I fatti sconvolgenti di questi ultimi giorni in merito alla elezione del Presidente della Repubblica, al di là di esternazioni di profondo dissenso provenienti da più parti – peraltro sacrosante (necessità “stipendiali” di terminare la legislatura, spettacolo indecoroso di candidature/bocciature quasi simultanee, fratture politiche finora impensabili, ecc.) – per la rielezione di un Presidente, l’uomo più grigio di questa già grigia Repubblica, pur a fronte di parecchie altre personalità di alto rilievo, impongono però riflessioni più accurate su un piano, per così dire, politico-filosofico, che valgano a riposizionare coerentemente l’essenza e le componenti della democrazia italiana, una “democrazia difficile” come a suo tempo ebbe a dire efficacemente Aldo Moro. Una democrazia finora cullatasi nell’autocompiacimento della sua identità, rimasta invece confinata nella retorica e nell’apologia di regime, e nell’esaltazione della sua genesi, fondata su una mitologia resistenziale, che solo una trasfigurazione mitopoietica della sinistra portava a identificare come un “secondo Risorgimento”.
Cosicché questa liberaldemocrazia – con la sua Carta costituzionale, nata tra infausti compromessi altamente deteriori dai partiti dell’”esarchia” ciellennistica, lontani se non proprio antitetici al liberalismo classico – solo apparentemente liberale ma in realtà scaturita da una sconfitta del liberalismo storico, una democrazia “anfibia” metà democratica e metà ideologicamente “leninista”, non è mai riuscita a trovare uno sbocco nella prassi matura dell’alternanza di stampo europeo.
A voler previamente delineare, in estrema sintesi, la quaestio iuris della legittimità costituzionale della rielezione del supremo Organo dello Stato, non v’è chi non veda come l’articolo 85 del testo costituzionale non prevede affatto tale possibilità bensì afferma solennemente la tassatività del termine settennale per la durata del mandato, contemplando esclusivamente una breve proroga in relazione alle ipotesi di scioglimento o di cessazione delle Camere. In effetti, soprattutto in materia costituzionale, data la sua valenza ed estrema delicatezza quanto ai diritti e doveri della comunità nazionale e all’ordinamento dello Stato e dei poteri pubblici, non dovrebbe potersi andare oltre la tassatività della enunciazione normativa – con la sola eccezione della riserva di legge – talché nella materia de qua dovrebbe ben valere l’antico brocardo latino Ubi lex voluit dixit, con la sua logica estensione ubi noluit tacuit, e non il suo contrario, cioè che è consentito tutto ciò che non è vietato.
Ma, superata “disinvoltamente” la impasse giuridica, ci si rende subito conto che con il concludersi della poco edificante vicenda – un’altra pagina sulfurea, dopo già le tante avutesi in passato, di questa Repubblica, con la sua grossa voglia di topo che le sfigura la “faccia” – si è infranto del tutto anche lo specchio dell’Etica oltre che quello della Storia; si è così frantumato definitivamente, scendendo al gradino più basso dei valori, lo stesso principio della rappresentatività democratica, quella Democrazia rappresentativa che è stata l’item del pensiero liberale, frutto della “Rivoluzione atlantica” del XVIII secolo e del costituzionalismo classico, poi democrazia razionalizzata e sociale.
Dopo lo “Stato Patrimoniale” adottato nel Medioevo e lo “Stato di Polizia” dal Rinascimento in avanti, ha finito per plasmarsi dunque, dopo la rivoluzione anzidetta, un nuovo modello statale, lo Stato moderno, liberale, o “Stato di diritto” fondato sulla “limitazione dell’autorità statale” e sulla formula dell’autogoverno, cioè “la identificazione più perfetta possibile tra governati e governati”.
Ma tutto ciò ha interessato poco la liberaldemocrazia italiana, la quale, dopo l’epoca del centrismo degasperiano, che comunque non fa parte del bagaglio comune dell’opinione pubblica per una sorta di damnatio di quella stagione politica che la sinistra nel suo complesso risolve in un inappellabile giudizio liquidatorio, ha scritto pagine e pagine sulfuree della sua storia, ad iniziare, tanto per citarne solo alcune, dal consociativismo del compromesso storico, che ha consentito all’allora Pci di penetrare nell’area del potere e di tutti i suoi recessi nonché nella società civile, alla tragica stagione del terrorismo rosso, comunque da iscrivere nel suo “albo di famiglia”, dal delitto Moro agli oscuri finanziamenti sovietici al Pci, a “Mani Pulite”, con la possibilità di realizzare il sogno della sinistra, attaccata psicoticamente alla sua irrisolta identità, di una compiuta rivoluzione anticapitalistica.
Una liberaldemocrazia – infeudata da una sinistra, che con la sua anima nostalgica e disperata, l’ha portata al patibolo – ingolfatasi in un’attività predatoria sistematica in una platea di attori parassitari per un “bottino politico” di sempre più vaste proporzioni, ora destinata a collassare sotto il peso della sua irresponsabilità. Un “dio” che è fallito, dunque, per il suo parassitismo associato alla burocratizzazione. Un tradimento assassino, un vlunus mortale alla Democrazia Rappresentativa!
E’ proprio qui il punto, un cinismo senza pari che da un lato ha consumato totalmente l’illusione riformistica e dall’altro una tirannide politico-burocratica, quella della sinistra, una iperbole para-totalitaria, una sorta di laicismo giacobino che solo retoricamente si pone come obiettivo quello della coincidenza del “sovrano” con il popolo stesso, che in realtà è diventato un’entità astratta in cui gli individui sono ridotti in granelli di sabbia, controllati e resi succubi del potere politico.
Una sinistra, dunque, in preda ad una preoccupante dissociazione cognitiva – frutto di un’idea tutta sua di nuova “religione civile” fondata su una “perenne Repubblica della virtù dei giacobini” e di un misticismo apparentemente iconoclasta – e affetta da una presunta superiorità antropologica, ostentata spocchiosamente soprattutto da parte degli intellettuali di regime, i quali, peccando di hibrys, si ritengono investiti dalla superiore missione di guidare il popolo.
Una sinistra che, pervasa dal suo ethos paternalistico e dal suo convinto monismo politico e sociale, imponendola come soluzione catartica alla quasi totalità degli schieramenti politici, non ha trovato di meglio che far rieleggere alla suprema carica dello Stato quello stesso personaggio che già ha dato prova di sé nel precedente settennato e che, comunque, se non altro per motivi di opportunità politica e in ossequio ad un incontrovertibile principio dell’alternanza, che costituisce l’essenza di ogni compiuta liberaldemocrazia, non si sarebbe dovuto o potuto rieleggere affatto. Insomma, il tutto è finito a Mozartkugeln und Gluhwein (tarallucci e vino), con un personaggio che ora si lascia santificare tra fiumi di melassa e nuvole d’incenso, in attesa di essere poi elevato a martire e salvatore della Patria. Cosicché, per la protervia della sinistra nostrana, a cui solo per eccessivo senso di responsabilità, se non proprio di timore reverenziale e di scarsa tenuta di forza resistente, una larga parte dello schieramento di centrodestra si è dovuto prostrare, si è consumata una vera e propria “barbarie” istituzionale in un’Italia distratta e qualsiasi, in cui il sistema di pensiero dominante è pervaso da una sorta di atrofia morale e da cui viene espunta quella vocazione pluralista che fa dell’anti-monismo la caratteristica fondamentale della prassi liberale, un’Italia in cui può essere adottato come vessillo la massima “Tutto è perduto, compreso il pudore”. E’ un passato dunque, come già scrivevo, che continua follemente e grottescamente a non passare!
Una crisi sistemica e una crisi morale, dunque, avvolgono come un manto funereo questa nostra liberaldemocrazia. La prima, per la mancanza di quelle riforme di struttura, ma non quelle soteriologiche eredi delle escatologie cristiane e delle utopie comuniste, bensì quelle istituzionali in primis, che potessero iscrivere questa lacerata Repubblica nel novero di quelle europee più evolute. Ma la storia del riformismo italiano è – come si sa – una storia maledetta! Maledetta per l’incapacità della classe dirigente di perseguire gli imponenti obiettivi riformistici postbellici: dalla soluzione della questione meridionale all’occupazione di tutto il potere e della società civile ad opera di una partitocrazia degenere, dalla riforma di uno sfrenato parlamentarismo – che ha avuto come contraltare la debolezza istituzionale degli esecutivi – in direzione di una matura democrazia parlamentare al disastro di una finanza pubblica messa in ginocchio da un assistenzialismo demagogico e clientelare, dalla riforma dell’elefantiasi burocratica alle “cattedrali nel deserto”, in cui si consumava cinicamente l’illusione meridionalistica. Maledetta anche e soprattutto per la sua identità e la sua ambiguità, le cui radici affondano nella stessa storia della sinistra italiana, una storia che si consuma nella contrapposizione tra riformismo e rivoluzionarismo, tra una politica di riforme all’interno di una economia di mercato e il superamento dell’ordine capitalistico, e che ha impedito l’attuazione dell’alternanza democratica, lo swing of pendulum di stampo anglosassone.
Anche crisi morale dunque, o meglio crisi delle idee e delle azioni orientatrici della vita morale, crisi di pensiero che determinano le crisi dell’azione. Ma non avevamo creduto, da liberali, che la politica dovesse essere in fondo una derivazione della morale, talché i capi dovessero porsi al servizio della comunità e non il suo contrario, così come invece accade, dato che ora è la comunità a porsi al servizio dei capi, e, per dirla con Immanuel Kant, che “La vera politica non può fare alcun progresso, se prima non ha reso omaggio alla morale”? Certo, si sa che la moralità politica “tollera”, in certo qual modo, anche una sua “amoralità” e che il realismo politico impone di tralasciare l’iperuranio dei principi per calarsi nell’essenzialità dei rapporti umani, sovente relazioni di forza, talché l’uomo politico può/deve caricarsi anche dei peccati necessari all’azione per il bene comune. Ma qui il cardine è stato scardinato, atteso che il sistema rappresentativo che ora ha prodotto il desolato risultato sotto gli occhi di tutti, si è autolegittimato in una sorta d’intoccabilità medioevale, instaurando de facto una “democrazia olistica”, che riassume in sé il monopolio della “felicità collettiva”, superiore alla somma di quella dei sottoposti: una sorta di remake dello Stato spartano!
Ecco ora apparire sulla scena il “maschio” capace di fecondare la nazione “femmina”, la triade Mattarella-Draghi-Amato! Certo, si dirà, ma non è quella della Roma imperiale, Cesare-Pompeo-Crasso né tampoco Antonio-Ottaviano-Lepido, la Roma della conquista della Gallia, della Bretagna, della Grecia e dell’Egitto. Non v’è dubbio alcuno, ma neppure l’Italia di oggi è quella Roma, anzi non è nemmeno la brutta copia! Purtuttavia avrebbe meritato una sorte migliore rispetto a quella che le hanno assegnato il Parlamento e la partitocrazia in atto, in particolar modo quella della sinistra che ha teso soltanto ad una bieca conservazione, una poco invidiabile élite che ha perso ogni parvenza di dignità e di signorile senso dell’eleganza, anche di quella morale. Oltretutto, quanto al Presidente rieletto, trattasi di quello stesso personaggio del “coup d’Etat” posto in essere – sebbene nel rispetto formale della norma costituzionale – nel riproporre, senza tener conto di una sorta di “materialità” costituzionale poggiante su difformi volontà politiche allora in atto, un monstrum sinistroide a fronte della debacle renziana a seguito dell’esito referendario del 2016.
Ma, in via più generale, siamo stanchi di leggere le solite dichiarazioni, di assistere agli stessi rituali di sempre, di vedere quegli stessi volti divenuti quasi maschere teatrali in una specie di volgare mercato del già visto, in cui gattopardianamente bisogna cambiare affinché tutto resti come prima. Una metastatizzazione dello Stato, della società, della cultura e della politica, in cui è penetrato sempre più a fondo un cancro maligno e dove a nulla servono le esortazioni di una “Cassandra” con lo sguardo rivolto al cavallo acheo che vide entrare dalle Porte Scee, appelli accorati che scivolano via come acqua sul grasso infetto che ricopre buona parte della nostra classe politica.
Cosicché la nostra Democrazia rappresentativa – che appena sorride, mostra una fitta fila di denti guasti, radi, piccoli e puntuti, e con tanto di verde tartaro, oscillante ora più che mai tra la mistificazione e il ridicolo – ristagna sul terreno putrido della fatuità, da cui promana un lezzo di muffa stantia, di miseria morale e di turpe fariseismo, una maleodorante palude in cui veleggia questa Repubblica, che sta vivendo con disinvoltura la propria incerta, tragica contemporaneità.
V’è dunque che tra il cittadino e la politica, specialmente quest’ultima, interpretata egregiamente da una clacque assassina dello Stato liberale, soprattutto un monstrum sinistroide che espande sempre più la sua attività verso l’assolutismo, si è scavato irrimediabilmente un incolmabile cleavage, una insanabile spaccatura: da una parte una élite politica tendente all’oligarchia e dall’altra una massa sempre più informe che, anestetizzata dalla “cultura del narcisismo” e dalla contraffazione dall’alto, non trova le risorse interiori per reagire alla valanga di immondizia che rischia di sommergerci tutti. La nausea di questa politica proterva, paranoica, si sta diffondendo più della nausea delle gestanti!
E’ una tela dilacerata, dunque, quella che rinvolge questa nazione incompiuta, che viene da lontano, dagli antefatti stessi – come già dicevo – della Grande Guerra, una divisività strutturale oltre che morale di un Paese caratterizzato da un macroscopico difetto di coscienza politica, un Paese in cui lo Stato è percepito dal popolo come entità astratta e lontana e in cui è troppo labile il legame che lo congiunge ad una mal conosciuta Patria. Un popolo che, per varie vicende storiche, in una macabra corrispondenza biunivoca con la sua democrazia malata, un dio ora fallito, si è ricacciato nel confuso limbo dei popoli inquieti e imbroglioni, quello dei soliti ciarlatani, venditori ambulanti di prodotti ormai deteriorati, di “stipendiati” in veste di camerieri, di cantanti e di marionette. Avevo ben paragonato, dunque, questa nazione ad una nave che procede lenta: le sue vele sono molli, è vero, però si naviga e ci si accontenta. Che importa se i piloti non sono all’altezza dei loro compiti, se le corde si aggrovigliano sul ponte, l’essenziale è che si navighi a vista! Già, perché agitarsi, la Provvidenza provvede: cosa importa se nella stiva trasportiamo il cadavere della nazione?
L’Italia è qualcosa di astratto, che ben poco interessa, soprattutto i piloti: è un Parlamento, una sala comizi, una piazza, uno sfondo su cui rappresentare la tragicommedia della sua falsa democrazia.
In siffatto contesto, dunque, attesa l’irrinunciabile valenza della democrazia liberale, per cui la libertà è sì un fardello da sostenere ma anche una opportunità ardua da coltivare, essendo facile anche smarrirne il percorso, urge ora più che mai, senza “fughe” verso un fantomatico Centro, ricompattare tutte le forze di centrodestra sull’idea della “Grande Destra”, che possa validamente replicare all’avvolgente strapotere che la crociata dei “nuovi mistici” sta disperatamente attuando.
Francesco Giannubilo, laurea Scienze Politiche ed ex dirigente della P.A., si occupa di studi storico-politici dell’età contemporanea. Pubblicista su testate provinciali e su “l’Opinione delle Libertà” nazionale, dopo la ricerca “Aspetti della politica italiana 1920-1940” (2013), il saggio “DALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA ALLA DEMOCRAZIA LIQUIDA (O LIQUEFATTA?)” (2015).
Ha pubblicato: “L’ITALIA CHE (NON) CAMBIA (2010), assieme di considerazioni etico – politiche sull’impossibilità del riformismo in Italia; “1848-1870 IL RISORGIMENTO INCOMPIUTO” (2011), una riflessione sullo sviluppo storico in Italia in termini di continuità con il processo risorgimentale; “1939-1940 IL MONDO CATTOLICO ALLA SUA SVOLTA?” (2012), un profilo critico sugli atteggiamenti del mondo cattolico dagli inizi del Novecento fino all’entrata in guerra dell’Italia.