Bruno Leoni, un pensatore dissonante nel liberalismo italiano

Bruno Leoni pubblicò Freedom and the Law nel 1961 negli Stati Uniti, dove il libro venne ristampato undici anni dopo. La traduzione italiana, La libertà e la legge, vide la luce solo nel 1995, grazie ad Aldo Canovari, fondatore della casa editrice liberilibri di Macerata, una figura essenziale per la diffusione e il rinnovamento del pensiero liberale nel nostro Paese. Sempre presso liberilibri appare oggi una nuova traduzione dell’opera, curata da Carlo Lottieri, La libertà e il diritto, con un’ampia introduzione di Raimondo Cubeddu. In Freedom and the Law sono raccolti i testi delle conferenze tenute da Leoni in California, insieme a Milton Friedman e a Friedrich von Hayek, fondatore della Mont Pèlerin Society, di cui lo stesso Leoni fu Presidente.
Leoni introdusse, nell’ambito del liberalismo italiano, autori estranei a una tradizione fortemente influenzata dall’idealismo. La religione crociana della libertà, non indicando i mezzi necessari per dar vita alle istituzioni che avrebbero dovuto realizzarla, attribuiva al liberalismo la dimensione metapolitica di un “prepartito”, in cui ogni forza antitotalitaria poteva genericamente riconoscersi. Tale impostazione non ha facilitato il confronto con quelle filosofie che, dall’empirismo all’utilitarismo, dal pragmatismo al falsificazionismo, hanno contribuito concretamente allo sviluppo delle liberaldemocrazie.
Freedom and the Law si colloca tra La società libera di Hayek, del 1960, e Capitalismo e libertà di Friedman del 1962, autori poco conosciuti e poco amati in quegli anni in Italia, dove apparivano dissonanti per le loro posizioni liberiste. L’individualismo radicale di Leoni, che riprendeva la lezione della Scuola austriaca, si poneva fuori dai confini che delimitavano la ricerca accademica italiana nell’ambito delle scienze economiche, della storia del pensiero politico e della filosofia del diritto, la disciplina che lo stesso Leoni insegnava all’Università di Pavia. E’indicativo che Nicola Matteucci, nel suo Il liberalismo in un mondo in trasformazione, del 1972, non citi affatto l’opera di Leoni.
Il principio maggioritario costituisce per Leoni una minaccia costante nei confronti delle libertà individuali e delle minoranze. Individua così, nel diritto romano e nella common law, le tradizioni giuridiche in cui la legge, che nelle democrazie rappresentative è un’espressione di leadership contingenti, si definisce attraverso un lento sviluppo storico. Leoni, allo stesso modo di Hayek, distingue legge da legislazione. Se la legge, come il linguaggio, le convenzioni sociali o il commercio, è il frutto di una graduale evoluzione, la legislazione è legata alle scelte dei governi che, attraverso la pianificazione, potranno realizzare i loro programmi elettorali.
Nel quadro della common law, sottolinea Leoni, l’intervento dello stato si limita a regolare l’azione dei diversi attori presenti nella società civile. Tutto questo si riflette nella certezza del diritto, che Leoni intende in due modi: può infatti indicare la correttezza di un testo legislativo, ma anche la garanzia che i cittadini possano elaborare piani a lungo termine, in base a “regole adottate spontaneamente in comune dalla gente e infine accertate dai giudici per secoli e generazioni”. Il concetto di legittimità elaborato dalla giurisprudenza romana può riconoscersi, secondo Leoni, nella rule of law, come già sosteneva il giurista inglese Albert Venn Dicey. Le corti di giustizia, in Inghilterra, non decretavano infatti norme nel modo imperativo adottato dai legislatori continentali, per i quali la legge coincideva con la volontà sovrana. Sarebbe dunque inopportuno accostare lo stato di diritto europeo con la rule of law, che rinvia allo specifico processo legislativo della common law.
Per evidenziare le analogie tra la common law e il diritto romano, Leoni ricorre a un passo del De Republica, in cui Cicerone cita Catone il Censore, che vantava le virtù giuridiche romane rispetto agli ordinamenti greci. A Creta, a Sparta o ad Atene, sosteneva Catone, le leggi erano emanate da individui singoli, come Minosse, Licurgo o Teseo, mentre a Roma il diritto non era stato fondato nell’arco della vita di un solo uomo, ma nel corso di generazioni, perché “non c’è mai stato al mondo un uomo così intelligente da prevedere tutto”.
Tali considerazioni, in cui si avverte l’influenza di Hayek e di Ludwig von Mises, consentono di misurare la distanza che separa Leoni dal positivismo giuridico, e da Hans Kelsen in particolare. Per Leoni, alla base del diritto, che in Kelsen si identifica con lo stato, vi è uno scambio di pretese individuali e “la richiesta di un comportamento altrui rispondente al nostro interesse”. In questo gioco di pretese, simile all’incrociarsi di domanda e offerta in economia, egli coglie l’essenza del diritto che, nel contesto di comportamenti prevedibili, deve garantire un equilibrio, non imporlo. Un equilibrio che si rivela tuttavia problematico, in quanto i soggetti che si confrontano non dispongono spesso degli stessi mezzi. Se, infatti, sul mercato, gli oligopoli possono sconvolgere le regole della concorrenza, in politica, in forme differenti, si fronteggiano forze di diverso potere contrattuale. L’idea di privilegiare il diritto dei giuristi e delle corti rispetto al diritto elaborato dal potere politico è sicuramente una sfida nei confronti del centralismo, ma non risulta chiaro come sia superabile la logica maggioritaria, dal momento che, anche nell’ambito giurisprudenziale, gli orientamenti prevalenti si affermerebbero su quelli minoritari. Leoni ammetteva quanto fosse difficile delimitare i confini tra gli ambiti da assegnare rispettivamente alla legislazione e alla common law. Riteneva in proposito, seguendo anche una proposta di James M. Buchanan, che si potesse introdurre una clausola costituzionale che impedisse ai parlamenti di legiferare su certe materie o prescrivere l’unanimità e\o la maggioranza qualificata riguardo a determinate leggi.
In Leoni emergono delle assonanze con un pensiero liberale che da di Edmund Burke giunge ad Hayek. Nel 1775 Burke sostenne le rivendicazioni dei coloni americani, ritenendole coerenti con le battaglie per la libertà combattute in Inghilterra. Considerava positivamente il governo dei coloni, in quanto frutto dei principi consuetudinari della common law, e non di una rivoluzione o degli “ordinari mezzi artificiali di cui si avvale una costituzione formale”. Ecco perché si rifiutava di considerare l’89 come uno sviluppo della Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688. In Inghilterra, infatti, lo spirito della continuità era prevalso sulla presunzione giacobina di rifondare la società.
Erede di questo pensiero, Hayek scriveva nel 1960, in Perché non sono un conservatore, di sentirsi orgogliosamente liberale, pensando a Burke, ad Alexis de Tocqueville, a Lord Acton. Riteneva però che, nel liberalismo europeo, il desiderio imporre astratti modelli razionali prevalesse sulla tendenza a favorire il libero sviluppo delle forze sociali. Dichiarandosi estraneo all’abuso della ragione, che, a suo avviso, i liberals esercitavano promuovendo interventi statali talora incompatibili col rispetto delle libertà individuali, preferiva allora definirsi “un impenitente old whig – con l’accento su old”, senza che ciò implicasse un ritorno al passato. Bruno Leoni ha fatto propri questi temi, nella consapevolezza che il suo liberalismo integrale, in cui diritto ed economia si integrano, potesse tradursi, pur con le sue contraddizioni, in un metodo per difendere le libertà individuali nelle liberaldemocrazie.

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