Un nuovo meme si aggira nella rete: è quello sul paradosso della tolleranza di Popper. Eccolo qua:
Il meme illustra un pensiero che si trova ne La società aperta e i suoi nemici (precisamente la nota 4 al capitolo VII del volume I), e che dice: “la tolleranza illimitata deve portare alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con essi.” (Popper, 1943, pag. 346)
Isolato dal contesto, questo passo potrebbe indurre a credere che, per Popper, fosse lecito usare la forza per impedire agli intolleranti anche soltanto di esprimere le loro idee intolleranti.
Ma non è così. Il passo, infatti, continua dicendo: “In questa formulazione, io non implico, per esempio, che si debbano sempre sopprimere le manifestazioni delle filosofie intolleranti; finché possiamo contrastarle con argomentazioni razionali e farle tenere sotto il controllo dell’opinione pubblica, la soppressione sarebbe certamente la meno saggia delle decisioni.
Ma dobbiamo proclamare il diritto di sopprimerle, se necessario, anche con la forza; perché può facilmente avvenire che esse non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano ripudiare ogni argomentazione; esse possono vietare ai loro seguaci di prestare ascolto all’argomentazione razionale, perché considerata ingannevole, e invitarli a rispondere agli argomenti con l’uso dei pugni o delle pistole.” (Popper, 1943, pag. 346)
Popper, dunque, non vuole sopprimere l’espressione delle opinioni intolleranti – non finché rimangono opinioni difese a parole e non con i fatti. Ciò che vuole sopprimere sono le azioni violente che da quelle opinioni derivano. Qualunque liberale – e Popper lo era – conosce bene questo principio: si chiama principio del danno, e distingue chiaramente tra parole e azioni. Le parole non arrecano danno, quindi non devono essere soppresse.
Contro questo argomento si solleva solitamente un’obiezione: ci sono dei casi in cui anche le parole possono fare dei danni.
Il caso tipico è quello di chi procura un falso allarme, ad esempio gridando: “Al fuoco!” in un teatro gremito. La gente si allarma e corre verso le uscite. Nella concitazione del momento una persona muore schiacciata dalla folla terrorizzata. In questo caso, le parole arrecano certamente un danno. Non direttamente, ma per la reazione che inducono in chi le sente pronunciare.
Se accettiamo questa obiezione, dobbiamo riformulare il principio del danno e dire: è lecito usare la forza contro quelle azioni che arrecano danno agli altri, ma anche contro coloro che pronunciano parole che possono indirettamente arrecare un danno agli altri.
A questo punto sorgono due problemi:
1) Che cosa dobbiamo intendere esattamente per “danno”?
2) Quanto può essere lunga la catena di eventi che, dalla parola, porta al danno?
Esaminiamo un problema per volta.
1) Siamo tutti d’accordo che se io tiro un pugno in faccia a qualcuno gli procuro un danno. Ma se, invece di ferirlo fisicamente, ferisco i suoi sentimenti? Anche questo conta come un danno?
Se la risposta è sì allora, ne consegue che è lecito usare la forza contro di lui, ad esempio chiedendo che venga punito o esigendo che ricompensi la vittima. Ma una società che implementi una nozione così estesa di “danno” sarebbe fortemente repressiva.
Sarebbe una società nella quale si potrebbe essere multati (o, al limite, incarcerati) per aver tirato una bestemmia, o per aver fatto una battuta razzista, o per aver offeso i sentimenti del benpensante di turno che vede una coppia gay baciarsi in un parco (perché anche lui si sente offeso).
Forse è un po’ troppo.
Forse è meglio restringere un po’ la nozione di “danno”. Un’idea potrebbe essere questa: l’offesa dei sentimenti altrui non conta come danno. Non è bello offendere i sentimenti degli altri. Ma non è sufficiente a per mettere in atto forme di repressione. Contano però quelle parole che possono indirettamente provocare un danno fisico agli altri. Il caso del teatro che facevo prima è un esempio.
2) Questo però mi porta al secondo problema: quanto può essere lunga la catena di eventi che dalla parola porta al danno? Nel caso del teatro, la catena è molto corta: la morte della persona che rimane schiacciata dalla folla è provocata dalle parole di colui che, un istante prima, ha gridato: “Al fuoco!” Ma come dobbiamo comportarci nel caso in cui la catena di eventi sia molto più lunga?
Supponiamo che qualcuno vada nel famoso speaker’s corner di Hyde Park per fare un discorso antisemita (per chi non lo sapesse, lo speaker’s corner è un luogo che si trova nella zona nord orientale del parco, dove chiunque può tenere discorsi: pare che vi abbiano parlato anche Marx e Lenin).
Tra gli uditori, c’è un individuo che rimane fortemente impressionato dal discorso. Costui decide di passare ai fatti e di aggredire il primo ebreo che incontra per strada.
La domanda è: oltre all’autore materiale del fatto, è giusto punire anche l’oratore del parco? Suppongo che molti risponderebbero “sì”, a questa domanda. Dopotutto, non c’è una grande differenza tra questo caso e il caso del procurato allarme nel teatro.
L’unica differenza è che, in questo caso, la catena degli eventi che porta all’aggressione è un po’ più lunga di prima: l’uditore deve prima di tutto convincersi che il discorso dell’oratore era giusto. Poi deve convincersi che bisogna fare qualcosa in proposito. Poi deve decidere che la cosa giusta da fare è aggredire il primo ebreo che incontra per strada.
La sostanza, però, non cambia. Se è giusto punire chi procura un falso allarme, è giusto anche punire chi fa discorsi antisemiti.
Altra domanda: se è giusto punire l’oratore dopo che il danno è stato commesso, è anche giusto impedirgli di fare il suo discorso, in modo tale da prevenire ogni possibile danno? Suppongo che chi ha risposto “sì” alla prima domanda, risponderà “sì” anche in questo caso.
Se sappiamo che può esistere un nesso tra un discorso fatto e un danno provocato, abbiamo una buona ragione per impedire che il discorso venga pronunciato.
In questo modo, dobbiamo aggiungere al principio del danno la seguente clausola: non importa quanto è lunga la catena di eventi che separa un discorso da un danno. In ogni caso, la censura di un discorso potenzialmente pericoloso è giustificabile.
È un principio accettabile questo? Forse per qualcuno lo è. Ma io non vorrei vivere in una società che lo mettesse in pratica. Perché, se la lunghezza della catena di eventi non conta, allora dovremmo chiedere al nostro governo di ritirare dal commercio tutte le copie del Mein Kampf, tutte le copie del Manifesto del partito comunista, tutte le copie della Bibbia (nella misura in cui l’uso della violenza viene giustificato).
Non basta. Bisognerebbe anche vietare tutti i film che contengono scene di violenza (a qualche testa calda potrebbe sempre venire in mente di emulare i cattivi), tutta la pornografia che simula scene di rapporti non consensuali, tutti i videogiochi violenti, e così via.
Ma non basta ancora. Dovremmo vietare anche tutti quei discorsi che sono fortemente critici nei confronti della società nella quale viviamo. A questo proposito, vorrei citare un fatto che mi ha colpito molto.
Quando gli americani hanno ucciso Osama Bin Laden, nel suo rifugio hanno trovato un paio di libri di Noam Chomsky. Il Chomsky politico, come noto, è un critico implacabile dell’Occidente capitalista, è uno che non esita a chiamare “criminale”, “terrorista” il governo americano.
Ora, è ragionevole credere che uno come Bin Laden solidarizzasse completamente con le idee espresse in quei libri. Dobbiamo allora impedire a Chomsky di pubblicare perché qualcuno potrebbe trovarvi delle buone ragioni per fare attacchi terroristici in Occidente? Qual è la differenza tra Chomsky e il nostro ipotetico oratore nel parco?
Io credo che bisogna stare molto attenti quando si chiede la repressione delle idee intolleranti. Un conto è rispondere alle parole con le parole, altra cosa è pretendere che le parole vengano messe a tacere con la forza.
La mia impressione è che i paladini della censura non si rendano conto di un fatto: che se le loro idee venissero messe in pratica, torneremmo a quel fascismo che tanto detestano.