Da Togliatti alla Schlein: il loop tragico e grottesco dei comunisti in Italia
Non è, né vuole essere un ossimoro quello contenuto del titolo. È semplicemente l’immagine di una aspettativa palingenetica coltivata nei primi decenni di questa Repubblica dall’allora Partito comunista, ma successivamente – irrimediabilmente condannata dalla Storia – del tutto abbandonata; ora, invece, sembra essere tornata drammaticamente in auge a guisa di spettro ricomparso dal profondo degli inferi. E tutto ciò per via di inaspettati elementi fattuali disfunzionalmente partoriti nell’ambito scomposto della sinistra postcomunista, paracomunista e comunista tout court in questo nostro incuboso Paese, in una visione, di cui si è fatta paladino il suo nuovo conducator Elly Schlein, quasi ché centrata sull’attesa di un nuovo evento catastrofico-palingenetico a seguito del quale sorgerà, sulle macerie di una vecchia società, una nuova comunità rigenerata e purificata soprattutto dalle perniciose idee della destra meloniana e affini, un nuovo regno di pace e giustizia.
Di certo, tale narrazione è un quadro volutamente caricaturale, eppure la crociata di questo inedito “Cavaliere nero”, intrisa di neo-profetismo, assume marcati caratteri escatologici, un’ambigua, agghiacciante prospettazione, una sorta di inaspettata esplosione chiliastica: un novello Lohengrin di wagneriana memoria, dunque, postosi alla guida di un processo anaciclotico, che intende riprendere l’iniziale sviluppo di quella fase politica, giunta ora all’ultimo stadio di deterioramento.
Insomma, una nuova fase di politica escatologica, il ritorno ad una mitologia idonea a convertire il sovraccarico depressivo della moltitudine criptocomunista odierna, racchiusa in una lugubre identità irrisolta – che ben si riflette in una penosa, schizofrenica dissociazione cognitiva a difesa di miti e simboli, rivisitati e adattati all’attualità – di una storia mai chiusa del tutto e incapace di uscire dalla prigionia di un’appartenenza sospesa, in cui il riformismo rimane solo una pura suggestione, una sorta di schermo utile a coprire una memoria essenzialmente di segno contrario.
Questo “totalmente altro”, improvvisamente materializzatosi come aspirazione suprema attraverso un processo di negazione e di inversione, ha finito comunque per vanificare del tutto il tentativo – ancorché esperito per lo più in modo ambiguo e contraddittorio – posto in essere in questi decenni dalla sinistra postcomunista, con una sofferta rielaborazione concettuale, di un riposizionamento non dottrinario rispetto ad obiettivi consoni ad una liberaldemocrazia, seppure in modo imperfetto.
In definitiva, questo “partito nuovo”, ora paranoicamente impegnato, per via del suo novello condottiero, in una lotta finale – l’Armagheddon – contro le “perverse potenze” del Male, rappresentate dall’odierna compagine governativa “filofascista, razzista e sessista”, continua ad occupare lo spazio – peraltro da sempre detenuto dal maggior partito comunista dell’Occidente – nel quale si collocano, negli altri Paesi europei, le grandi formazioni socialdemocratiche e riformiste.
Cosicché, se in Italia è abortito, a differenza di altre nazioni ideologicamente più coese, il passaggio cruciale tra liberalismo e liberaldemocrazia, allo stesso modo è fallito quello altrettanto risolutivo tra comunismo e socialdemocrazia, ciò che peraltro sarebbe stato determinante per traghettare il Paese verso lo sviluppo di una compiuta democrazia liberale. Ma così non è stato, e così non è.
Se è vero, dunque – così come è vero – che, secondo l’impostazione liberale, diversamente da quella deterministica di derivazione marxista, la Storia è un tunnel di cui non si vede la luce, è come essere stati improvvisamente risucchiati in fondo ad esso, senza più nemmeno quell’incerto chiarore che pur fiocamente si intravedeva in lontananza. L’aspettativa riposta, dunque, in una evoluzione, di certo irta di non indifferenti difficoltà, della sinistra nostrana verso forme di politica liberale come regolamentazione di conflitti è ora definitivamente tramontata per l’instaurarsi di colpo di una concezione politica escatologica come redenzione dai conflitti, in vista dell’annientamento degli agenti responsabili della governance, conservatrice e retrograda, in atto. Insomma ci troviamo di fronte ad una sorta di neo giacobinismo dotatosi di un programma sostanzialmente pantoclastico, che riprende trucemente temi che pensavamo essere stati definitivamente sepolti nella non esaltante storia di questa Repubblica, che ha “bruciato” la sua esistenza esclusivamente nella mitologia antifascista, resistenziale e antimonarchica, e che ora rischia il decisivo avvelenamento psicologico oltre che una vera e propria agonia esistenziale in un rinnovato clima da “guerra di liberazione”.
E i fantasmi del passato – un “Passato che mai passa”, come ebbi pure a scrivere in altra occasione – tornano come spettri, come le ombre del mito della Caverna di Platone, a oscurare questo Paese.
Si è così finalmente disvelata la vera fisionomia del comunismo italiano, impersonata nel Partito comunista che via via mutava il nome in Pds, Ds e Pd, una riproduzione metastatica ora riapprodata ad una risoluzione giacobina, settaria e di puro sciacallaggio politico nei confronti di un’Autorità governante legittimamente eletta e che sta concretamente attuando principi e metodi tipici della democrazia liberale, ancorché compito assai arduo in questa degradata Repubblica: il comunista di oggi, incarnato nel suo nuovo leader, che ha issato il vessillo della “liberazione degli oppressi”, contornato perlopiù ipocritamente da “scarafaggi” al suo servizio, non è che il giacobino del 1793!
Cosicché è tornata in gran rispolvero la strategia di lotta politica di togliattiana memoria, di quel Palmiro Togliatti “impresario” culturale della rivoluzione, a cui fu attribuito il soprannome de “Il Migliore”, ciò che assunse un significato ironico nel contesto della lunga fase stalinista della tradizione rivoluzionaria marxista-leninista in Italia, trasfusa ora in un “partito nuovo”, così come nelle intenzioni del suo “moderno Principe”, che, con la sua anima disperata e tragica, in un rinverdito clima da “guerra civile”, mostra di coltivare un folle disegno affatto destabilizzante degli assetti sociali e politico-istituzionali in atto. E’ dunque il ritorno in auge dello zoccolo più duro della subcultura comunista, che nulla ha che vedere con i valori dello Stato di diritto, della cultura e della tradizione liberaldemocratica: dunque, una sorta di rinnovato progetto leninista-marxista, non dissimile da quello veicolato da Gramsci nel pensiero di Togliatti, grazie al quale quest’ultimo riuscì ad essere il perfetto stalinista, e tale rimase fino alla fine. Un programma, proposto come “l’abbandono della disperazione”, che giunge al termine di una lugubre linea rossa che si dipana dalla “svolta di Salerno” del 1944 e che descrive tutto l’itinerario del Partito comunista italiano, con le sue strategie di lotta e di infiltrazione profonda nel mondo della cultura e della società, che ha finito per occupare tutto lo spazio che gli ha finora consentito l’indulgenza collettiva, avendone in sostanza metabolizzata l’aspirazione rivoluzionaria; di certo attenuatasi questa – ma senza con ciò pervenire a più coerenti modelli di sviluppo nei termini di una compiuta socialdemocrazia – dopo la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991, allorquando Stalin fu presentato come un folle criminale e accusato di essere il peggior omicida di massa. Purtuttavia, ancorché l’icona suprema del marxismo giacesse ormai calpestata nella polvere, è continuata la ricerca di un’icona sostitutiva, una delirante aspirazione che – scartati i Mao, i Castro, ecc. – solo oggi sembra finalmente essersi avverata.
Ma tutto ciò, vale a dire il ritorno ad una polarizzazione ideologica, oscillante tra la mistificazione e il ridicolo, un nuovo avatar della concezione giacobina verso una imprescindibile rivoluzione purificatrice dall’esistente – uomini, istituzioni, idee e valori – inquadrato sic et simpliciter come “fascismo mascherato”, non significa l’abbandono della gramsciana “teoria dell’egemonia” come strategia ossidionale finalizzata alla costruzione di un Ordine Nuovo; talché l’attesa dell’elemento catastrofico-palingenetico si sposa con la strategia di lungo tempo dell’assedio all’establishment in atto, con una instancabile, logorante guerra psicologica e ideologica, condotta con estrema faziosità.
Un “Partito nuovo”, dunque, che, rigeneratosi come appassionato “tribuno della plebe” e che ricorre al terrorismo morale contro coloro che sono schierati a difesa dell’odierno “Stato fascista”, rimane improntato ad un gramscianesimo militante, a suo tempo promosso vigorosamente da Togliatti come essenza di massima espressione della tradizione marxista in Italia, con i suoi “intellettuali organici” – mondo della scuola, dell’informazione, del cinema, delle case editrici, e dei premi letterari – i quali, raggruppati in una sorta di fortezza ideologica, si presentano come i vessilli di un rinnovato proletariato controegemonico. Le componenti, quella gramsciana e quella zdanoviana, cardini dell’egemonica teoria culturale marxista-leninista, ben presenti nella mente di Togliatti, continuano ad avere una funzione di trasformazione della società borghese verso radiosi traguardi.
Avevo, invero, già paventato nel precedente scritto “L’ITALIA ALLA SUA SVOLTA?”, risalente a qualche giorno prima delle passate elezioni politiche, siffatto cupo scenario, per un rispolvero, da parte della sinistra nostrana, in piena “crisi di nervi”, di obsoleti schemi neofrontisti come nel secondo dopoguerra, scaricando addosso all’aggregazione di Centrodestra insensati odi e veleni, una vera e propria opera di sciacallaggio, tesa soltanto ad eccitare passioni ideologiche in un rinnovato clima di strisciante guerra civile, da “ultima crociata” contro “forze del male” in agguato.
E, come una “Cassandra” con lo sguardo rivolto al cavallo acheo che vide entrare dalle Porte Scee, era il mio un accorato auspicio per formare una Grande Destra, capace di porsi in modo vigoroso contro il rullo compressore dell’assassina clacque sinistroide. Ma il peggio è ancora di là da venire!
Già, non v’è chi non veda come la drammatica riscoperta, come in un incubo risalente da un fosco passato, di un “assassino” ideologico, un truce condottiero che ora capeggia, in un’ondata di pazzia collettiva, schiere idolatranti il drappo rosso, ha tutte le sembianze di una “prova d’orchestra” per lo start di una nuova stagione terroristica di brigate ultrasinistre, determinate a trasformare di nuovo questo Paese in un enorme mattatoio. Non dissimile dalla gramsciana pedagogia dell’intolleranza, risolventesi – così come ho dato cenno in un precedente scritto – nella teorizzazione di un presidio che fornisce “le armi necessarie e sufficienti per sopprimere gli avversari”, il tutto condito con insulti e offese volgari, feroci denigrazioni e calunnie, ridicolizzazioni e demonizzazioni, minacce di sterminio ed esaltazione della violenza rivoluzionaria. Ciò che poi, in prosieguo, unito ad altri fattori, ha rappresentato il terreno di coltura per la genesi della tragica stagione del terrorismo.
Non vi e dubbio infatti che, se il risveglio del marxismo-leninismo, traducentesi in un ampio fronte di dissenso identificato nella sinistra extraparlamentare, dopo la denuncia di Krusciov e l’invasione dell’Ungheria, si trascinò fino agli anni Sessanta e Settanta – trovando in Adriano Sofri, direttore del sovversivo giornale “Lotta Continua”, uno dei suoi personaggi principali – allo stesso modo oggi, l’affermazione di un sistema politico di Centrodestra riporta giovani studenti, adusi ormai ad un linguaggio giovanile sempre più demenziale, all’adesione infantile a ricordi anarco-sindacalisti. Ma il fatto grave è che questa sinistra sta subdolamente ponendo in atto il tentativo di trasformare i nostri studenti in agitatori rivoluzionari professionali per creare lo strumento umano occorrente ad una nuova rivoluzione sociale: se la tattica è quella leninista, l’ideologia è tornata ad essere maoista e cheguevariana allo stesso tempo. Purtroppo, recenti episodi, verificatisi nei licei e nelle Università, sono sintomatici di siffatta situazione di estrema pericolosità, sebbene questi studenti inneggino ad una società inesistente per mezzo di una ribellione cieca, che nasce da confusione mentale e che si svolge all’interno di un ambiente troppe volte affetto da una succube vigliaccheria.
Mi sembra assai consona alla situazione in atto ciò che la giornalista Gianna Preda ebbe a scrivere ne “il Borghese” nel ’68 in merito alle contestazioni studentesche allora in atto, osservando quelle “brave” ragazze: “Spettinate, con grinte truci e rabbiose, dipinte come baldracchette di borgata, vestite in taluni casi con una sciatteria indecorosa, becere stimolatrici di giovanotti criniti e dall’occhio ebete….eccitate fino alla morbosità da quella loro avventura “barricadera”, sguaiate e nevrotiche, e con le facce impudenti e sbeffeggianti rivolte ai tutori dell’ordine”.
Il nostro Paese sta dunque per affacciarsi nuovamente nel baratro degli anni Settanta, allorquando nacque a Milano quel gruppo rivoluzionario con il nome tristemente famoso di “Brigate Rosse”. In siffatto contesto, queste godettero delle coperture dell’allora Partito Comunista – così come avviene ora nei confronti degli odierni pidocchietti e fighetti rossi e loro compagne come innanzi dipinte – nonché del colpevole silenzio della stampa di sinistra, che, invece, enfatizzava le stragi e le trame riconducibili all’estremismo di destra, tant’è che per alcuni anni i brigatisti rossi furono definiti come “sedicenti” e “fantomatici” e le loro azioni ricondotte all’eversione nera. Soltanto dopo l’uccisione del presidente della DC Aldo Moro, questa stampa smise di fare disinformazione, fermo restando che, come scrisse Rossana Rossanda nel 1978 su “Il Manifesto”, le Br appartenevano all’album di famiglia del Pci, un album che sta lugubremente per riaprirsi ora con nuovi adepti.
Ho volutamente omesso, attenendomi in tal modo ad uno schema di analisi critica a carattere storico-politico, di citare le pressanti attuali problematiche – dall’invasione mediterranea in atto da parte di incontrollabili orde di migranti agli obblighi di sicurezza, dalle questioni fiscali a quelle del lavoro, ecc. – che ci dividono profondamente dalla sinistra, con la sua azione tesa al disfacimento sociale e al disconoscimento della stessa identità nazionale in nome di un’idea quartomondista.
È appunto sul terreno putrido della fatuità e dell’invettiva che questo monstrum sinistroide, un cerbero assetato di “sangue” e di vendetta, sta giocando rancorosamente la sua partita, cosicché, riducendo il dibattito nazionale, anche sulle urgenti riforme da attuare, ad una sterile, strumentale controversia tra fascismo e antifascismo, sta ponendo in atto un fosco disegno ad destruendum.
È a tutto questo pattume che ci viene scaricato addosso, a questa valanga di immondizia che rischia di ricoprirci tutti, che dobbiamo reagire con forza a difesa dello Stato liberale e dei suoi incrollabili valori e batterci unguibis et rostris, non “gialli” di paura e di vergogna, come in “difesa delle mura”: la “protezione” della libertà e il recupero di valori identitari sono la nostra “linea del Piave”.
Francesco Giannubilo, laurea Scienze Politiche ed ex dirigente della P.A., si occupa di studi storico-politici dell’età contemporanea. Pubblicista su testate provinciali e su “l’Opinione delle Libertà” nazionale, dopo la ricerca “Aspetti della politica italiana 1920-1940” (2013), il saggio “DALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA ALLA DEMOCRAZIA LIQUIDA (O LIQUEFATTA?)” (2015).
Ha pubblicato: “L’ITALIA CHE (NON) CAMBIA (2010), assieme di considerazioni etico – politiche sull’impossibilità del riformismo in Italia; “1848-1870 IL RISORGIMENTO INCOMPIUTO” (2011), una riflessione sullo sviluppo storico in Italia in termini di continuità con il processo risorgimentale; “1939-1940 IL MONDO CATTOLICO ALLA SUA SVOLTA?” (2012), un profilo critico sugli atteggiamenti del mondo cattolico dagli inizi del Novecento fino all’entrata in guerra dell’Italia.