Il sedicente stato islamico ha rivendicato l’attacco, con un ordigno esplosivo rudimentale, nel quale sono stati feriti, nei pressi di Kirkuk, nove membri di un team misto di forze speciali italiane e peshmerga curde, impegnate nell’identificazione di cellule terroristiche in Iraq. Il grado di attenzione degli organi preposti non si è mai abbassato, con la conseguente riduzione degli attentati in Europa, dopo una sanguinosa stagione. Tuttavia, la minaccia resta, fuori e dentro i nostri comuni confini. Il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha annunciato l’eliminazione di Abu Bakr al-Baghdadi, ma proprio la morte, e la sua ostentazione, sono la linfa della retorica di cui si alimenta il califfato nero, il quale, con celerità, produce nuovi leader pronti al martirio. Sull’altra sponda del Mediterraneo, in particolare, si compongono scenari che destano preoccupazione.
La fusione di gruppi jihadisti in Chad, Mali e Niger, è una prospettiva reale e un pericolo per la sicurezza europea. Con questi confinano due aree vacillanti, Algeria e Libia; e nonostante dalla caduta del regime, in Tunisia si siano susseguiti governi moderati, hanno avuto luogo gravi azioni, come quella al museo del Bardo nel 2015. La costa dell’Algeria e quella francese sono separate da 870 chilometri, ma la Libia dista 530 chilometri dal territorio greco, 270 chilometri intercorrono fra la Tunisia e la frontiera italiana, e 17 chilometri tra il Marocco e le spiagge spagnole. La miscela di prossimità geografica, retaggi coloniali, fondamentalismi, migrazioni, e presenza di ingenti giacimenti naturali, è pura nitroglicerina.
La dipendenza energetica dell’Europa rappresenta un ulteriore fattore di vulnerabilità. L’11 per cento del gas arriva dall’Algeria, una nazione a rischio quasi permanente di implosione violenta; di questo il 52 per cento in Spagna. L’Algeria è anche il secondo fornitore dell’Italia. L’estrazione petrolifera italiana e francese sono inoltre legate a doppio filo con la Libia che si trova immersa in un conflitto civile. In caso di collasso di questi sistemi, le riserve dell’Egitto non sarebbero sufficienti a supplire le esigenze. Con l’alternativa di un gasdotto dall’Israele al momento non fattibile dal punto di vista dei costi, la Russia rimane la sola alternativa viabile, per un’Europa subordinata alla politica estera statunitense, e promotrice di sanzioni contro la sua unica fonte solida.
A dispetto di vecchi poteri coloniali come la Francia e l’Italia, e la loro competizione per lo sfruttamento delle risorse, che finisce per complicare, e a tratti paralizzare, i tentativi di dialogo per la stabilizzazione, la regione è oggetto di un riassetto geopolitico in cui avanza il Cremlino. Questo ha consolidado un’alleanza nel campo della difesa con Algeria, Egitto e Libia, e tracciato un ampio arco di influenza che parte dalla Siria, passa dalla Turchia, e continua in Nordafrica. Gli Stati Uniti, invece, hanno sempre guardato a questo teatro come secondario alle operazioni guidate in Medio Oriente. La campagna ventennale contro al Qaeda, e poi l’Isis, in Afghanistan, Iraq, Siria, e Yemen, è stata condotta senza una prevenzione strutturata, e un contrasto continuativo, al loro travaso in Egitto, Libia, Tunisia e, ancora, in Chad, Mali e Niger.
La vicinanza di questi focolai all’Europa non è stata analizzata come una priorità, malgrado i duri colpi subiti. Negli anni novanta, gli estremisti algerini hanno esploso ordigni nella metropolitana di Parigi e sequestrato un jet della compagnia aerea di bandiera in un tentativo di shianto contro la Torre Eiffel. Pur se gli atti recenti sono stati provocati da cellule insediate nell’Unione, o lupi solitari di passaporto europeo e fede islamica, ciò non significa che non siano connessi e che l’Europa sia al riparo dal terrorisno nordafricano.
Inoltre, l’allargamento a est, fomentato dal Regno Unito che ha finito per rifiutare l’Europa intera, ha orientato considerevoli fondi e sforzi verso le economie in fase di pre e post adesione, aprendo buchi nella dimensione sociale della costruzione europea e la protezione delle sue fasce deboli e marginali, dove si sono creati lo scollamento e il malcontento, in cui si radicano due fenomeni diversi come il terrorismo islamico di matrice europea e il populismo che ha sovvertito l’ordine dei partiti tradizionali. Ne è scaturita la defezione degli stessi inglesi a seguito dell’importante esodo procedente da questa zona dagli anni duemila e gli effetti della crisi del 2008; anche se già la Francia, nel 2005, aveva rigettato la costituzione europea, sulla base della protezione del lavoro, nel tentativo di arginare l’ingresso dei polacchi. L’affluenza massiva dei rifugiati siriani nel 2015 ha evidenziato la mancanza di una visione condivisa in seno all’Unione Europea sulla gestione del suo intorno geopolitico. Nondimeno, il problema centrale delle migrazioni per l’Unione Europea non viene dall’est, bensì dal sud. Il fianco lasciato scoperto torna alla superficie con una potente domanda, alla quale l’Europa risponde con atteggiamenti difensivi e scarsa lungimiranza.
L’Africa è un mondo in rapida evoluzione caratterizzato da una graduale, ma progressiva, crescita e riduzione del debito, provvisto delle più importanti materie prime, con fonti di energia e riserve uniche, corrispondenti a un terzo di quelle del pianeta, classi medie equivalenti a quelle dell’India, mille milioni di persone pronte a lavorare e consumare, reti mobili globali, una gioventù decisa a vivere meglio, a qualunque prezzo. In venticinque anni, le necessità di consumo dell’Africa saranno triplicate rispetto a quelle europee. Mentre la Cina si sta preparando a questo appuntamento, e le immense opportunità che ne derivano, l’Europa continua a essere assente. Il progetto One belt, One Road, concepito per l’Eurasia, si estende ora all’Africa, nel contesto di una cooperazione di lungo termine, per l’infrastruttura terrestre e navale, e l’inserimento nelle reti commerciali. I dirigenti africani lo hanno accolto con un plebiscito. La Cina sa, per esperienza, che la demografia ben gestita è un elemento chiave nel processo di globalizzazione.
Sebbene lo sviluppo si sia dispiegato in maniera apprezzabile, è indubbio che sia desiguale, e il dinamismo africano non impedisce che la gente continui ad abbandonare i propri paesi. Del resto, nel XIX secolo, di fronte a una simile situazione mutatis mutandis di crescita demografica ed economica, dall’Europa si spostarono in 60 milioni. In aggiunta, una forza contraria e oscurantista, dall’alto potenziale disgregatore, sta riducendo a pezzi l’Africa, facendo dell’integralismo religioso un attore centrale e aumentando la superficie di guerra. Il successo della predicazione integralista in Africa non ha molto a che vedere con la religione: gli africani hanno sempre espresso un islam tollerante e pacifico. Oggi le cose stanno cambiando per lo stallo sociale di generazioni condannate alla miseria in un continente che sarebbe in grado di soddisfare le loro giuste aspirazioni.
Per l’Europa, investire in Africa, e gestire con generosità i flussi dal sud, può significare assicurarsi una posizione dominante, laddove si trova il centro delle esportazioni che favoriranno il mercato comunitario. Gli europei devono scommettere sull’Africa per evitare che gli africani gli voltino le spalle, quando diventeranno il prossimo polmone dell’economia globale. C’è una verità storica molto semplice: l’Africa ha bisogno dell’Europa e l’Europa ha bisogno dell’Africa.
Per replicare allo scetticismo, l’Europa deve liberarsi dalla trappola dell’impasse fra il liberalismo cosmopolita dei suoi principi fondatori, e l’attuale nazionalismo rampante che, esacerbato dalla crisi e la pressione della mobilità umana, scatena esiti devastanti sulla società e la vita politica, e impedisce di raggiungere un’orientazione consensuata sul futuro per affrontare le grandi sfide. Se l’Europa si impegnasse in un rinnovato modello di relazione con i popoli a essa vincolati per cultura e storia, potrebbe aiutare a innalzare non solo il livello dell’economia, ma quello della civiltà.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.