Si assiste sempre più, in uno schema di imperante politically correct, ad una proliferazione di studi e ricerche da parte degli euroentusiasti, ancorché pur essi secondo una graduazione che va dagli ardents tout court a quelli più ragionevolmente moderati nell’ardore pro-istituzioni europee, il cui slogan in ogni caso si sostanzia meramente in “più Europa!”, un logo dal sapore quasi “mitologico”, a guisa di inedito piedistallo emotivo di massa dopo i tanti nel passato. Siffatti studi, in svariati casi pur pregevoli, inappuntabili e tecnicamente perfetti nel raffigurare i meccanismi tecno-strutturali e la loro operatività, sono privi di quella connotazione storico-politico-filosofica di altissimo profilo che dovrebbe caratterizzare tale istituzione, un Ordinamento che coinvolge un intero continente, la cui genesi risale se non proprio all’Impero romano quantomeno all’Europa carolingia, il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, incoronato nella notte di Natale dell’800 imperatore di un’Europa cristiana. Tutto ciò delinea un’immagine così poderosa e coerente da imporsi per secoli come valore identitario nella coscienza collettiva dei popoli europei, una indiscussa identità di elevatissimo valore umano e cristiano, a cui fa riferimento “Il progetto europeo” ideato nel 1950 da Jean Monnet e accolto con entusiasmo dai Padri fondatori, Schumann, De Gasperi e Adenauer.
Sovente questi euroentusiasti concludono i loro paludati studi lanciando anatemi e strali verso gli euro–critici, ben diversi dagli euroscettici e più numerosi, sol perché, come le rane della favola di Esopo, questi si muovono vicino alla “terra” di cui scrutano trappole e pericoli, guardando tutto da vicino in un’Europa che non sempre ha dato buona prova di sé, così come anche in qualche circostanza attuale. Questi temono, a ragion veduta, il debordare del dirigismo europeo, diffidano di decisioni prese esclusivamente dall’alto, temono il ruolo prorompente del diritto comunitario a fronte di quello dei singoli Stati dell’Unione, le diseguaglianze tra Stati forti e quelli ad economie più deboli, le manipolazioni speculative dell’alta finanza sul debito pubblico degli Stati e le sorti dell’euro. Una finanza questa, che, dopo Maastricht, ha fatto correre il denaro come non mai verso Stati, vecchi e nuovi, sempre meno preoccupati dell’aumento vertiginoso del loro debito pubblico nazionale, dato che – si pensava – l’inflazione avrebbe ridimensionato nel tempo quei debiti, esposizioni debitorie che invece hanno alimentato il grande gioco finanziario, che è diventato per le grandi banche d’affari un illimitato business planetario, una specie di capestro per le economie più deboli. Ma temono anche la progressiva scomparsa dello Stato nazionale! Prima di addentrarci però su tale versante, occorre svolgere alcune pregnanti considerazioni sulla sua configurazione giuridica e politica nonché sui suoi meccanismi di funzionamento onde delineare un quadro più realistico a fronte di svariate nebulosità, che, però, vengono propagate come assiomi indiscussi e indiscutibili.
Di certo, malgrado le aspettative dei suoi fondatori e gli sforzi profusi da giuristi e studiosi vari, v’è che l’identità dell’Unione Europea, sebbene sia riconoscibile a livello internazionale, rimane ancora parecchio incerta: sicuramente non assomiglia né al Sacro Romano Impero, né al federalismo degli Stai Uniti d’America, né al Commonwealth britannico con la sua struttura a cerchi concentrici, né alla Federazione russa, né alla Confederazione elvetica e neppure ad una nuova versione della Lega delle Nazioni. Insomma, tuttora rimane ancora una fumosa unità politica quella che anima il continente che – abolito l’antico principio legittimistico divino, perito con la decapitazione del Monarca francese nel 1793, e quello dinastico dal 1815 – ha inventato la modernità, vale a dire il costituzionalismo liberale nelle sue forme di governo monarchico e repubblicano. Cosicché l’Unione Europea, nonostante la sottomissione degli ordinamenti statuali a quello comunitario permane incompiuta, in bilico tra implosione – sintomatica la Brexit britannica – e federazione. La mancata ratifica del Trattato costituzionale, formulato da una Convenzione di delegati anziché da una vera e propria Assemblea costituente, da parte di alcuni popoli, ha altresì reso vano il tentativo di dotare di una vera Costituzione l’Unione. Certamente è uno schema giuridico anomalo quello che allo stato configura l’Unione Europea: è una confederazione non costituzionale di Stati sui generis? Una wilsoniana Lega delle Nazioni o una semplice libera associazione di Stati legati da trattati internazionali a sovranità limitata per effetto di quei trattati? E in ogni caso, quali sono i limiti al potere legislativo dei singoli Stati o ai loro poteri in materia fiscale, finanziaria, energetica, di immigrazione? Si tratta in realtà di limiti cogenti posti da un “sovrano” concorrente, ma prevalente?
E ancora: non si presenta oggi l’Unione ai cittadini europei come uno Stato, ma senza esserlo? Può un Parlamento di natura pattizia legiferare per Stati nazionali pienamente sovrani? Cosicché in tale quadro complessivo, denso di dubbi, di incertezze ed anche di ambiguità, probabilmente non colte dalla maggioranza e soprattutto dagli euroentusiasti, v’è che risoluzioni, minute direttive e sanzioni hanno spesso suscitato polemiche all’interno degli Stati membri: queste, unite a crisi economiche e finanziarie, a comportamenti non sempre consoni con lo spirito dell’Unione e/o poco solidali da parte di alcuni Stati, così come è dato constatare anche in questi ultimi tempi soprattutto in materia energetica, nonché ad asimmetrie presenti nell’eurozona, hanno spesso alimentato in alcuni gruppi politici nazionali la tentazione di gettare via il bambino assieme all’acqua del bagno.
Pur non essendovi dubbio, per quanto essa fuoriesca dai paradigmi noti della scienza politica, che l’Unione Europea abbia un corpus internazionalmente riconosciuto – ciò che fatto ritenere ad alcuni studiosi che abbia ormai raggiunto una sua sovranità de facto, una sorta di sovranità senza Stato di una surrettizia, inedita “Super-Nazione”- di certo trattasi di una costruzione giuridica anomala, cosicché non è, non può essere un intoccabile monumento, un moloch a cui “offrire in sacrificio” ogni possibile idea critica, dovendosi invece fideisticamente credere in esso sempre e comunque.
Si sa che, in siffatto conformistico, untuoso contesto come quello attuale, parlar male dell’Europa, o anche solo tiepidamente pronunciarsi su alcune sue aberrazioni, è come parlar male di Manzoni!
Ma non saremmo liberali se, gialli di paura e rossi di vergogna, ancorché sicuramente non da ricomprenderci nel novero degli euroscettici, rinunciassimo alla nostra “anima” critica, ciò che ha invece poderosamente qualificato la prassi e la teoria liberale – la teoria della limitazione del potere – in almeno un sessantennio di questa striminzita, collassante Repubblica. Una Repubblica generata dapprima da un non specchiato esito referendario istituzionale e poi consolidatasi, tra ambiguità, sospetti e contraddizioni, in un compromesso nell’ambito dell’esarchia ciellenistica: ma non nel senso profondo di un accordo sull’idem sentire de Republica, bensì un compromesso negativo, altamente deteriore, dato che i partiti che avevano dato luogo al CLN, ad eccezione del Partito liberale, erano lontani o addirittura antitetici al liberalismo classico. Da qui gli equivoci della nostra democrazia, solo apparentemente liberale, ma nata in realtà da una sconfitta del liberalismo storico, vivacchiante in una conflittuale Repubblica che, nonostante i tanti fallimenti che l’hanno segnata, continua ad abbandonarsi soltanto alla sua esaltazione mitopoietica resistenziale e costituzionale.
In realtà, quella di cui si è dotata l’Unione non è che una sovranità sui generis, talché ci si chiede se la sua legiferazione possa sic et simpliciter avere immediati effetti diretti, così come previsto dai trattati, sovrapponendosi ai parlamenti degli Stati membri. Dare affrettatamente risposta positiva a tale quesito implica un sempre più pregnante orientamento verso un assolutismo del diritto comunitario, ciò che potrebbe configurarsi come una riproduzione dell’antico monismo politico, il che per potrebbe comportare per alcuni Stati anche gravi e inconciliabili strappi costituzionali.
Siamo sicuri che possa ritenersi pienamente sufficiente, ai fini della legittimazione democratica del potere del Parlamento europeo, il requisito dell’elezione a suffragio universale dei rappresentanti degli Stati membri partecipanti alle decisioni comunitarie? Siamo sicuri che l’obiettivo di una piena integrazione sia perseguibile soltanto con una progressiva “espropriazione” della sovranità dei Parlamenti nazionali da parte di una istituzione centralizzata, che si comporta come uno Stato, a favore di una fantomatica Rule of Law europea, piuttosto che integrare con gradualità negli ordinamenti nazionali i principi derivanti dai trattati e dalle direttive della Commissione Europea?
Di certo, l’esperienza di questi ultimi tempi ha messo in mostra incoerenze e patologie in vari campi – politica estera, immigrazione, sicurezza, cittadinanza, giustizia, difesa comune, ecc. – che appaiono assai difficili da sanare e che rendono gravosi i processi di integrazione; anzi, il timore è che siffatte dissimmetrie e dissonanze possano avere gravi effetti disintegrativi anziché integrativi.
La tanto esaltata creazione dell’eurosistema come step importante verso la realizzazione dell’unità politica della UE, in realtà ha avuto effetti negativi sull’economia reale e sulla finanza pubblica di Paesi strutturalmente più deboli – Italia, Spagna Portogallo e Grecia – cosicché questi sono entrati in varie forme recessive, perdendo sempre più competitività anche per effetto di un ciclo economico negativo, la così detta hard economy legata alle speculazioni della finanza mondiale, originata negli Stati Uniti e più tardi intervenuta anche nell’eurozona, cosicché il debito pubblico, di per sé già elevato, dei Paesi mediterranei legati all’euro ha continuato spropositatamente a lievitare.
In siffatto scenario, già di per sé estremamente problematico e sempre più orientato verso ideologie internazionaliste, globaliste, tecno-economiste e imbevute anche di suggestioni neo-terzomondiste, si situa prepotentemente, ratione materiae, la complessa questione della sussistenza dello Stato nazionale e della connessa controversia immigratoria, che, in una sinistroide spirale ideologica suicidaria, sta minando le stesse fondamenta della civiltà europea.
Si assiste, dunque, ad una progressiva rimozione di ciò che ha rappresentato lo Stato nazionale nella storia di molti Paesi europei, soprattutto in Italia, dove il ripudio dell’idea stessa di nazione – rinunciando in tal modo anche alla sua definitiva attuazione – assume spesso deprecabili forme teratologiche di esterofilia autodenigratoria e autodistruttiva; ciò nell’ambito di un “politicamente corretto” che con disinvoltura bolla sprezzantemente il tutto – senza distinzioni tra posizioni critiche più sfumate e posizioni più oltranziste – sic et simpliciter come “populismo sovranista”, sol perché questo reputa necessario recuperare la sovranità politica del proprio Stato nazionale come titolare pleno iure di ogni legittimità politica, pur doverosamente compatibilizzata con il contesto europeo.
Una rimozione che ha spezzato la catena base dello Stato-nazione, lo Stato moderno per eccellenza, fondato sul principio della nazionalità e sovrano nei propri confini, liberale e laico: quello Stato laico, appunto, che nasce con la fine delle guerre di religione e la pace di Westfalia del 1648, che si scioglie da ogni legame con fedi religiose e si dota di un’intima e profonda eticità, l’unica che, in definitiva, sostiene la sua legittimità e anima la sua legalità. Certamente, da ragionevoli euro-critici, ben lontani dunque dagli euroscettici sostenitori ad oltranza dello Stato nazional-nazionalista, non intendiamo essere gli arcigni difensori di un nazionalismo ormai sorpassato, ben consci che la modernità nella sua evoluzione storica ha giustamente ridimensionato il concetto di sovranità ereditato dal passato ed ha squarciato la “corazza” dell’universalismo westfaliano, territoriale, forte del suo carattere sovrano nazionale ed esclusiva; neppure però possiamo assistere inermi al declino di questo nostro Stato, uno spatium terminatum nato dal Risorgimento e governato a lungo dalla Corona e da una élite liberale, provato dal fascismo e dalla guerra e definitivamente crollato sotto la scure dei due partiti usciti vincitori nel dopoguerra, estranei alle vicende risorgimentali.
V’è dunque, che nel “tempio” dello Stato-nazione ora non c’è più posto per “l’Arca santa” della legittimità politica, risiedendo ormai questa in un’Europa come quella innanzi tratteggiata, spesso ambigua – Potenze europee che da un lato non esitano a perseguire propri interessi particolari o che dall’altro si arrogano persino uno ius ad vigilare sulla democraticità delle istituzioni di altri Stati membri – che ha reciso anche le sue radici cristiane, rinunciando in tal modo a darsi un’anima e scegliendo de facto di recitare la parte di guardiana degli interessi dei suoi abitanti. Anzi, con le sue accoglienti opzioni terzomondiste e panislamiste, ha finito per abbandonare pure quella!
Già, come pure dicevo in altra sede, oggi l’Europa deve sdebitarsi verso il mondo islamico perché colpevole delle Crociate, delle vittorie di Lepanto nel 1571 e di Vienna nel 1683, dell’imperialismo e del colonialismo nei confronti dell’Islam, colpevole anche per aver favorito la nascita di Israele!
Cosicché il dramma immigratorio, che sta finendo per acquistare i contorni di una “invasione” mediterranea, passa in second’ordine e i vari trattati pur stipulati in proposito, a volte solo delle vere e proprie manifestazioni di volontà da “operetta triste”, finiscono per fare esclusivamente da scudo protettivo per Stati membri ben più agguerriti su tale fronte e disposti a non farsi travolgere dalle ondate immigratorie, che rischiano di oscurare del tutto la già morente civiltà europea. Così gli Stati deboli, come il nostro, vengono lasciati da soli a fronteggiare “l’assedio” di indiscriminate masse di migranti provenienti da territori mediterranei ed asiatici, comprendenti anche tanti che sicuramente nutrono sogni di rinascita dell’impero islamico anche in Europa. Tutto ciò per colpa di attori regionali spesso attinenti alla categoria degli idioti e troppo deboli per essere portatori del destino europeo, cosicché l’Europa sta vivendo una forma di pseudomorfosi e il senso finale della sua avventura è ancora destinato a restare ambiguo. Ma ciò nonostante, si ostenta tuttora, in special modo a Sinistra, un euroentusiasmo, senza un pur minimo senso critico, oscillante tra mistificazione e ridicolo. Ci si erge così a paladini di questa Europa che, se non reagisce, rischia di diventare un continente insignificante sotto ogni profilo. Dobbiamo dunque chiederci se sia proprio ineluttabile che una nuova società internazionale debba fondarsi sul dissolvimento dello Stato-nazione e se l’Italia debba sommare all’incompiutezza nazionale anche il suo asservimento. In cambio di nulla!
Francesco Giannubilo, laurea Scienze Politiche ed ex dirigente della P.A., si occupa di studi storico-politici dell’età contemporanea. Pubblicista su testate provinciali e su “l’Opinione delle Libertà” nazionale, dopo la ricerca “Aspetti della politica italiana 1920-1940” (2013), il saggio “DALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA ALLA DEMOCRAZIA LIQUIDA (O LIQUEFATTA?)” (2015).
Ha pubblicato: “L’ITALIA CHE (NON) CAMBIA (2010), assieme di considerazioni etico – politiche sull’impossibilità del riformismo in Italia; “1848-1870 IL RISORGIMENTO INCOMPIUTO” (2011), una riflessione sullo sviluppo storico in Italia in termini di continuità con il processo risorgimentale; “1939-1940 IL MONDO CATTOLICO ALLA SUA SVOLTA?” (2012), un profilo critico sugli atteggiamenti del mondo cattolico dagli inizi del Novecento fino all’entrata in guerra dell’Italia.