Come ha scritto Biagio de Giovanni, sul «Mattino» del 3 luglio – Insieme contro, il solito vizio della sinistra – «Per l’Italia, il 4 dicembre, la bocciatura della proposta referendaria, è la data che fa da spartiacque: nessuno intendeva attribuire a quella riforma una funzione salvifica, e non era difficile vedere suoi difetti e limiti, ma là dentro c’era la possibilità di un nuovo corso politico, e magari di tensioni e conflitti ma finalmente marcati dal segno di un passaggio costituzionale e politico di grande portata».
Si può essere d’accordo o in disaccordo con lo studioso rimasto uno dei pochi cervelli pensanti della sinistra italiana ma i fatti sono inconfutabili e i fatti, dicevano gli Antichi, sono divini.
E il dato certo con cui dobbiamo oggi fare i conti è presto detto: «Dopo quel fallimento, il terreno di scontro si è ricollocato nell’alveo di un torrente limaccioso che riporta con sé tutti i detriti di una storia, la quale chiede strada a gran voce ma stenta a muoversi ostacolata dai suoi stessi detriti che più o meno inconsapevolmente incontra sul suo percorso».
Mai il sistema politico italiano era caduto così in basso, posto davanti a sfide che non possono essere fronteggiate né da solidi e strutturati partiti, né da classi dirigenti in grado di tenere la rotta nelle tempeste che si abbattono sullo stato nazionale da ogni parte – e in primis dalla questione migrantes.
Chiamato a confrontarsi con la realtà, la political culture dominante – quella che ha colonizzato media, scuole medie, Università, enti artistici, case editrici etc. – come sta reagendo, quali nuove categorie e metodi di osservazione dei processi sociali, politici ed economici sta allestendo nei suoi vecchi laboratori di analisi e di ricerca?
È desolante constatare che, ancora una volta, l’intellighenzia italica non fa luce sul cammino da percorrere, non spiega la crisi che da anni si è abbattuta sul bel paese perché è essa stessa un momento, o un fattore, di quella crisi: non è l’occhio della mente che esamina il dente cariato ma è essa stessa uno dei denti cariati.
Ne sono conferma due articoli, di diverso tenore, pessimista l’uno, ottimista l’altro, che mi è capitato di leggere in questi giorni. Il primo, Sinistra-destra o destra-destra?, dell’amico Paolo Bagnoli, capofila degli ‘storici delle coscienze integerrime’, è uscito sul quindicinale post azionista (sic!), «Nonmollare», il 3 giugno; il secondo, di Nadia Urbinati, Le bandiere della società civile, è uscito lo stesso giorno su «Repubblica» [NdR l’articolo è ripubblicato e consultabile su «Libertà e Giustizia»].
Entrambi gli autori ‘traggon gli auspici’, per un riscatto della sinistra così profondamente umiliata da Matteo Renzi, da due icone del Pantheon nazionale antifascista: Stefano Rodotà (Bagnoli) e Lelio Basso (Urbinati). Del giurista giacobino, recentemente scomparso, viene citata una civilissima riflessione: «Basta con questa storia che non c’è più distinzione tra destra e sinistra!
La distinzione c’è, eccome, per me al centro della politica ci sono la dignità, l’uguaglianza, i diritti, la ridistribuzione delle risorse. Non è sinistra, questa?». Del Grande Vecchio, Lelio Basso, viene ricordato il discorso all’Assemblea Costituente del 6 marzo 1947: «Finché non sarà garantito a tutti il lavoro, non vi sarà veramente democrazia politica; o noi realizziamo interamente questa Costituzione, o noi non avremo realizzata la democrazia in Italia».
È desolante pensare che in quelle due citazioni si racchiude, ormai, tutta la filosofia della sinistra e che tale filosofia sia posta alla base del «proliferare di movimenti a sinistra del Partito democratico, voci che emergono dalla società civile e aspirano a proporre visioni politiche».
«Questo movimento plurale nella sfera pubblica è positivo – scrive un’eccitata Urbinati – è il segno di una società non apatica, ricca di potenzialità, insoddisfatta del corso attuale del partito di governo e del governo stesso e preoccupata del persistente astensionismo elettorale».
Se lo sbocco di tutto questo atavismo ideologico fosse solo la ricomparsa in campo dei reduci degli anni formidabili, non ce ne dovremmo preoccupare molto. Sennonché è la mens totalitaria sottesta a questo (auspicato ma improbabile) revival che spaventa.
Se la sinistra significa «la dignità, l’uguaglianza, i diritti, la ridistribuzione delle risorse», la destra che a quei valori è ritenuta estranea, non si vedrà negare, almeno moralmente, ogni diritto di cittadinanza politica?
E se lavoro e cittadinanza non stanno insieme (ed è difficile tenerli insieme se lo stato non si assume la direzione di tutto l’apparato economico e produttivo…), quanti esaltano la ‘società di mercato’ – produttrice di ineguaglianze – non dovrebbero essere tenuti lontani dalla cabina di comando, dove si decide la rotta assegnata alla nave dello Stato?
Già si è distribuita nelle scuole la Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, resta solo il passo successivo, quello di proibirvi l’entrata, ad es., di Verso la servitù di Fr. A. Hayek, giacché se la filosofia della Scuola austriaca (che, peraltro, non è la mia) dovesse prendere piede a livello di massa, ci potremmo trovare al governo partiti non disposti a costituzionalizzare i ‘diritti sociali’, anche se favorevoli alle ‘leggi sociali’, ovvero alle risorse date ai meno abbienti quando la ricchezza è diffusa e l’economia tira.
La sinistra non farà mai un serio esame di coscienza tornando a Stefano Rodotà o a Lelio Basso ma solo prendendo atto della «realtà effettuale» e chiedendosi, ad es., perché a Genova e a Sesto San Giovanni si sono rotte le righe. Con la retorica – solo in apparenza buonista – non si va da nessuna parte.