I flussi migratori hanno sempre caratterizzato la storia dell’uomo sulla terra, fin dall’antichità. Gli spostamenti sono avvenuti per i più vari motivi: condizioni di miseria, territori ostili, guerre.
Il desiderio di migliorare il proprio stile di vita ed assicurare un futuro alle generazioni successive è certamente la sfida più grande della nostra esistenza.
Insieme ai problemi delle trasformazioni ambientali e dal riacutizzarsi della conflittualità bellica in varie parti del mondo, gli spostamenti delle popolazioni sono tra i fenomeni che vengono maggiormente percepiti nella società contemporanea.
Su di essi si catalizzano le paure e le ostilità delle mai sopite pulsioni xenofobe dei paesi di accoglienza, moltiplicati e facilitati oggi dalla riduzione delle distanze geografiche e dalla velocità di trasmissione dei messaggi mediatici.
Nel secolo scorso l’esodo di massa ha costituito “grande risorsa per paesi vasti e in via di sviluppo come gli stati uniti d’America.
Tuttavia, nell’epoca attuale, con la spinta tecnologica che migliora i servizi, ma non può garantire i livelli di occupazione lavorativa che un tempo garantiva la grande industrializzazione, diviene inevitabile lo scontro tra varie etnie provenienti da culture molto differenti.
L’Italia non è in grado di sostenere un flusso migratorio così ingente, per vari motivi: alla crisi economica che rischia di generare nelle nostre periferie una “guerra fra poveri”, si aggiunge l’atavica e carente struttura del nostro Stato e del suo sistema organizzativo-burocratico.
Senza contare che l’integrazione fra civiltà e modi di pensiero esige gradualità e tempi lunghi e le culture di buona parte degli immigrati non sono allo stato attuale comparabili con i nostri standard di libertà civile e democratica.
A queste ragioni politiche si oppongono altre di diverso segno basate su considerazioni morali: se ne fa portatrice soprattutto parte della Chiesa cattolica e il papa in prima persona. Bergoglio arriva addirittura a dire che “respingere gli immigrati è un atto di guerra”.
Più che un conflitto fra politica, si tratta però a mio avviso del conflitto fra due etiche diverse: quella cattolica della convinzione, quella laica e politica della responsabilità. Quest’ultima, al contrario della prima, tende a considerare sempre la conseguenza delle proprie azioni, e non dice mai fiat iustitia et pereat mundus.
Secondo Kant, tuttavia, si può fare giustizia, cioè essere giusti, e non far perire il mondo. Il suo “progetto di “pace perpetua” esige però l’esistenza di uno “Stato cosmopolitico” che, ammesso e non concesso che sia (come lui crede) auspicabile, è ancora molto al di là da venire.
In Kant l’idea di una pace perpetua è resa impossibile dal vigere di assetti o istituzioni politiche ingiuste entro gli Stati: il suo progetto di pacifismo giuridico non è solo ancorato da una filosofia della storia, ma è reso coerente dallo sfondo più ampio della teoria etica.
L’alternativa non è però, kantianamente, sempre a mio avviso, fra la “pace perpetua” o la guerra, ma, allo stato attuale, fra la guerra e una pace governata dalla politica e dagli Stati.