“Essi additano agli italiani nella buona e nell’avversa fortuna
il cammino dell’onore e della gloria. Viandante arrestati
e riverisci, Dio degli eserciti accogli gli spiriti di
questi ragazzi in quell’angolo del Cielo che
riserbi ai martiri ed agli eroi”
Sono le parole scolpite su una lapide apposta al Sacrario italiano di El Alamein. Con questa religiosa implorazione voglio iniziare a parlare di un figlio illustre dell’Aeronautica Militare, di cui il prossimo 28 marzo ricorre il centenario della fondazione avvenuta con Regio Decreto n. 645, il Capitano pilota Willy Bocola, nato a San Severo il 23 novembre 1905 e deceduto nei cieli di Tripoli il 22 dicembre 1936. Primatista mondiale di volo rovesciato, conquistò il record acrobatico in tale specialità, primato tuttora imbattuto, volando per 65 minuti e 51 secondi sull’aeroporto Centocelle di Roma il 15 maggio 1933. Ammesso nel 1925 al Corso Centauro della Regia Accademia Aeronautica di Caserta, venne promosso tenente il 1° aprile 1929 e assegnato al prestigioso 1° Stormo Caccia di Campoformido, in forza al reparto specializzato del volo acrobatico e in formazione, allora ai comandi del tenente colonnello Rino Corso Fougier. Ebbe modo di esibirsi l’8 gennaio 1930, in occasione del matrimonio tra il Principe ereditario Umberto di Savoia e la principessa Maria José del Belgio, con la “Squadriglia Folle”, sorvolando i cieli Roma e disegnandovi lo stemma della Casa Sabauda.
Trasferito successivamente all’Aeronautica Militare in Libia, il 22 dicembre 1936 si imbarcò su un aereo Caproni Campini 309 Ghibli, pilotato dal capitano Giuseppe Caggia, che dall’aeroporto di Mellaha (oggi Aeroporto militare di Mitiga) doveva portarlo su quello di Bengasi Berka. Durante la fase di decollo, a causa dell’eccessivo carico di carburante imbarcato per consentire il volo diretto tra le due destinazioni nonché della pista rovinata dalla pioggia, l’aereo non riuscì ad alzarsi ed andò in stallo finendo contro un edificio che si trovava ai lati della pista. Rimasto illeso, anziché porsi subito in salvo, benché conscio del pericolo che correva, impavidamente si attardò ad uscire per aiutare Caggia, incastrato tra i comandi di volo e il sedile del pilota, ma l’aereo prese fuoco intrappolando all’interno i due aviatori che perirono entrambi. Le salme di Bocola e Caggia, originario quest’ultimo di Galatina, furono rimpatriate il 24 dicembre 1936. I suoi funerali si tennero a San Severo, e lì fu tumulato nella cappella di famiglia sita nel locale cimitero. Per onorarne la memoria, nel corso del 1937 gli fu intitolato il regio aeroporto di Benina a Bengasi.
Anche il comune di San Severo volle onorarne la memoria; infatti, con delibera n. 166 del 13 luglio 2013, stante allora al governo della città un’amministrazione di centrodestra, la Giunta comunale intitolò all’eroico caduto la Palazzina Liberty, con apposizione di targa marmorea sulla facciata principale nel corso di una solenne cerimonia svoltasi il 27 febbraio dell’anno successivo, alla presenza del Generale di Squadra Aerea, Maurizio Ludovisi, e dei vertici nazionali dell’Aeronautica Militare nonché del colonnello pilota Michele Oballa, all’epoca Comandante del 32° Stormo caccia di stanza all’aeroporto militare di Amendola, con larga partecipazione di popolo nonché degli alunni delle scuole medie e superiori della città. Una mostra dedicata alla figura del valoroso capitano e il sorvolo di due aerei AMX del 32° stormo in operazioni di addestramento completarono il cerimoniale. Nel successivo mese di novembre, fu perfino organizzato un convegno di ampio respiro, alla presenza dei vertici nazionali dell’Aeronautica Militare rappresentati dal Gen. Maurizio Ludovisi, Comandante di Squadra Aerea, e dal Gen. Claudio Salerno, Responsabile dell’Ufficio Comunicazioni dell’Aeronautica Militare, con anche la partecipazione del prof. Gregory Alegy, storico militare, giornalista e docente di Storia delle Americhe presso l’Università LUISS di Roma, e del prof. Gianni Oliva, docente emerito di Letteratura Italiana presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti. Vari riconoscimenti sono in seguito pure direttamente pervenuti da parte del Ministero della Difesa.
Ma qui finisce la narrazione. E qui inizia il malinconico percorso del silenzio e dell’oblio, come sempre è accaduto e accade in questa Italia distratta e qualsiasi, in cui i miti fondanti, spesso solo rituali di cartapesta, sono ben altri che non quelli patriottici ante avvento della Repubblica. Già, una Repubblica da sempre succube delle imposture ideologiche della sinistra, anche dopo il crollo dei suoi riferimenti dottrinari e politici, che ha consumato la sua esistenza esclusivamente nella mitologia antifascista e resistenziale/costituzionale, a cui sarebbe magari ora di affiancare quella festivaliera sanremese con tutti i suoi nuovi trend genderfluid, canori e – perché no? – anche dai risvolti politici. Infatti, è passato poco meno di un decennio da quel solenne evento celebrativo, ma nessuno ne parla più e men che mai nelle scuole viene spesa una parola in proposito, talché le nuove generazioni non sanno neppure lontanamente chi sia stato il valoroso aviatore degli anni Trenta capitano Willy Bocola. Per di più, la targa marmorea è stata rimossa da tempo dall’originario sito ben visibile alla cittadinanza per essere ricollocata in un angolo della sala interna, riservata non si sa bene a quali progetti culturali. Ma quello del Nostro, che operò in epoca fascista, non è l’unico caso di amnesia, se non proprio di rimozione: basti pensare, solo per fare qualche esempio, ai cinquemila morti della battaglia di Adua nel marzo 1896 o all’eroico tenente colonnello Ettore Muti, il soldato più decorato di tutta la storia militare italiana, oppure al Maresciallo dell’Aria Italo Balbo, epico trasvolatore dell’Atlantico e fiero oppositore a Mussolini quanto all’entrata in guerra a fianco di Hitler, morto nel giugno 1940 col suo aereo in fiamme, ovvero ad Amedeo di Savoia Duca d’Aosta, eroe dell’Amba Alagi e viceré d’Etiopia, arresosi ali inglesi solo dopo strenua resistenza nel maggio 1941, o agli eroici difensori di Giarabub nel marzo 1941 o ai ragazzi della divisione “Folgore” immolatisi ad El Alamein nel novembre del 1942, per non parlare dell’eroismo dei tanti sodati nella Prima Guerra Mondiale, in cui spesso veniva superato quel flebile confine che separa gli obblighi del soldato dai gesti di eroismo. Esempio ultimo, ma non ultimo, il silenzio commemorativo sceso sulla vittoria del 4 novembre 1918, con le sue matrici ideologiche, a volte dai contorni faziosi: una “vittoria dimenticata” in base ad una visione ideologica per cui quella vittoria, più che superare la disperazione di Caporetto, fu prodromica all’avvento del fascismo. Una vittoria ambigua, dunque, da cui il fascismo trasse forza e consenso, ciò che stride enormemente con i miti fondanti della Repubblica, a cui sono estranei Casa Savoia e i protagonisti risorgimentali – ad eccezione delle figure non toccate dall’ostracismo antimonarchico (Mazzini, Garibaldi) – e tutti coloro che rappresentavano la coscienza eroica del popolo italiano.
Una Repubblica, dunque, che ha fatto scempio della democrazia in suo nome e in cui si muovono personaggi da operetta triste mentre il popolo frastornato è come inebetito, dunque assente: una fotografia della nostra assurda società, piegata ad un politically correct oscillante tra la mistificazione e il ridicolo e che, affetta da un colossale difetto di coscienza politica, sta vivendo con disinvoltura la tragicommedia folle della sua falsa democrazia. Una “Repubblica del Sud” – come ebbi a scrivere, ahimè, quasi un decennio addietro – infeudata da tanto tempo, da troppo tempo, da una sinistra racchiusa in una sua macabra identità ancora irrisolta, abbacinata da un clima persistente da “guerra di liberazione”. Una Repubblica di un Paese triste che ha rinunciato a farsi Nazione, un’idea che è ormai morta nel cuore degli italiani e con essa anche quella di Patria. Una democrazia invertita e pervertita dunque, un impiastro democratico in un intreccio grottesco tra tragedia e farsa di un Paese Gulag in cui non c’è posto per l’Arca Santa degli irrinunciabili valori liberali e nazionali. E men che mai c’è posto per gli eroi e per tutti i caduti, diventati solo stracci senza memoria ingoiati dall’oblio. Ma il loro sacrificio, il loro amore patriottico, rimane come scolpito e indelebilmente scritto nell’etere. Voglio concludere con la citazione – ciò che vale per tutti gli eroi morti – che il Gori ebbe a dedicare alla memoria del pluridecorato soldato Ettore Muti, dopo il suo proditorio assassino, per ucciderne il mito, ad opera di spietati emissari badogliani nella pineta di Fregene nella notte del 24 agosto 1943: “….Attorno ai sognatori non ci può essere pace. Ma tutto quello che essi fanno non potrà essere cancellato. Dopo la vita terrena, i sognatori vivranno la vita immortale e universale di Dio”.
Francesco Giannubilo, laurea Scienze Politiche ed ex dirigente della P.A., si occupa di studi storico-politici dell’età contemporanea. Pubblicista su testate provinciali e su “l’Opinione delle Libertà” nazionale, dopo la ricerca “Aspetti della politica italiana 1920-1940” (2013), il saggio “DALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA ALLA DEMOCRAZIA LIQUIDA (O LIQUEFATTA?)” (2015).
Ha pubblicato: “L’ITALIA CHE (NON) CAMBIA (2010), assieme di considerazioni etico – politiche sull’impossibilità del riformismo in Italia; “1848-1870 IL RISORGIMENTO INCOMPIUTO” (2011), una riflessione sullo sviluppo storico in Italia in termini di continuità con il processo risorgimentale; “1939-1940 IL MONDO CATTOLICO ALLA SUA SVOLTA?” (2012), un profilo critico sugli atteggiamenti del mondo cattolico dagli inizi del Novecento fino all’entrata in guerra dell’Italia.