Se Trump decidesse di attaccare la Corea del Nord, la sua sarebbe una guerra preventiva? Dipende da come decidiamo di tradurre il termine inglese preventive. Ad esempio, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Herbert R. McMaster, ha detto qualche settimana fa alla CNN: “Stiamo preparando dei piani per una guerra preventiva (preventive war).”
Ma cosa intendono gli americani per preventive war?
La risposta non è così scontata come potrebbe sembrare, perché nel lessico militare anglosassone esiste una distinzione terminologica che la nostra lingua non riesce a cogliere.
È la distinzione tra preventive e preemptive. Siccome i dizionari italiani, di solito, traducono entrambi i termini con “preventivo”, la distinzione si perde.
Ma dove sta la differenza?
Preemptive war
Cominciamo dal termine preemptive, così come viene usato nell’espressione preemptive war. Una preemptive war è un attacco militare giustificato dalla certezza (al di là di ogni ragionevole dubbio) che l’obiettivo colpito è sul punto di iniziare a sua volta un attacco.
Supponiamo, ad esempio, che il governo della Corea del Nord dichiari che attaccherà la Corea del Sud tra un mese esatto da oggi, e che inizi ad ammassare mezzi e uomini alla frontiera. In questo caso, se la Corea del Sud decidesse di attaccare per prima, farebbe una preemptive war, una vera e propria guerra preventiva.
La logica della guerra preventiva (preemptive) è, dunque: “Io colpisco te, perché sono sicuro che tu stai per colpire me.”
Preventive war
Veniamo adesso alla preventive war. Si tratta di un attacco militare che viene iniziato nella convinzione che un attacco da parte dell’obiettivo, pur non essendo imminente, è però inevitabile, e che il temporeggiare comporterà, nel lungo periodo, un danno maggiore.
La logica, qui, è: “Io colpisco te adesso perché so che, se non lo faccio, tu colpirai me tra qualche anno.” Proprio perché manca del carattere dell’imminenza, sarebbe forse meglio tradurre l’espressione preventive war con “guerra precauzionale”, piuttosto che con “guerra preventiva”.
Quando, dunque, McMaster dice che gli USA stanno preparando i piani per una preventive war, non intende dire che la Corea del Nord rappresenta una minaccia certa e imminente per la sicurezza statunitense, ma che è una minaccia tale da richiedere una guerra precauzionale.
La distinzione tra guerra preventiva (preemptive) e guerra precauzionale (preventive) non è affatto una questione di pura semantica, perché il diritto internazionale permette le guerre autenticamente preventive, mentre vieta le guerre precauzionali.
Per inciso: buona parte del dibattito italiano sulla seconda guerra irachena era viziata da questa ambiguità terminologica. Abbiamo tradotto la “preventive war” di Bush con “guerra preventiva”, quando sarebbe stato più corretto chiamarla precauzionale.
Gli americani sono stati accusati (da alcuni) di portare l’attacco a un paese che non rappresentava una minaccia reale e immediata per gli USA, il che è vero.
Ma non è per questo che si è deciso l’attacco. Quella di Bush era una guerra precauzionale (preventive), la quale è molto più controversa su un piano etico.
La guerra preventiva (preemptive) è molto più facile da giustificare, perché rientra nella nozione di autodifesa. Molto banalmente: se qualcuno mi punta una pistola contro, non devo aspettare che prema il grilletto per potermi difendere.
Ma la guerra precauzionale è una situazione nella quale, per stare all’esempio, io sparo a qualcuno con cui ho dei dissidi perché vengo a sapere che è andato a comprarsi un’arma. Da questo punto di vista, l’azione americana è molto più difficile da giustificare.
Difficile, ma non impossibile.
C’è infatti un problema che bisogna considerare. Un problema che è stato considerato per la prima volta dal Alberico Gentili, in un trattato nel 1598 che si intitola De jure belli. Il problema è che, in situazioni di conflitto, non sappiamo quali siano le reali intenzioni del nemico.
Questo rende molto difficile avere informazioni affidabili sulle quali basare le proprie decisioni. Nel dubbio, diceva Gentili, è meglio agire. Aspettare ti mette solo in una situazione di svantaggio.
Ma chi dà il diritto a uno Stato di agire così? Nessuno! Gentili era, infatti, un fautore della teoria della guerra regolare, secondo la quale non esistono diritti nelle guerre tra Stati, perché non è possibile stabilire da che parte sta la ragione.
Se due individui litigano per una questione di diritto, è possibile stabilire chi dei due ha ragione e chi no. Questo perché esiste un giudice super-partes che amministra la giustizia.
Ma quando due Stati indipendenti litigano per una questione di diritto, non è possibile stabilire chi ha ragione e chi no, perché non esiste un giudice super-partes. Per i teorici della guerra regolare il diritto è soggetto a vincoli territoriali, nazionali.
Al di fuori di questi confini, non esiste il diritto. Quindi parlare di guerra giusta o sbagliata è nonsenso: solo l’esito finale della guerra servirà come arbitro del conflitto.
Io credo che la teoria della guerra regolare sia sbagliata, perché confonde completamente tra legge morale e legge giuridica. Dal fatto che non vi sia un diritto internazionale e un giudice che dirime le questioni tra Stati, non segue affatto che non ci sia differenza tra giusto e sbagliato.
Se l’etica coincidesse con il diritto, allora sarebbe impossibile affermare che una legge è ingiusta o sbagliata, perché tutte le leggi sarebbero per definizione giuste.
Per tornare alla guerra precauzionale, ritengo che attaccare uno Stato semplicemente perché sta crescendo in potenza senza che questo abbia manifestato alcuna intenzione bellicosa sia inammissibile. Meglio rinforzare le proprie difese.
Certo è che se la Corea del Nord continua a sparare missili sopra la testa dei giapponesi corre un grosso rischio di essere annientata.