

Se questi sei punti fossero sviluppati, Ayittey sostiene che gli africani potrebbero finalmente prendere in mano il loro destino, perché avrebbero finalmente gli strumenti per portare avanti loro stessi il cambiamento dal di dentro della loro società, senza interventi esterni.

 

3.3 Il Federalismo

L’ex presidente della Nigeria Olusegun Obasanjo, quando era la potere (dal 1999 al 2007), aveva dichiarato che dal momento dell’indipendenza i leader africani avevano rubato 142 miliardi di dollari dalle casse degli Stati africani. Il dittatore dell’ex Zaire Mobutu Sese Seko, per esempio, aveva accumulato una fortuna pari a 10 miliardi di dollari. Pertanto, avrebbe potuto ripagare con un suo solo assegno il debito estero del suo paese. (George Ayittey Fee.org, 24 dicembre 2008).

 

L’abbattimento dei regimi autoritari, però, non migliora automaticamente la situazione dell’Africa. Ma è solo l’inizio di un lungo percorso.

 

Di fatto, in Nord Africa, quando la dittatura di Muammar Gheddafi in Libia è stata abbattuta, non è arrivata la democrazia. Ma si è aperta un frattura all’interno della società, che ha messo in evidenza le divisioni etniche e tribali, facendo scoppiare una guerra civile che dura dal 2011.

 

Questo dimostra che, nonostante la rimozione della dittatura sia essenziale, la transizione verso la democrazia in Africa è un percorso complicato e rischioso, dai risultati non garantiti. Paradossalmente, il paese liberato dalla dittatura potrebbe sprofondare in una situazione peggiore di quella sotto il regime autoritario.

 

Il colonialismo ha infatti creato in Africa dei confini territoriali astratti e fittizi, tracciati con il righello, senza tenere conto delle divisioni etniche, tribali e religiose. Le dittature hanno poi tenuto insieme la società attraverso l’oppressione e la forza, ma non hanno costruito un sentimento di appartenenza comune che trascenda le differenze.

 

L’abbattimento della dittatura, pertanto, non crea di per sé una struttura sociale coesa. Anzi, nella più parte dei casi, esacerba le divisioni etniche.

 

Una soluzione possibile, per scongiurare ulteriori conflitti etnico-religiosi, potrebbe pertanto essere rappresentata dalla creazione di Stati con la struttura costituzionale di una federazione.

 

Negli Stati africani, i governi centrali sono solitamente dominati da membri di un solo gruppo etnico, tribale, o religioso. Pertanto, le minoranze sono represse ed escluse dalla coalizione al potere. Un sistema federale potrebbe pertanto garantire alle minoranze dei diritti, che il governo centrale aveva loro negato.

 

Un paese ad aver scelto la via federale in Africa è la Nigeria, che però ancora fatica a portare a termine un processo di transizione democratica.

 

Il politologo nigeriano, Jonah Isawa Elaigwu, professore emerito di scienze politiche dell’Università di Jos in Nigeria, spiega infatti che senza una base democratica, il federalismo non può funzionare (Jidenmafoundation.org, 12 novembre, 2013).

 

Il politolo nigeriano scrive: “La Nigeria è passata da un governo militare a uno civile… Ci sono però più esempi di deficit democratico che di rispetto dei valori democratici e delle disposizioni costituzionali. Molti dei conflitti e delle crisi che hanno caratterizzato il percorso democratico della Nigeria sono associati ai valori non-democratici che sono alla base della nostra vita nazionale. Ovvero, [abbiamo costruito] delle strutture apparentemente democratiche su fondamenta e valori non-democratici” (Jidenmafoundation.org, 12 novembre, 2013).

 

Secondo Elaigwu, il federalismo pertanto non è un “elisir” per risolvere i problemi socio-politici, che hanno come causa la diversità culturale. Il politologo nigeriano aggiunge: “Molti problemi come lo sfruttamento delle risorse, la giustizia, l’uguaglianza, la partecipazione politica e lo sviluppo economico trascendono la forma di governo. La forma di governo può assistere gli sforzi per risolvere questi problemi, ma non è una pre-condizione. Il sistema federale non offre un’attitudine umana all’eguaglianza e alla giustizia.

 

Il Federalismo può fornire una base strutturale per la distribuzione dei poteri e le delle risorse in uno Stato, ma non risolve i problemi politici” (Jidenmafoundation.org, 12 novembre, 2013).

 

Il federalismo comunque può rappresentare un “calmante” per alcuni dei problemi che affliggono le società africane e per trovare dei compromessi pacifici fra i vari gruppi etnici. “Quanto prima affrontiamo la realtà della situazione che ci circonda e analizziamo come fare funzionare al meglio il federalismo, tanto meglio è per noi e per tutti i nostri figli,” scrive Elaigwu (Jidenmafoundation.org, 12 novembre, 2013).

 

  1. Sviluppo Economico: Problemi E Soluzioni

L’Africa è ricca di risorse umane e naturali, ma tutto il continente soffre di una profonda crisi economica.

 

Subito dopo la fine del colonialismo, i paesi africani hanno dovuto iniziare a gestire la loro indipendenza. Molti leader dell’indipendenza contro il colonialismo divennero poi capi di Stato, adottando politiche socialiste, sotto influenza sovietica, per contrapporsi all’ “imperialismo” occidentale.

 

Queste politiche socialiste però erano anch’esse estranee alla cultura locale e furono fallimentari per le economie locali.

 

Uno degli esempi di come queste politiche abbiano avuto effetti negativi sull’economia è la Tanzania.

 

Nel 1973, il presidente e padre fondatore della Tanzania, Julius Nyerere, nel suo libro intitolato “La scelta razionale”, scrisse che il socialismo era l’unico sistema socio-economico, che potesse avere senso per i paesi sotto-sviluppati dell’Africa. La sua idea era che se le economie africane avessero adottato un sistema capitalistico sarebbero state subalterne alle economie occidentali e pertanto non indipendenti.

 

Nyerere, fautore del socialismo africano, sviluppò una sua filosofia, conosciuta come Ujamaa (swahili per “famiglia estesa”), che diventò il concetto base delle politiche socio-economiche della Tanzania. Secondo questa concezione, sviluppata nella dichiarazione di Arusha del 5 febbraio 1967, lo Stato doveva avere un effettivo controllo sui mezzi di produzione, e doveva intervenire attivamente nella vita economica.

 

Le industrie e le banche furono pertanto nazionalizzate. Furono create aziende statali e fu impedito l’accumulo di capitale. Le riforme più impegnative furono nel settore agricolo. I contadini furono raggruppati in cooperative collettive, di stampo sovietico, e le piantagioni furono anch’esse nazionalizzate.

 

Nel 1985, Nyerere si dimise, ma rimase chairman del partito dominante Chama Cha Mapinduzi (“Partito della Rivoluzione” in swahili) fino al 1990. Morì di leucemia a Londra, nel 1999.

 

La politica dell’Ujamaa però è stata fallimentare. Nel 1990, il reddito pro-capite degli abitanti della Tanzania (circa 26 milioni) era di 200 dollari l’anno, il più basso al mondo. (The New York Times, 24 ottobre 1990).

 

Secondo i dati della Banca Mondiale, l’economia tanzaniana si era ridotta ad un tasso medio di meno 0.5 per cento all’anno dal 1965 al 1988, periodo corrispondente alla presidenza di Nyerere. E sempre secondo la Banca Mondiale, dal 1973 agli anni Novanta, c’è stata una diminuzione del 43 per cento dei consumi personali. Inoltre la popolazione aveva dovuto rinunciare al consumo di carne e latticini sostituendoli con una dieta a base di cereali (The New York Times, 24 ottobre 1990).

 

Nyerere aveva però contribuito all’alfabetizzazione del suo paese. Lui stesso aveva riconosciuto di non essere stato capace di tradurre in progresso economico il crescente livello culturale della popolazione tanzaniana (The New York Times, 24 ottobre 1990).

 

La Tanzania oggi si muove verso il libero mercato, ma con molte incertezze. Per di più la classe politica che dovrebbe condurre il paese verso la liberalizzazione si è formata in epoca socialista e non sembra avere coscienza di quello che occorra per una riforma liberale.

 

L’esempio della Tanzania è quello anche di altri paesi africani. Mentre i leader africani cercavano formule ideologiche, come l’Ujamaa, per rendere indipendenti i paesi africani dall’Occidente, in realtà stavano creando paesi sempre più dipendenti dal foreign aid. Le politiche perseguite dai leader post-indipendenza hanno indebolito le economie dei propri paesi, rendendoli prigionieri di inefficaci aiuti economici.

 

Vale la pena notare che non è detto che il libero mercato da solo possa portare alla crescita economica della Tanzania o di altri paesi africani. La sfida è di trovare nuove formule che possano sviluppare la creatività imprenditoriale locale e al contempo adattarsi al mercato africano e alla struttura sociale del continente, in modo da generare una prosperità economica a lungo termine.

4.1 Gli Errori Dell’Esperienza Socialista E Il Libero Mercato Tribale

Uno dei danni delle dittature africane è stata l’eliminazione del libero mercato tribale. Sembra una contraddizione in termini parlare di “libero mercato” legato alla tribù. Ma, in realtà, il libero mercato era il sistema economico su cui si basavano le società tradizionali africane.

 

I governi post-coloniali guidati da leader africani, che durante la Guerra Fredda si erano allineati con l’Unione Sovietica, hanno distrutto le economie delle società tribali basate sul libero mercato, per sostituirle con altre di stampo socialista.

 

L’economista ghaniano Ayittey scrive che l’ideologia socialista era fondamentalmente “aliena” alle popolazioni locali e ha fallito miseramente ovunque sia stata applicata in Africa. La proprietà statale, di fatto, non è mai stata un concetto della tradizione economica africana (George Ayittey, Indigenous African Free-Market Liberalism, Fee.org, 24 agosto 2011). Nel sistema economico tradizionale africano la terra è di proprietà delle comunità tribali.

 

Questa struttura economica tribale è definita da Ayittey come “capitalismo contadino.” E si differenzia da quello classico occidentale per due aspetti.

 

Ayittey spiega: “In primo luogo, l’unità operativa era il clan, non l’individuo. In secondo luogo, il profitto era condiviso. Tuttavia, a prescindere dal clan, l’individuo poteva impegnarsi nell’attività economica di sua scelta. Non aveva bisogno di un permesso per occuparsi del commercio, della pesca, o della tessitura. Se poi l’occupazione non risultava essere redditizia, l’individuo poteva cambiare attività economica.”

 

Nel linguaggio moderno, le persone che istituiscono e gestiscono un’attività economica sono degli imprenditori. Così, Ayittey definisce i commercianti africani che viaggiavano lunghe distanze per comprare e rivendere prodotti e merci, assumendosi il rischio d’impresa.

 

Nel sistema tribale, però, il clan offriva una rete di protezione nel caso di fallimento dell’attività. L’individuo pertanto era stimolato a investire e impegnarsi in un’attività imprenditoriale, sentendosi anche rassicurato dal sostegno del clan. Inoltre, nel caso del successo dell’attività, tutto il clan poteva usufruire dei profitti.

 

I paesi occidentali dovrebbero spingere verso una liberalizzazione del mercato nel continente africano, o meglio detto verso un “ritorno” al libero mercato.

 

4.2 Il Ruolo del Comunalismo Africano: Tra Tradizione ed Individualismo

Il comunalismo tribale non ha solo aspetti positivi, ma anche negativi. Il filosofo kenyota John Samuel Mbiti descrive il comunalismo con le seguenti parole: “Io sono perché siamo, e dato che siamo, allora io sono” (Ifeanyi A. Menkity, Person and Community in African Traditional Thought, Southeastern.edu).

 

Nella società tribale, il clan ha la precedenza sull’individuo ed è la comunità che definisce la persona. Olufeemi Taiwo, docente universitario di origine nigeriana alla Cornell University, in un suo scritto, sostiene che il comunalismo affascina molti pensatori africani ed europei, perché è funzionale a una certa retorica anti-colonialista.

 

Il comunalismo però può essere pericoloso. Nel clan, l’individualità della persona non può emergere e viene pertanto appiattita. Di fatto, il clan spezza il volere dell’individuo per seguire gli interessi collettivi. “Non importa quello che la persona ‘sente’ o ‘pensa’ su come e dove sviluppare il proprio potenziale e la propria originalità,” scrive Taiwo, l’unica cosa ad importare è il volere della comunità (Olufẹemi Taiwo, Against African Communalism, Jffp.pitt.edu, 2016).

 

In contrapposizione al comunalismo c’è il sistema liberale, in cui l’individuo è autonomo e non può essere oppresso dagli interessi della comunità. Una persona però ha anche il bisogno umano di una comunità che lo circondi e che lo sostenga. Soprattutto in Africa, dove la comunità è spesso sinonimo di sopravvivenza. La sfida è quindi di contenere gli aspetti negativi del comunalismo per lasciare l’individuo libero di sviluppare la propria creatività.

 

Secondo Ayittey, un mix di liberalismo e tradizione, che proietti lo spirito positivo del comunalismo africano, sarebbe la prescrizione giusta per lo sviluppo del continente africano.

 

4.3 Il Continente Africano: Da Esportatore A Importatore Di Cibo

Nel 2007, il presidente dell’African Development Bank, Akinwumi Adesina, ha dichiarato che l’Africa importa annualmente 35 miliardi di dollari di cibo dall’estero. La stima è che questa cifra cresca fino a 110 miliardi di dollari nel 2025 (Africanews.com, 21 aprile, 2017).

 

Adesina ha dichiarato che è urgente la diversificazione dell’economia africana e sostenere la rinascita delle aree rurali.

 

Ma che cosa è successo?

 

Lo Zimbabwe quando era Rhodesia aveva un surplus alimentare. La Repubblica Democratica del Congo quando era Congo belga esportava cibo, ma oggi la popolazione non riesce a sfamarsi. La stessa Tanzania e la Sierra Leone erano un tempo auto-sufficienti.

 

L’economista Ayittey sostiene che la crisi dell’agricoltura in Africa non può essere attribuibile alle condizioni del mercato internazionale e nemmeno alla mancanza di macchinari moderni (George Ayittey, Africa Unchained: the blueprint for development, Palgrave/MacMillan, 2004).

 

La spiegazione è nel malgoverno: troppo intervenzionismo statale, politiche e riforme sbagliate.

 

In molti paesi africani, al momento dell’indipendenza, le terre sono state confiscate (o “recuperate”, usando un eufemismo africano). Il ritorno della terra in mani africane è stata usata dai governanti come promessa di cambiamento e di riscatto sociale, rivolto alle masse rurali, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione del continente africano.

 

Tali promesse si sono poi scontrate con la realtà del fallimento delle riforme agrarie dei vari paesi, come nel caso delle politiche del sistema Ujamaa in Tanzania (vedi capitolo “Sviluppo Economico: Problemi e Soluzioni), o l’esperienza delle aziende agricole statali (state farms) in Ghana, che ha portato a un declino della produzione agro-alimentare. Il Mozambico, per esempio, creò subito dopo l’indipendenza nel 1975 delle state farms. Dopo solo cinque anni, la produzione alimentare per capita era diminuita del 12 per cento (African Famine: The Harvest of Socialist Agriculture, Fee.org, 1 ottobre 1985).

 

Gli aiuti internazionali, inoltre, non hanno favorito lo sviluppo agricolo. Di fatto, i paesi donatori non hanno mai promosso un’agricoltura destinata al mercato, ma piuttosto all’autoconsumo. In questo modo, si è cercato di fare sopravvivere il sistema di produzione tradizionale (ovvero agricoltura a bassa tecnologia), che nel frattempo si andava sgretolando, dovuto in larga parte anche all’aumento demografico della popolazione.

 

Uno dei più grossi ostacoli allo sviluppo dell’agricoltura africana è costituito dall’assetto fondiario. La proprietà della terra in Africa è spesso su base tribale/comunale. Là dove, invece, in epoca coloniale, si era proceduto a creare delle piantagioni industriali (e.g. coltivazione di cacao, palma da olio, albero della gomma, ecc.), le antiche società private fondate dai coloni, sono state sostituite dai regimi post-indipendenza da aziende di Stato.

 

Nel caso delle terre tribali, gli agricoltori africani si trovano davanti ad enormi ostacoli: non possono effettuare migliorie fondiarie, per mancanza di capitale e per l’impossibilità di avere accesso al credito da parte delle banche. Queste terre, infatti, non sono una proprietà privata, ma consentono solo il diritto d’uso a specifici gruppi tribali.

 

Inoltre, queste terre tribali permettono di praticare soltanto l’agricoltura di sussistenza, che consente di ottenere dalla terra il minimo necessario alla sopravvivenza. Questo è un problema per i contadini africani, perché non concede di effettuare alcun accumulo di ricchezza, che possa offrire un successivo investimento produttivo nella propria attività.

 

Pertanto, il contadino delle terre tribali vive in una condizione precaria: non ha risparmi in denaro, non ha scorte di cibo e non può ricevere prestiti dalle banche. Un’annata senza pioggia può quindi creare le premesse di una carestia.

 

Le stesse aziende di Stato non offrono alla forza lavoro locale delle condizioni di vita dignitose. I salari dei contadini sono a livello di mera sopravvivenza e non possono uscire dalla spirale della povertà. Inoltre, queste state farms vengono gestite su base clientelare, dove la corruzione gioca un ruolo dominante da parte degli apparati statali.

 

4.4 Afro-Capitalismo: Sviluppare E Adattare Il Settore Privato Ai Bisogni dell’Africa

Per rilanciare l’Africa, l’economista nigeriano e multimilionario Tony O. Elumelu ha coniato nel 2010 il termine “Afro-Capitalismo” (in inglese “Africapitalism“).

 

L’Afro-Capitalismo è un sistema sociale ed economico, fondato sul capitalismo e adattato ai bisogni dell’Africa. La formula di Elumelu è mettere il settore privato in prima linea nello sviluppo del continente africano. “L’Afro-Capitalismo è una filosofia economica secondo la quale il settore privato africano ha il potere di trasformare il continente africano attraverso investimenti a lungo termine, creando sia prosperità economica che ricchezza sociale”, scrive Elumelu nel suo sito (Tonyelumelufoundation.org).

 

L’Afro-Capitalismo funziona nel seguente modo: le fondazioni filantropiche che si occupano di aiuti economici devono iniziare a investire del settore privato africano, e invitare la comunità internazionale a intensificare gli investimenti a lungo-termine in settori chiave, come le infrastrutture e l’agrobusiness.

 

Il ruolo del governi africani deve pertanto essere limitato, in modo da sviluppare i settore privato e creare un ambiente per una nuova cultura imprenditoriale.

 

Elumelu spiega: “Afrocapitalismo significa che non dobbiamo lasciare il compito dello sviluppo [del continente africano] ai nostri governi, ai paesi donatori ed alle organizzazioni filantropiche. Il settore privato deve essere coinvolto” (Tonyelumelufoundation.org).

 

In un articolo per il quotidiano britannico, The Guardian, Elumelu descrive la sua visione per l’Africa e spiega che cosa significa la sua idea di Afro-Capitalismo:

 

“Ho messo a lungo in discussione l’approccio tradizionale allo sviluppo in cui donatori e governi investono nella sanità di base, istruzione e accesso al cibo nei paesi in via di sviluppo, con la speranza che i beneficiari diventino prima o poi autosufficienti.

 

“Mentre tutta l’assistenza deve essere riconosciuta e apprezzata, dobbiamo ripensare ai modi in cui aiutiamo gli altri. Dobbiamo rivedere la nostra definizione di sviluppo e gli strumenti che impieghiamo per raggiungerlo.

 

“Se supportiamo le persone in modo più sostenibile – aumentando l’accesso alle opportunità economiche – queste potranno permettersi di pagare gli stessi beni e servizi di base che i governi e i donatori talvolta faticano a fornire. Dobbiamo imparare a ‘dare’ dalla prospettiva di potenziare il destinatario piuttosto che renderlo dipendente. Quando investiamo in posti di lavoro e opportunità economiche, i beneficiari usciranno da soli dalla povertà.

 

“Questo approccio favorisce lo spirito imprenditoriale e il lavoro, preservando la dignità e rafforzando l’autosufficienza. Migliora anche la stabilità sociale perché le menti delle persone sono impegnate in modo costruttivo. Chiamo questo approccio Afro-Capitalismo…

 

“Il futuro che vogliamo per noi stessi dovrebbe essere uno che noi stessi creiamo. Esorto i responsabili politici e la comunità internazionale a riconoscere e abbracciare lo spirito imprenditoriale come nuovo modello per lo sviluppo dell’Africa, e non solo.

 

“Questo modello, che offre l’empowerment agli individui africani e promuove la forza dell’innovazione, l’iniziativa personale e il duro lavoro per affrontare i problemi, può cambiare il nostro continente per sempre. Una nuova rivoluzione che pone l’imprenditorialità al centro della sua strategia è fondamentale per vincere la lotta contro la povertà e ottenere una prosperità comune” (Tony Elumelu, Africapitalism: empowering people works much better than giving them aid, Theguardian.com, 19 maggio 2016).

  1. Le Nuove Generazioni Dell’Africa

Uno dei vari problemi dell’Africa è anche l’accesso all’istruzione. Nei paesi sub-sahariani, mancano le infrastrutture e l’accesso scolastico è limitato per chi vive fuori dai centri urbani. Le guerre civili, inoltre, sono un’ulteriore barriera all’istruzione.

 

Quando si parla di educazione, però, non si intende soltanto imparare a leggere e a scrivere, ma insegnare il pensiero critico. Si intende un’educazione, che possa essere un veicolo di cambiamento.

 

Alcuni educatori africani sostengono che l’innovazione e la creatività, necessari a trovare soluzioni per lo sviluppo di un paese, non passano attraverso l’insegnamento mnemonico e meccanico. Pertanto, si è aperto un dibattito sulla necessità di aprire scuole, che promuovano un nuovo tipo di apprendimento.

 

Nel 2016, un pastore battista dello Zambia, Ronald Kalifungwa, ha scritto un articolo, pubblicato dall’African Christian University, sull’importanza del pensiero critico. (Ronald Kalifungwa, The Importance of Critical Thinking in Africa, 16 aprile 2016).

 

Kalifungwa ha scritto provocatoriamente: “Gli africani sanno pensare criticamente? Non c’è ombra di dubbio che alcuni di loro lo facciano, ma, è anche giusto osservare che un gran numero di africani non lo fanno. Non lo fanno perché apparentemente non è da africani farlo, soprattutto quando il pensiero critico è usato per sfidare le tradizioni, la superstizione, il pensiero primordiale, la fede cieca e i dogma.”

 

Ha poi aggiunto: “Negli anni, in Africa sono stati promossi dei sistemi educativi, che non promuovono il pensiero critico. Basta dare un’occhiata ai curricula di molte istituzioni scolastiche per capire che nozionismo e memorizzazione sono messi al centro del sistema educativo… Se l’Africa vuole sviluppare la democrazia, la scienza, e altri settori, ha bisogno del pensiero critico.”

 

C’è una nuova generazione in Africa che vuole cercare alternative, che cerca punti di vista diversi e che si interroga sul futuro e sul proprio passato. Queste nuove generazioni vogliono analizzare i veri motivi dell’arretratezza socio-economica delle nazioni africane. In opposizione, alle retoriche di regime tese a scaricare le colpe del sottosviluppo, quasi sempre, all’esterno.

 

5.1 Educare Al Pensiero Critico

Patrick Awuah, ingegnere ed educatore, ha lanciato un approccio nuovo all’educazione in Africa. Dopo essere diventato milionario, lavorando per la Microsoft, Awuah è tornato in Ghana con una visione: fondare un luogo, dove formare i futuri leader dell’Africa. Nel 2002, ha quindi aperto l’Università Ashesi ad Accra, in Ghana.

 

Per Awuah, il problema dell’educazione nel continente africano non è tanto la mancanza di strutture, ma quello che viene insegnato nelle scuole. L’enfasi negli istituti africani è generalmente riposta nel mero apprendimento e nella memorizzazione. L’Università Ashesi, invece, vuole educare le nuove generazioni a un pensiero critico e a un’etica lavorativa.

 

I corsi di laurea, che si possono seguire all’Università Ashesi, sono in economia, informatica ed ingegneria. Ma soprattutto, il curriculum include seminari obbligatori di pensiero critico, problem solving e di discipline umanistiche.

 

Secondo Awuah, se gli studenti vengono abituati a pensare criticamente, svilupperanno capacità, abilità e valori, che li aiuteranno nella vita lavorativa. Potranno rafforzare un pensiero matematico, scientifico e/o umanistico.

 

Gli studenti della Ashesi devono anche sviluppare dei progetti che affrontano problematiche locali, in modo tale da prepararli ad adattare i propri skills lavorativi alla realtà del Ghana e dell’Africa in generale.

 

Lo scopo della Ashesi è anche di creare figure tecniche intermedie, che sono carenti in tutto il continente africano.

 

L’Università Ashesi potrebbe essere un modello da riproporre in altri paesi africani, in modo da educare una nuova generazione di leader africani a una solida etica imprenditoriale e a un approccio innovativo al cambiamento.

 

Sarebbe anche utile il finanziamento e la promozione di strutture educative (vocational schools), atte alla formazione di quadri tecnici non solo a livello universitario, ma anche a livello di operai specializzati.

 

Questa è la premessa per poter favorire uno sviluppo industriale o di servizi avanzati, necessari per la transizione del paese verso una società moderna.

 

5.2 Generazione dei Cheetah Vs Generazione degli Ippopotami

L’economista Ayittey ama le definizioni stravaganti, ma comunque efficaci.

 

Secondo Ayittey, in Africa è in atto uno scontro fra la generazione dei cheetah e quella degli ippopotami. Gli ippopotami sono i dittatori e i burocrati africani, appesantiti, bloccati nel fango, astigmatici e senza una visione per il futuro (George Ayittey, Why Africa needs ‘cheetahs,’ not ‘hippos’, Edition.cnn.com, 6 settembre 2010).

 

Gli ippopotami si siedono nei loro uffici con l’aria condizionata e aspettano l’arrivo degli aiuti internazionali. Gli ippopotami possono anche diventare feroci e uccidere chiunque si opponga al foreign aid, da dove traggono il proprio sostentamento e la loro ricchezza.

 

Gli ippopotami sono quelli che la scrittrice franco-senegalese Axelle Kabou – nel suo libro “Et si l’Afrique refusait le développement?” (“E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?, Harmattan, 1991) che ha creato scandalo per la sua critica alla società africana – descrive come persone dalla mentalità immobile.

 

Tra gli ippopotami possiamo includere l’ex dittatore della Repubblica Centrale Africana, Jean-Bedel Bokassa, che ha governato il paese dal 1966 al 1979. Auto-incoronatosi imperatore per emulare Napoleone e accusato di cannibalismo, Bokassa aveva cinicamente dichiarato: “Chiediamo i soldi ai francesi. Otteniamo il denaro e poi lo sperperiamo” (Spiegel.de, 4 luglio, 2005).

 

I cheetah (o ghepardi) sono invece la nuova generazione di africani. Quella agile e scattante. Quella che trova soluzioni creative ai problemi che affliggono i propri paesi. Quella intellettualmente preparata e pragmatica.

 

Questa nuova generazione capisce l’importanza dei diritti umani e della trasparenza. Non cerca scuse per i fallimenti dei propri governi, accusando il colonialismo occidentale, l’imperialismo, o il sistema economico internazionale.

 

Dove gli ippopotami vedono dei problemi, i cheetah vedono invece delle opportunità imprenditoriali (George Ayittey, Why Africa needs ‘cheetahs,’ not ‘hippos’, Edition.cnn.com, 6 settembre, 2010). Per Ayittey, sono i cheetah la vera speranza per la modernizzazione dell’Africa.

 

5.3 Chi Sono i Cheetah?

Gli scettici si chiederanno: ma questa generazione intellettualmente agile e preparata esiste davvero in Africa?

 

Basta fare un giro su internet per accorgersi che sono numerosi gli scritti e le iniziative di studiosi africani, che hanno sviluppato proposte serie per il futuro del loro continente.

 

Tra i cheetah non includerei soltanto i millenials africani, ma tutti coloro che promuovono in Africa un pensiero critico contro il pensiero unico dominante, contro le dittature, contro la corruzione, contro le politiche responsabili per un’economia africana stagnante.

 

Ho identificato come cheetah le seguenti personalità, alcune citate nel libro:

 

In Ghana, Patrick Awuah (@PatrickAwuahJr su Twitter), fondatore dell’Università Ashesi ad Accra (si veda il capitolo “Educare al Pensiero Critico).

 

Sempre in Ghana, Franklin Cudjoe (@lordcudjoe su Twitter), fondatore e il presidente del think-tank IMANI Centre for Policy and Education, che promuove le libertà individuali. Il suo istituto è tra 100 think-tank più importanti al mondo.

 

In Kenya, James Shikwati (@ShikwatiJames su Twitter) ha fondato l’Inter Region Economic Network, che promuove il libero scambio. Shikwati è molto critico degli aiuti internazionali. In un’intervista con Der Spiegel nel 2005, aveva dichiarato: “Quando c’è siccità in Kenya, i nostri politici corrotti di riflesso piangono per avere più aiuti. Questa richiesta raggiunge il World Food Program delle Nazioni Unite – che è un’enorme agenzia composta da apparatcik, che si ritrovano nell’assurda situazione di dover, da un lato, combattere contro la fame e, dall’altro, di poter ritrovarsi senza lavoro se la fame fosse sconfitta” (“For God’s Sake, Please Stop the Aid!” Spiegel.de, 4 luglio, 2005).

 

In Nigeria, l’economista nigeriano e multimilionario Tony O. Elumelu (@TonyOElumelu su Twitter) è l’inventore dell’Afro-Capitalismo e presidente della Tony Elumelu Foundation.

 

Sempre in Nigeria, Ibrahim Anoba (@Ibrahim_Anoba su Twitter) è il direttore esecutivo del think-tank African Liberty Organization For Development (ALOD) con sede a Lagos, che offre analisi di stampo liberale.

 

La vice-presidente dell’ALOD è una giovane ragazza kenyota Sarah Kawala, laureata in business management. Ha lanciato una sua start-up che si occupa di energie alternative.

 

Sempre in Nigeria, Amir Abdulazeez (@AmirAbdulazeez su Twitter) è un insegnante e un analista, che pubblica articoli, proponendo idee per lo sviluppo africano.

 

Jonah Isawa Elaigwu è un politologo e professore emerito di scienze politiche dell’Università di Jos in Nigeria.

 

In Uganda, Andrew Mwenda (@AndrewMwenda su Twitter), giornalista e fondatore del magazine ugandese The Independent.

 

In Tanzania, Godfrey Mwakikagile, scrittore e specialista in Studi africani.

 

Nella diaspora africana, la stessa Dambisa Moyo (@dambisamoyo ‏su Twitter), economista dello Zambia e scrittrice (si veda il capitolo “Prima l’Economia”).

 

Mansour Al-Hadj (@Mannyalhadj su Twitter) è un ricercatore del Chad, che risiede negli Stati Uniti.

 

Kenneth Amaeshi, Adun Okupe, Uwafiokun Idemudia sono i ricercatori che hanno scritto il libro “Africapitalism. Rethinking the Role of Business in Africa,” (Cambridge University Press, 2018) sul ruolo dell’Afro-Capitalismo, promosso da Tony O. Elumelu, nelle economie del continente africano. Kenneth Amaeshi è docente di origine nigeriana all’Università di Edimburgo. Adun Okupe, nigeriana, ha ottenuto un dottorato in economia all’Università di Edimburgo. Uwafiokun Idemudia, nigeriano, ha ottenuto un dottorato di ricerca in economia dall’Università di York in Canada.

 

L’economista ghaniano George Ayittey (@ayittey su Twitter)‏ docente universitario, scrittore e presidente della Free Africa Foundation  con sede a Washington D.C. Ayittey ha influenzato molti economisti e scrittori africani. ‏

 

Questa è solo una breve lista, ma posso assicurare che i nomi sono molteplici.

 

Conclusioni

Gli aiuti internazionali hanno fallito. Le migliaia di persone provenienti dall’Africa, che rischiano la vita ogni giorno per arrivare in Europa, ne sono una prova. La mancanza di libertà obbliga le persone a emigrare in cerca di speranza, libertà, dignità e lavoro. Se nel loro paese avessero avuto veramente un regime democratico, sarebbero in gran parte rimasti nelle loro terre, con i loro familiari

 

Pertanto, fino a quando il continente africano non troverà la via per la democratizzazione e per lo sviluppo economico, la crisi dei migranti continuerà.

 

Per attuare un cambiamento, i governi occidentali devono ripensare la cooperazione internazionale. Come sostiene l’economista dello Zambia Dambisa Moyo, la “cultura pop” – influenzata dalle star di Hollywood – ha promosso la falsa concezione che gli aiuti ai paesi in via di sviluppo potessero risolvere la povertà in Africa (Dambisa Moyo, “Dead Aid”, Penguin, 2009). Non c’è niente di più sbagliato. Gli aiuti hanno creato soltanto dei circoli viziosi, dove gli unici ad arricchirsi sono stati i dittatori.

 

I paesi donatori devono modificare le loro strategie in Africa. E’ urgente la creazione di un network con la società civile africana. C’è infatti una nuova generazione di africani, che hanno idee innovative e che sanno da dove iniziare il cambiamento. Queste persone, che cercano di promuovere una società basata sullo Stato di diritto, devono essere coinvolte nel processo di riformulazione degli aiuti.

 

Questo articolo ha cercato di identificare alcuni degli attori che potrebbero contribuire a un nuovo progetto per l’Africa. Perché non contattarli e ascoltarli? Per anni, i governi occidentali hanno dialogato soltanto con le dittature africane. E hanno sbagliato. Per anni, i governi occidentali hanno pensato di sapere che cosa fosse giusto per l’Africa, sostenendo per lo più sistemi economici socialisti. E hanno fallito.

 

E’ il momento di coinvolgere ed ascoltare nuove voci dall’Africa per trovare soluzioni politiche ed economiche comuni.

 

Soltanto ascoltando queste voci, l’Africa può avere un futuro.

E soltanto riavviando l’Africa, la crisi dei migranti può avere fine.

APPENDICE – CARTEGGI CON INTELLETTUALI AFRICANI

Amir Abdulazeez, Nigeria: Gli Aiuti Internazionali Non Hanno Avuto Alcun Impatto

 

Amir Abdulazeez (@AmirAbdulazeez su Twitter) è un geografo e un insegnante. Vive a Kano, in Nigeria.

 

Si definisce uno scrittore per passione e un critico per pulsione. Ha un suo blog (http://abdulazeezamir.blogspot.com), in cui discute i problemi socio-politici ed economici che affliggono la Nigeria.

 

Nel 2014, ha pubblicato un articolo, intitolato “How Africans Underdeveloped Africa” (“Come gli africani hanno portato al sottosviluppo dell’Africa”), in cui discute il fallimento delle leadership africane (Omojuwa.com, Febbraio 2014).

 

To: @AmirAbdulazeez

From: Anna Mahjar Barducci

Subject: Aiuti Internazionali

 

Caro Amir,

Come stai? Sto scrivendo un articolo sugli aiuti internazionali. Volevo sapere se mi potevi dare una tua opinione sul tema. Volevo sapere che cosa pensi degli aiuti internazionali e come dovrebbe essere ripensato il foreign aid?

 

In attesa di una tua gentile risposta,

Distinti saluti,

Anna

 

To: Anna Mahjar Barducci

From: @AmirAbdulazeez

Subject: Re: Aiuti Internazionali

 

Cara Anna,

Penso sia impossibile ripensare gli aiuti internazionali. Prima di tutto, gli aiuti vengono da paesi diversi e hanno diversi obiettivi politici, ideologici e anche differenti modelli.

 

Il foreign aid in Africa non si è mai concentrato sulla realizzazione di target specifici in un lasso di tempo determinato. Lo ha fatto solo sulla carta. Non è stato sviluppato nemmeno un meccanismo per monitorare il vero impatto di questi aiuti. Forse è per questo motivo che sembra non ci sia una fine a questa politica.

 

Si dovrebbe invece iniziare ad analizzare che tipo di impatto ha avuto il foreign aid negli ultimi 15-20 anni. Come ha aiutato a ridurre la povertà e ad apportare sicurezza nella regione?

 

Gli aiuti hanno sempre avuto lo scopo di risolvere i problemi africani più che a prevenirli e alla fine accade che il foreign aid non riesce nemmeno a trovare una soluzione.

 

Gli aiuti internazionali sembrano essere un cuscino per attutire gli effetti di crisi umanitarie e socio-economiche che spesso colpiscono la regione. In realtà, però, questi aiuti rendono l’Africa più pigra, inferiore e indebitata.

 

Parlando in maniera critica, il mondo occidentale sembra piuttosto alimentare i problemi. Alla base del modo di attuare dell’Occidente ci sono un’ipocrisia politica e una opinabile sincerità nei confronti dell’Africa. Di fatto, i paesi donatori non si sono mai chiesti come gli africani potrebbero contribuire allo sviluppo della propria regione.

 

L’Africa deve essere aiutata prima a riscoprire se stessa e a identificare il proprio scopo, per potersi sviluppare.

 

Il foreign aid dovrebbe concentrarsi sul trasferimento di tecnologia, in maniera che l’Africa possa iniziare ad elaborare le proprie risorse naturali.

 

Saluti,

Amir

 

To: @AmirAbdulazeez

From: Anna Mahjar Barducci

Subject: Libero Mercato

 

Caro Amir,

 

Se hai tempo, ho una domanda per te. Pensi che il libero mercato sia una soluzione per risolvere i problemi economici dell’Africa?

 

Grazie,

Anna

 

 

 

 

 

 

To: Anna Mahjar Barducci

From: @AmirAbdulazeez

Subject: Re: Libero Mercato

 

Cara Anna,

 

Non credo che il problema delle economie africane sia di natura ideologica. I concetti ideologici, legati alla sfera politico-economica, sono applicabili soltanto alle economie che hanno già una loro forma.

 

La prima domanda che dobbiamo farci è se i paesi africani hanno delle economie nel vero senso della parola.

 

Quello di cui ha bisogno l’Africa sono i prerequisiti per far funzionare un’economia, ovvero: pace, sicurezza, leadership e tecnologia.

 

Una volta sviluppati questi elementi, allora si può iniziare a parlare di costruire un’economia. E solo dopo si può discutere di quale sistema economico sia meglio per i paesi del continente africano.

 

In questo momento, l’Africa non sembra avere alcuna direzione.

 

Facciamo un esempio, nella regione ci sono delle società africane che producono materie prime, ma poi devono ricorrere alle importazioni per ogni prodotto finito di cui hanno bisogno, inclusi quelli che vengono prodotti utilizzando le materie prime, prodotte dal paese.

 

Senza affrontare le vere cause del problema, nessun sistema economico può funzionare in modo ragionevole. Quando l’Africa potrà produrre almeno i prodotti base con un minimo o addirittura senza un aiuto esterno, la ricchezza sarà garantita e le economie troveranno una loro via verso lo sviluppo.

 

A presto,

Amir

 

Think Tank Liberty Sparks: Il Foreign Aid E’ Immorale

 

Liberty Sparks è un think tank non-profit con sede a Dar-es-salaam, in Tanzania. L’istituto si definisce a favore dello stato di diritto, delle libertà individuali, del libero mercato e del diritto alla proprietà.

 

To: @Liberty_Sparks

From: Anna Mahjar Barducci

Subject: Aiuti Internazionali

 

Spettabile Liberty Sparks,

Vorrei conoscere la posizione del vostro istituto sugli aiuti internazionali e se pensate che questi debbano essere cancellati o mantenuti.

 

Grazie,

Anna

 

 

To: Anna Mahjar Barducci

From: @Liberty_Sparks

Subject: Re: Aiuti Internazionali

 

Cara Anna,

 

Il foreign aid dovrebbe essere cancellato. Solo in questo modo, i leader dei paesi poveri potranno imparare a cooperare e ad aprirsi al commercio.

 

Gli aiuti hanno soltanto arricchito una élite al potere e i loro amici, lasciando la maggior parte della popolazione senza mezzi economici.

 

Gli aiuti internazionali sono immorali. I finanziamenti ai paesi in via di sviluppo provengono dalle tasse di cittadini, a cui non è stato il permesso di come spendere questi soldi. I soldi delle loro tasse poi vanno a finire nelle tasche di leader politici. Questo è un furto.

 

Se proprio ci deve essere un foreign aid, questo dovrebbe andar direttamente alle persone e non ai governi. Non ci dovrebbe essere alcun tipo di business tra i donatori e i governi. I donatori dovrebbero inoltre cercare degli investitori e creare un cultura imprenditoriale.

 

Grazie,

Liberty Sparks

 

 

To: @Liberty_Sparks

From: Anna Mahjar Barducci

Subject: Re: Re: Aiuti Internazionali

 

Grazie, per la risposta. Se posso, ho altre due domande:

Il vostro Istituto pensa che per lo sviluppo dell’Africa sia necessario sviluppare prima l’economia o prima la democrazia?

 

 

To: Anna Mahjar Barducci

From: @Liberty_Sparks

Subject: Re: Aiuti Internazionali

 

Cara Anna,

 

Probabilmente, le due cose possono andare insieme. Ma è sicuramente necessario sviluppare prima l’economia, la democrazia è solo una parola per le pance vuote delle popolazioni africane.

 

A presto

 

 

Ibrahim Anoba, Nigeria: Il Liberalismo E’ La Via Per Lo Sviluppo

Ibrahim Anoba (@Ibrahim_Anoba su Twitter) è un ricercatore e direttore esecutivo del think-tank African Liberty Organization For Development (ALOD), son sede a Lagos, Nigeria.

 

Anoba si definisce un liberale. I suoi scritti sono volti alla promozione delle libertà individuali. In un suo articolo, intitolato “A Libertarian Thought On Individualism And African Morality” (Un Pensiero Libertario sull’Individualismo E La Morale Africana), Anoba sostiene la necessità di promuovere un nuovo umanismo per l’Africa (Ibrahim Anoba, Studentsforliberty.org, 22 maggio 2017).

 

To: @Ibrahim_Anoba

From: Anna Mahjar Barducci

Subject: Liberalismo

 

Caro Ibrahim,

Ho visto che molti centri di ricerca in Africa si definiscono “liberali”. Come mai sempre più africani vedono nel liberalismo delle soluzioni soprattutto per i problemi economici dell’Africa?

 

Cordiali saluti,

Anna

 

To: Anna Mahjar Barducci

From: @Ibrahim_Anoba

Subject: Re: Liberalismo

 

Cara Anna,

 

Molti ricercatori africani cercano nel liberalismo classico le risposte ai problemi dell’Africa. Il continente ha vissuto il socialismo e il comunismo per troppo tempo, senza alcun effetto tangibile sullo sviluppo.

 

Questo è il motivo per il quale, io ed altri ricercatori cerchiamo un cambiamento. Le libertà individuali e la liberalizzazione economica hanno contribuito molto di più a far prosperare le società che le loro antitesi.

 

A presto,

Ibrahim

 

Libri Consigliati

George Ayittey, Africa Betrayed, St. Martin’s Press, 1993. (In inglese)

 

George Ayittey, Africa in Chaos, St. Martin’s Press, 1998. (In inglese)

 

George Ayittey, Africa Unchained: the blueprint for development, Palgrave/MacMillan, 2004. (In inglese)

 

George Ayittey, Defeating Dictators: Fighting Tyrants in Africa and Around the World, St. Martin’s Press, 2011. (In inglese)

 

Godfrey Mwakikagile, Africa Is in a Mess: What Went Wrong and What Should Be Done, New Africa Press, 2004. (In inglese)

 

Dambisa Moyo, La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2011.

 

Dambisa Moyo, La follia dell’Occidente. Come cinquant’anni di decisioni sbagliate hanno distrutto la nostra economia, Rizzoli, 2011.

 

Kenneth Amaeshi, Adun Okupe, Uwafiokun Idemudia, Africapitalism. Rethinking the Role of Business in Africa, Cambridge University Press, 2018. (In inglese)

 

 

 

Associazioni ed Istituti di Ricerca sull’Africa

African Liberty Organization For Development, think-tank liberale con sede a Lagos, Nigeria (Alodpolicy.org)

 

African Liberty Students Organization, un’organizzazione di studenti liberali nigeriani. (Facebook.com/ALSO.Continental)

 

IMANI Centre for Policy and Education, think-tank che promuove le libertà individuali, Accra, Ghana. (Imaniafrica.org)

 

Inter Region Economic Network (IREN), think-tank liberale, Nairobi, Kenya.

(Irenkenya.com)

 

Centre for Free Market Enterprise, istituto di stampo liberale, Zomba, Malawi.

(Cfmemalawi.org)

 

Liberty Sparks, think-tank che promuove idee liberali nel campo economico, Dar-es-Salaam,Tanzania. (Libertysparks.org)

 

Uhuru Initiative for Policy & Education, think-tank che promuove il libero mercato, Dar-es-Salaam, Tanzania (Uipe.org).

 

Free Africa Foundation, think-tank fondato da George Ayittey a Washington D.C, (Freeafrica.org)

 

The Tony Elumelu Foundation, Africapitalism Institute, organizzazione fondata dall’economista nigeriano Tony Elumelu. (Tonyelumelufoundation.org)

 

African Liberal Network, nato nel 2003, l’organizzazione è un network di più di 40 partiti d’ispirazione liberale i Africa. (Africaliberalnetwork.org)

 

African Liberal Youth, un’organizzazione di giovani liberali africani, collegato all’African Liberal Network. (Africaliberalyouth.org)

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